Gennaio 2009
La crisi politica alla provincia regionale di Ragusa: Vergogna! Dialogo: gennaio 2009
Un libro di storia che si legge tutto d’un fiato La Pagina: 28 gennaio 2009
Febbraio 2009
L’unto del Signore Dialogo: febbraio 2009
Dovrebbero tacere e invece parlano La Pagina: 28 febbraio 2009
Marzo 2009
La sindrome di Stoccolma Dialogo: marzo 2009
Il buonismo e il garantismo La Pagina: 28 marzo 2009
Aprile 2009
Il futuro che stiamo costruendo Dialogo: aprile 2009
L’assoluto e il relativo La Pagina: 28 aprile 2009
Maggio 2009
Il sonno della ragione Dialogo: maggio 2009
L’Idra di Lerna La Pagina: 28 maggio 2009
Giugno 2009
Noi siamo disfattisti Dialogo: giugno 2009
Rimpianti e nostalgia Dialogo: giugno 2009
Luglio 2009
Saremmo diventati amici Franco ed io La Pagina: 12 luglio 2009
Settembre 2009
Il rimpasto e le poltrone La Pagina: 12 settembre 2009
Ho fatto un sogno. Ma guarda un po’ che sogno! La Pagina: 28 settembre 2009
Ottobre 2009
Una rivoluzione culturale per ripulire la politica Dialogo: ottobre 2009
La Destra, Berlusconi e la frittata La Pagina: 28 ottobre 2009
Novembre 2009
E se a Modica tornassimo alle urne? Dialogo: novembre 2009
Quando la tolleranza alimenta l’intolleranza La Pagina: 28 novembre 2009
Dicembre 2009
Il marciume è ovunque Dialogo: dicembre 2009
Gennaio 2009
LA CRISI POLITICA ALLA PROVINCIA REGIONALE DI RAGUSA
VERGOGNA
Sullo scorso numero di “Dialogo”, Pippo Gurrieri, parlando dell’attuale situazione socio-economica della nostra provincia, ne metteva in evidenza la grave crisi che questa sta vivendo.
“ Non si contano più – scriveva – le industrie grandi e piccole che chiudono o minacciano chiusura e ridimensionano gli organici, mentre gli altri comparti, quello edile, l’agricolo e il terziario, attraversano uno dei loro momenti peggiori (…) A tutto questo – continuava – vanno aggiunte le crisi degli enti comunali, che a Modica come a Comiso, a Scicli come a Pozzallo, con varianti tra l’una situazione e l’altra, non riescono più a far fronte agli obblighi di pagamento di stipendi ai propri dipendenti e a quelli dell’indotto”.
Una situazione a dir poco allarmante, dinanzi alla quale la classe politica della nostra provincia dovrebbe rimboccarsi le maniche e mettere in atto tutte le possibili strategie non diciamo per risolverla, ma quanto meno per attenuarne i suoi effetti disastrosi.
Da parte nostra, sempre sullo scorso numero di questo giornale, concludevamo il nostro articolo con l’amara constatazione di non riuscire ad avere un atteggiamento propositivo verso la politica modicana – ma il discorso può senza dubbio essere esteso a quella dell’intera provincia – perché la politica è diventata àncora di salvataggio per i disoccupati, strumento per favorire amici e parenti e perché è popolata da arrivisti e voltagabbana, i quali, come se non bastasse, sono anche troppo spesso incolti e incompetenti.
Se qualcuno ritiene esagerate le nostre valutazioni sui politici di casa nostra, vada a rileggersi le cronache di questi ultimi giorni sulla crisi politica (!) che sta investendo la nostra provincia, e nata dall’auto-sospensione dei tre assessori azzurri, Raffaele Monte, Salvo Mallia e Girolamo Carpentieri, che della provincia è anche il vice presidente. Tutto è nato dai forti contrasti sorti fra il presidente Antoci e Forza Italia: se qualcuno pensa che il conflitto sia nato da dissidi circa gli strumenti da adottare per porre un freno ai gravi problemi cui abbiamo accennato, se lo tolga dalla testa. Il grave problema che ha prodotto la frattura è stato determinato – nientemeno! – dalla proroga di tre mesi che Antoci ha concesso al direttore generale e suo compagno di partito, Nitto Rosso, il cui mandato è scaduto lo scorso 31 dicembre.
Anche in questo caso, sul consueto teatrino della politica, è apparsa la solita e stucchevole sceneggiata e gli autori del canovaccio sono sempre gli stessi. Orazio Ragusa e Peppe Drago, che ormai non mostra più alcun imbarazzo dinanzi alla lampante dicotomia tra quel che dice e quel che fa, hanno affermato: “ Chi conosce la storia dell’UDC sa che ci siamo sempre sforzati di lavare in casa i panni sporchi“ : evidentemente, deve trattarsi di una casa esposta ai quattro venti, perché i panni dell’UDC, sudici e nauseabondi, da tempo svolazzano nel cielo della nostra Sicilia, rendendone l’aria fetida e irrespirabile. Giovanni Mauro, da parte sua, sostiene che Antoci “ farebbe bene a rispettare le deleghe assegnate al maggior partito alleato” e, illudendosi che qualcuno possa credergli, prosegue affermando che auspica ciò al fine di giungere ad “ una maggiore concordia per affrontare le emergenze che ci sono in provincia”. Gli fa eco l’enfant prodige della politica modicana, Nino Minardo, il quale ribadisce: “ da tempo chiediamo la rivisitazione (sic!) delle deleghe con qualche rubrica da assegnare a Mommo Carpentieri”.
In tal modo, forse, il giovane rampollo della famiglia Minardo cerca di rimuovere il senso di colpa che probabilmente ancora l’accompagna, da quando l’ex nemico, diventato ormai amico, dovette farsi inspiegabilmente da parte perché sulla sua poltrona – allora era quella dell’Azienda Turismo -
potesse accomodarsi lui, che, come dimostrano i fatti, ha delle competenze così ampie che gli consentono di occupare qualunque posto dirigenziale; è naturale che adesso cerchi di procurare a Carpentieri un’altra poltrona: le ragioni, a noi comuni mortali, sfuggono, ma evidentemente quella di vice presidente non deve essere sufficientemente comoda!
Innocenzo Leontini, poi, ha superato se stesso, dichiarando: “ Franco Antoci ha infranto le più elementari regole di collegialità (…) accantonando la cosa più importante del programma amministrativo per la quale, la giunta, si era collegialmente espressa ed aveva deliberato, cioè la riorganizzazione del personale”
La situazione sociale ed economica della provincia, come abbiamo più volte ricordato, è assai grave. Le imprese chiudono, la disoccupazione dilaga, il lavoro diventa sempre più precario, il settore agricolo e quello zootecnico sono in piena sofferenza, i dipendenti comunali di molte città della provincia sono senza stipendio da mesi e le loro famiglie non sanno più come andare avanti, ma i nostri politici hanno ben altro cui pensare: devono misurarsi con un problema che, per la sua gravità, fa impallidire i precedenti e che è vitale per tutti noi: la riorganizzazione del personale!
La situazione è preoccupante come mai lo è stata e i nostri parlamentari l’aggravano con una crisi nata per la solita spartizione delle poltrone. E intanto, al danno si aggiunge la beffa, considerato che Ragusa e Drago hanno l’ardire di affermare: “ Ci appassiona poco parlare di semplice attribuzione di poltrone o incarichi “ e, con una buona dose di demagogia e politichese, proseguono: “ se tutto questo non rientra nella condivisione di un Piano strategico di sviluppo in grado di individuare le opportunità da sfruttare. Solo dopo potremo scegliere, assieme, le migliore risorse umane in grado di ‘servire’ al meglio il nostro straordinario territorio”.
Appaiono assai gravi, inoltre, le parole di Giancarlo Floriddia, segretario provinciale dell’UDC, il quale ha affermato che il motivo della crisi a viale Del Fante è legato alle nomine riguardanti quattro incarichi dirigenziali. Il vice coordinatore provinciale del PD, Tuccio Di Stallo, ha lanciato un sospetto inquietante: “ Voglio augurarmi che la proroga al direttore generale non sia finalizzata a preparare la strada per un altro concorso poco chiaro”, auspicando, altresì, un’indagine della Procura.
Che si tratti di incarichi dirigenziali o di deleghe assessoriali, quando una classe politica antepone ai problemi della gente l’accaparramento delle poltrone, non può che meritare una sola parola: vergogna!
Un libro di storia da leggere tutto d’un fiato
Giovanni Maria Pisana “La visita a Modica delle LL. MM. Ferdinando II e Maria Teresa di Borbone nel 1844” Ed. Associazione Culturale Dialogo, Modica 2008
Il libro del prof. Pisana è uno di quelli, cui la prima lettura non rende giustizia; voglio dire che una volta letto – e lo si legge tutto d’un fiato, per il suo stile piano e scorrevole – dicevo, una volta letto, lo si apprezza per il contributo che esso offre alla maggiore conoscenza di un avvenimento, quale è quello della visita, nel 1844, a Modica, di Ferdinando II di Borbone e della consorte Maria Teresa.
E già questo, di per sé, costituisce un merito. La cosiddetta microstoria vive e si alimenta della specificità delle singole ricerche e tutte poi concorrono a ricomporre quel mosaico che ci consente di interpretare e capire la realtà locale: nella fattispecie, la Modica della prima metà dell’Ottocento.
E’ necessaria almeno una seconda lettura – riferisco ovviamente una mia considerazione – per comprendere che non si tratta di un testo monotematico: a me sembra che l’autore utilizzi l’evento centrale del testo come uno strumento per raccontare una storia più complessa e articolata, e soprattutto dalle molteplici sfaccettature.
Il lettore è come preso per mano dall’autore, che lo conduce in una Modica ovviamente diversa dall’attuale, popolata da categorie sociali ormai inesistenti, da figure che hanno un parlare e un sentire che oggi, per taluni aspetti, sono per noi inconcepibili. Il lettore è come se vedesse questi personaggi: si pensi, ad esempio, al povero Sindaco, don Saverio Scrofani, che deve occuparsi persino di procurare, personalmente, il pesce per il pranzo dei sovrani. La narrazione della visita dei Reali è pertanto, a mio parere, il mezzo che l’autore utilizza per conseguire determinati fini, sui quali più in là mi soffermerò.
Intendo prima parlare dei fatti che vengono esposti e che hanno una valenza storica significativa, a prescindere da finalità più o meno recondite, e che è tale sia perché, come ogni testo storico che si rispetti, il libro possiede un apparato documentale che lo qualifica e lo legittima, sia perché l’autore è abile nel rendere accattivante un evento, che altrimenti troverebbe posto soltanto nella ristretta cerchia degli appassionati di storia locale. Il libro, invece, è destinato a un pubblico che è il più eterogeneo possibile: lo storico può trovarvi spunti per ulteriori ricerche e approfondimenti; il lettore non specialista potrà gustare uno spaccato di storia locale che non conosceva o di cui sapeva ben poco.
Inizio queste mie considerazioni, prendendo in esame la parte introduttiva del libro, ovvero quella riguardante la nostra città negli anni quaranta del XIX secolo, anche se potremmo dire più in generale la prima metà di quel secolo, perché dal punto di vista socio-economico la Modica degli anni quaranta non era per nulla diversa da quella dei primi anni dell’Ottocento. Si trattava di una realtà dove i mutamenti avevano percorsi molti lenti. La Contea, che nel 1804 era stata incamerata dal demanio, viene ripristinata nel 1816, ma la sua consistenza, come realtà politico-istituzionale, è ormai puramente formale; anche i conti Stuart-Ventimiglia avranno sì il titolo, ma questo avrà un valore soltanto onorifico.
Ebbene, in questa parte introduttiva, con una struttura sintattica semplice e lineare e con uno stile coinvolgente, l’autore apre uno squarcio sulla nostra città e lo fa’ in poche pagine, adottando una tecnica che è certamente efficace, ai fini di catturare l’attenzione di chi legge: quasi dei flash, delle istantanee su alcuni aspetti della città di allora e che sono essenziali per capirla.
Mi riferisco, per esempio, alle notizie riguardanti l’agricoltura, di cui allora vivevano i 2/3 della popolazione: un’agricoltura che poneva al centro la coltivazione dei cereali, del carrubo e dell’ulivo. E sono sicuramente importanti i riferimenti all’assenza del latifondo – un’assenza che era retaggio dell’enfiteusi cinquecentesca - e alla presenza della media proprietà, soprattutto, ma anche della piccola, a come cambiavano i rapporti di produzione a seconda delle dimensioni della proprietà: l’affitto nella media e la mezzadria nella piccola.
E ancora la descrizione del mondo artigianale: fabbri, falegnami, barbieri, sarti, calzolai, che si alternano tra la bottega e il lavoro a domicilio. E poi la nobiltà, ancora dominante nella prima metà del secolo. Sebbene non avesse più il monopolio delle cariche pubbliche – dovendo fare i conti con l’emergente borghesia della terra e delle professioni – la classe aristocratica, sia quella antica sia quella che si era elevata a nobiltà nel Seicento e nel Settecento, ha ancora un ruolo di primissimo piano nella gestione del potere.
Una realtà, dunque, quella della Modica della prima metà dell’Ottocento, tutto sommato statica dal punto di vista della struttura sociale e dell’organizzazione economico-produttiva. Nonostante con la Costituzione del 1812 fosse stato abolito il Feudalesimo, e i feudi fossero stati trasformati in allodi e dunque in libere proprietà, all’interno degli ex feudi i rapporti di produzione erano però rimasti sostanzialmente di tipo feudale. Tale staticità, invece, non si riscontra sotto il profilo politico-istituzionale, ed anche di ciò l’autore da conto in questa parte introduttiva del suo libro. Non si dimentichi, infatti, che con la legislazione varata nel 1816 le mastre nobili erano state abolite e l’antico Consiglio Civico era stato sostituito dal Decurionato. La Sicilia era stata divisa in sette province e ogni provincia in distretti. La provincia era retta dall’Intendente e ogni Distretto dal Sottintendente. Modica, che fu sede distrettuale, aveva pertanto il suo Sottintendente ed era costui che preparava la lista degli eleggibili, tra i quali poi l’Intendente sceglieva i Decurioni. Le liste degli eleggibili, saranno, nella prima metà del secolo, lo strumento tramite cui nuove categorie sociali, in modo lento e graduale, entreranno a far parte dei notabili della città. Mi riferisco soprattutto alla borghesia agraria, ai professionisti, al cosiddetto Ceto Civile – cioè quella fascia della popolazione compresa tra l’elite cittadina e i Borgesi, cioè i contadini ricchi. Per quanto riguarda il ceto dirigente modicano dei primi decenni dell’Ottocento, va tenuto presente che fu costante l’allargamento sociale delle liste degli eleggibili, ma che a questo non corrispose l’ampliamento della base sociale da cui provenivano coloro che poi realmente detenevano le redini del potere politico. La sconfitta definitiva dell’aristocrazia avverrà dopo il ’61: ma questo fu un fenomeno comune a tutta l’Isola e in generale all’Italia meridionale.
L’autore si limita ad accennare a questi mutamenti politici, non essendo questo l’argomento centrale del suo libro e dunque non lo approfondisce; tuttavia questi cenni, a mio parere, sono assai utili, perché, come ho già detto, possono invogliare il lettore, diciamo non particolarmente informato su queste tematiche, a volerne sapere di più. Da questo punto di vista, la parte introduttiva ha certamente un valore non indifferente dal punto di vista civile e culturale.
Alla parte introduttiva segue la narrazione dell’evento, la visita dei sovrani a Modica. L’autore descrive il loro arrivo al porto di Siracusa la notte del 20 Giugno; e nella città aretusea i sovrani pernottarono. Sempre via mare, raggiunsero Noto verso le tre pomeridiane del 21 Giugno, e a Noto sostarono fino a giorno 22 quando si rimisero in viaggio per Modica. Percorrendo la strada della Favarotta vi giunsero la sera intorno alle 20. La notte fra il 22 e il 23 pernottarono presso la casa di don Agostino Grimaldi nei pressi del duomo di San Giorgio. Da qui inizia la narrazione di quello che fu per la città un evento unico e straordinario: l’autore ci descrive i vari personaggi che vissero quei giorni indimenticabili, chi da protagonista, chi da semplice comparsa.
Il libro ha una straordinaria vivacità, che deriva dal fatto che non è una monotona elencazione di fatti, ma lascia parlare i protagonisti, dando così alla descrizione dell’evento una piacevole freschezza narrativa; nel contempo, egli pone questi personaggi come fossero su un palcoscenico, e il racconto si fa quasi teatro, e ciascuno li può osservare, ridendo bonariamente delle loro piccole miserie o indignandosi per taluni comportamenti moralmente non proprio ineccepibili. Ed è qui che compaiono quelle finalità recondite cui accennavo prima. Ovviamente non si mette in discussione che la visita dei Sovrani sia il tema centrale del libro, ma, a mio parere, è l’umanità la vera protagonista di questa fatica del prof. Pisana: una fetta piccolissima di umanità, certo, ma non per questo meno rappresentativa dei tratti positivi e negativi dell’essere umano. E’ di questa umanità l’autore mette bene in evidenza l’altruismo, la dedizione, il disinteresse di alcuni, e la grettezza morale e la mediocrità intellettuale di altri. Tutto ciò sembra che l’autore lo descriva con distacco narrativo e invece a me pare che non sia proprio così, perché le sue appena accennate considerazioni lasciano trasparire invece il suo coinvolgimento emotivo. Egli vuole quasi che il lettore non se ne avveda, affinché sia egli stesso a fare le proprie riflessioni senza dover subire il condizionamento del narratore.
Il quale, a mio parere, è portavoce di una visione sostanzialmente pessimistica della storia, che per certi aspetti ricorda l’immutabilità delle leggi storiche di cui parlava il Machiavelli. La storia è chiusa in una serie di percorsi determinati dal carattere ciclico delle forme politiche e dalla perennità di alcuni comportamenti umani; soprattutto quelli inerenti alla politica, che vede gli uomini guidati soltanto dal proprio interesse e che non conosce la generosità. Uomini spesso corrotti e tristi, come li definisce lo stesso Machiavelli.
Certamente interessante è la figura del Sindaco, don Saverio Scrofani, vero deus ex machina della situazione, che finisce per dover fare tutto lui, o perché, come dice l’autore, viene di fatto lasciato solo da coloro che avrebbero dovuto collaborare con lui, o per sfiducia nelle capacità organizzative dei presunti collaboratori. Quelle sul Sindaco sono tra le pagine più piacevoli del libro: sembra quasi di vederlo, il povero sindaco, mentre deve occuparsi personalmente di fare arrivare il pesce da Pozzallo (per il pranzo del 23) o in preda all’ansia perché la sera dell’arrivo dei sovrani nessuno ha pensato a comprare le galline, che furono poi acquistate in tutta fretta; era infatti di prammatica, per cena, offrire il brodo agli ospiti illustri.
Ricordo che il sindaco aveva personalmente nominato le varie Deputazioni che avrebbero dovuto occuparsi della visita: quella per le pubbliche dimostrazioni; quella per l’alloggio e il pranzo e quella per la pulizia delle strade. Ma nonostante ciò, fu di fatto lasciato solo: l’unico a coadiuvarlo fu l’abate De Leva, cassiere della deputazione per le pubbliche dimostrazioni. Questi, o perché sentiva l’importanza della visita o per senso di responsabilità, fu in quella circostanza particolarmente attivo.
E’ evidente che la figura del Sindaco Scrofani è l’emblema dell’amministratore che avverte su di sé la responsabilità del proprio ruolo; che non risparmia energie e fatiche, affinché la sua città, come suol dirsi, non faccia “brutta figura”. E’ il simbolo di un modo di intendere la politica, e cioè la politica come servizio: il politico che dà, dunque, e non il politico che prende! Insomma, l’esatto contrario di quel che avviene oggi!
La figura di quel primo cittadino è una delle poche veramente positive fra le tante che si muovono in quel contesto. Un’altra è sicuramente quella di don Agostino Grimaldi, che aveva ospitato in casa sua i Sovrani, e che il 27 Giugno, a pochissimi giorni dalla conclusione della visita, invia una lettera al Sindaco, semplice e senza fronzoli, con cui informa il primo cittadino che non intende essere rimborsato delle onze 40 da lui spese in occasione del soggiorno dei sovrani nella sua casa.
E’ il gentiluomo d’altri tempi: è il trionfo della liberalità sull’avarizia; l’affermazione della dignità e della generosità verso i propri concittadini. Ricordo che il Grimaldi non fece nulla per pubblicizzare il suo nobile gesto e la semplicità e la schiettezza della sua lettera lo dimostrano. Egli rappresenta il ricco che non ostenta la sua ricchezza, colui che possiede e non vive con l’ansia di avere sempre di più. E’ colui che mostra un sano disprezzo del vile denaro. L’autore non lo dice espressamente, ma è facile cogliere il suo rammarico per il modo in cui viene vissuta oggi la ricchezza: basti pensare alla volgarità della sua ostentazione.
Come non ricordare poi quelle persone – delle quali giustamente il prof. Pisana riporta i nomi – che liberamente, a spese loro, contribuirono alla fastosa illuminazione offrendo spontaneamente dell’olio.
Si trattava di persone semplici e dai lavori umili, come il servitore Ignazio Sortino o il barbiere Pietro Ventura. Scrive l’autore: “ Sono i soliti ingenui, gli onesti, coloro che facilmente si entusiasmano ad ogni occasione, e vogliono contribuire con qualcosa di proprio, senza ombra di calcolo o di tornaconto”. Come si può notare, qui l’ammirazione dell’autore per costoro è chiara ed evidente: è il destino delle persone oneste, che calcano la scena di questo mondo, che vivono quasi sempre nell’anonimato e che dopo la morte precipitano nell’oblio.
Mi sovviene quanto diceva, a tal proposito, Hokheimer, riguardo al suo concetto del Totalmente Altro: “ Esso è la speranza o meglio la nostalgia che nonostante questa ingiustizia, che caratterizza il mondo, non possa avvenire che l’ingiustizia possa avere l’ultima parola”. E’ la speranza “ che l’assassino non possa trionfare sulla sua vittima innocente”. Noi, che viviamo in un’epoca di gravissima decadenza, potremmo contribuire alla rinascita, se solo avessimo il coraggio di combattere questa ingiustizia, che è quella di emarginare gli onesti e sostenere i furbi.
Naturalmente, non posso non parlare, brevemente, dei sovrani, e del re in particolare, a proposito del quale l’autore scrive: ”Non era certo quel monarca imbelle e apatico, né quel tiranno che la propaganda risorgimentale ha voluto tramandarci”. Quasi a voler sottolineare la sensibilità umana del Sovrano, l’autore, nelle ultime pagine del libro, racconta un episodio, che è quello di un ragazzo poverissimo che corre incontro al Sovrano mentre esce dalla Chiesa di San Giorgio che aveva appena visitato, e gli consegna una lettera del Preposto della chiesa, che informava il Re della condizione di questo ragazzo, desideroso di studiare, ma che non poteva esaudire questa sua aspirazione a causa delle sue precarie condizioni economiche. Questi fu poi mantenuto negli studi dal Sovrano e divenne un ricco e valente avvocato.
I personaggi che ruotano attorno all’evento principale, lasciano tuttavia trasparire, troppo spesso, gli aspetti più deleteri dell’essere umano. Quelli che non vogliamo vedere, perché ci mettono a nudo: l’autore non fa’ nulla per nasconderli, anzi fa’ di tutto perché emergano: non certo per il gusto di denigrare la razza umana, ma con l’intento di sollecitare nel lettore l’analisi e la riflessione.
E qui possiamo notare, ancora di più, la machiavellica immutabilità delle leggi di cui ho già parlato, e in particolare la perennità di alcune situazioni umane.
E’ presente la raccomandazione - autentica piaga, ancora oggi, della nostra terra - nell’episodio che vede protagonista Don Emanuele Tomasi Rosso. Le deputazioni erano state formate nella seduta straordinaria dei Decurioni del 20 Giugno, e il Tomasi Rosso non era stato inserito in alcuna di queste. L’indomani, per ordine del Sottintendente, fu aggiunto in quella per l’alloggio e il pranzo.
E’ presente il Nepotismo, che non può non farci guardare all’odierna situazione italiana e anche modicana naturalmente, in cui questo fenomeno è ancora fortemente presente e inquina le fondamenta della democrazia e della meritocrazia. Tra le note di spesa presentate dall’abate De Leva Gravina, cassiere della deputazione per le pubbliche dimostrazioni, ce n’è una a firma di un certo Giambattista Gagliani, che mette in atto tutta una furbesca manovra pur di far ottenere 6 tarì a suo figlio. A riprova che il brutto vizio di favorire amici e parenti ha radici antiche e difficili da estirpare. Continuando in questa galleria di personaggi poco edificanti, incontriamo i cambia casacca, e qui occorre citare quel che scrive l’autore: “Una fauna popolata da galantuomini che sotto il vecchio regime avevano rivestito delle cariche, spesso anche importanti, e forse non tanto per merito quanto in virtù della fede borbonica e dell’intrigo. Poi, fiutata in tempo la tempesta, topi di bastimento, al momento opportuno hanno lasciato la nave preoccupati solo di crearsi un alibi atto a permettergli di cambiare casacca più facilmente, agevolati anche dai cori d’osanna degli improvvisati e interessati adulatori di turno”.
E’ inutile nascondere che ciò che avvenne alla caduta del regime borbonico ci ricorda quel che successe alla caduta di un altro, più recente regime. Se il fenomeno dei voltagabbana si fosse limitato ai regimi, sarebbe ugualmente poco dignitoso, ma almeno circoscritto; il dato allarmante è che esso ha caratterizzato e tuttora caratterizza la nostra democratica repubblica: dalle Alpi alla Sicilia, e anche nella nostra città il fenomeno mi sembra alquanto diffuso.
Non mancano, in questa storia dell’800, colore che, fiutato l’odore del denaro, si lanciano alla sua ricerca come i cani da caccia con la preda: insomma quelli che per i quattrini sono disposti a qualunque compromesso; soprattutto quello con la propria coscienza. E’ illuminante l’episodio del sacerdote Don Emanuele Matarazzo che aveva avuto il compito di controllare i “maestri” che dovevano provvedere alla pulizia delle strade. Finita la visita presentò il conto: volle i quattro tarì che non aveva potuto guadagnare, avendo perduto due messe a causa di un impegno. L’altro episodio è quello delle contemplazioni. Scrive l’autore : “Molti vollero il rimborso di quel denaro che avrebbero guadagnato svolgendo le loro normali attività lavorative, nel tempo che invece perdettero per dedicarsi ai preparativi per la venuta dei Reali. “Contemplazioni, gratificazioni ed altro, fanno chiaramente capire che ognuno si arrangiò come potè”.
Siamo nel 1844, ma potrebbe essere qualunque altro anno: purtroppo anche il 2009.
E’ giusto infine, ricordare i notabili modicani che fecero a gara per far parte delle deputazioni, per mettersi in mostra e far capire a tutti di contare; salvo poi squagliarsela al momento del bisogno, lasciando da solo il sindaco, mentre loro tranquillamente villeggiavano nelle loro case di campagna. E’ la politica dell’apparire e non del fare. Cambiano i contesti, ma purtroppo non cambiamo noi italiani.
Concludo dicendo che il libro del professor Pisana è uno di quei rari casi in cui la chiarezza narrativa sa convivere con la profondità concettuale, e di questo occorre dare merito all’autore.
Mi pare che nel suo libro trovi attuazione l’insegnamento crociano che la storia è sempre “Storia Contemporanea”. La conoscenza del passato, ed anche il giudizio storico, ove questo sia presente, nascono sempre da un bisogno pratico, quello di rispondere alle domande che il presente ci pone.
Ciò che mi ha molto colpito è che il suo libro somiglia proprio a quella vecchia strada, di cui parla nell’ultima pagina - la vecchia Modica-Ragusa, che proprio da Ferdinando II fu voluta e fatta realizzare- dove si immettono viottoli e trazzere. C’è infatti nel testo un percorso principale su cui si innestano decine di spunti, di riflessioni appena accennate, di considerazioni brevi ma incisive.
Il libro ha certamente una dimensione di carattere etico-civile. C’è una velata amarezza per le miserie umane, e nel contempo s’intuisce la speranza che l’uomo se ne possa liberare in modo integrale e definitivo
Febbraio 2009
L’UNTO DEL SIGNORE
Modica: finalmente una politica di altissimo livello
In questi ultimi giorni la politica modicana ha vissuto il suo dramma: Tato Cavallino ha abbandonato il PDL e poi, nel giro di quattro giorni, ha cambiato opinione e vi ha fatto ritorno.
Sono stati quattro giorni di interrogativi angoscianti per l’intera cittadinanza che, in preda allo smarrimento e all’afflizione, si è chiesta, attonita, il perché di tale gesto, e sono stati giorni di autentico tormento, con i nostri concittadini preoccupati per il futuro della nostra città, ben sapendo che una figura politica come quella di Cavallino è determinante per il futuro di Modica.
Ma, per fortuna, della vicenda si è fatto carico Nino Minardo, il quale, oltre ad essere l’enfant prodige della politica modicana (la definizione è nostra e dunque, essendovi affezionati, ci si perdoni se ne facciamo largo uso) in questo caso ha dimostrato di essere anche un diplomatico di razza: a quanto pare, il ritorno del figliol prodigo alla “casa madre” è merito suo, giacché è stato lui, dall’alto della sua lunga militanza partitica e delle sue non comuni doti politiche, a vigilare sull’incontro di Cavallino con il gruppo consiliare del PDL, che si è concluso felicemente a
“tarallucci e vino”.
Dobbiamo confessare che, nell’apprendere certe notizie, di cui ora diremo, un senso di compassione – da intendere nel suo senso etimologico, ovviamente – ha fatto capolino nel nostro animo: abbiamo infatti saputo che uno dei migliori politici modicani era costretto a subire imposizioni e mortificazioni sul posto di lavoro – Cavallino è un dipendente dell’Istituto autonomo case popolari – dal suo presidente Giovanni Cultrera, legato al Movimento per l’Autonomia e dunque a colui che si crede “ il reuccio” della politica iblea; così è stato infatti definito dal PDL Riccardo Minardo.
Alla compassione, poi, è subentrato un sentimento di serenità e, perché no, anche di commozione, quando abbiamo appreso del suo ritorno nel PDL, ma soprattutto che il trànsfuga vi faceva ritorno con l’assicurazione che il suo partito lo avrebbe “protetto” dalle angherie subite dal Cultrera.
Diciamoci la verità: siamo un po’ tutti preoccupati per l’uso del termine “protezione”: dobbiamo aspettarci quanto prima una guerra fratricida in provincia?
Una guerra tra fratelli, certamente, e non soltanto perché nei due schieramenti in campo vi sono due fratelli di sangue (Saro e Riccardo) ma perché, al di là delle apparenze e delle sigle che cambiano, un legame forte e indissolubile lega l’MPA e il PDL, ed è la comune matrice democristiana.
Avremo una nuova “notte dei lunghi coltelli ? “
Allora, il contrasto coinvolse Rohm ed Hitler, ma la notte che si profila in terra iblea farà impallidire quella che insanguinò la Germania; qui, infatti, sono il lotta due giganti della politica: lo zio Riccardo e il nipote Nino.
Noi non possiamo non sollecitare i nostri Lettori a formulare voti affinché la resa dei conti sia scongiurata e che nessuno dei due contendenti sia messo da parte: Modica attraversa la più grave crisi dal secondo dopoguerra e non può permettersi di fare a meno dell’uno e dell’altro, alla luce della loro totale dedizione alla città e delle loro altissime capacità politiche.
Non possiamo non condividere ciò che dice Nino Minardo e cioè che lo IACP è diventato un mero strumento elettorale e non un istituto a beneficio della gente. Non possiamo non apprezzare la sua coerenza: egli, infatti, può affermare questo a testa alta, perché a Modica, invece, la Multiservizi e la Rete Servizi, per anni legati al suo schieramento politico, non sono mai state carrozzoni clientelari, ma sono state istituite al solo scopo di beneficare la gente.
Forte di questa certezza, il Minardo, giustamente, stigmatizza l’Istituto diretto dal Cultrera.
Il fatto che quest’ultimo sia in quota MPA, e dunque amico dello zio, e che lo stesso Minardo (Nino) abbia dichiarato che quello di Cultrera “è un incarico politico sottratto a Forza Italia”, potrebbe far pensare che al Minardo nipote non freghi nulla dello “strumento elettorale” e di “beneficare la gente”, ma che tutto questo bailamme sia stato creato per togliere il posto ad un esponente del movimento per l’Autonomia ed assegnarlo ad uno del PDL, possibilmente della sua stessa corrente.
Sono le analisi dei soliti malpensanti. Chi, infatti, ha seguito, in questi anni, la travolgente ascesi politica del Minardo, sa bene che un progetto del genere gli è estraneo, perché l’unico motivo per cui ha deciso di fare politica – visto che quello economico è ovviamente da escludere - è stato quello, assai lodevole, di servire la sua gente!
Per quanto riguarda Cavallino, bisogna apprezzare anche lui. Ogni volta che ha cambiato casacca non lo ha fatto – come ritengono i soliti maligni – per trarne un qualche vantaggio, ma perché convinto che il suo girovagare per l’emiciclo dell’aula consiliare prima o poi lo condurrà ad occupare lo scranno giusto, che gli consenta finalmente di consacrare la sua vita al benessere dei suoi concittadini.
Adesso i soliti malpensanti penseranno che quanto è avvenuto sia stata solo una messinscena; la fuga e il rientro farebbero parte di un piano elaborato con cura: alzare il prezzo della sua permanenza nel PDL. Non è così. Il fatto è che Cavallino si sentiva insicuro e perseguitato da Cultrera e aveva bisogno di ritrovare un partito che avesse il calore umano del focolare domestico:
avendo ritrovato tutto ciò vi ha fatto rientro. Tutto qui!
D’altronde, lui è un istintivo, lo ha recentemente dichiarato: “ io faccio politica con lo stomaco e questo nel PDL non lo si poteva fare”. Certo, è naturale chiedersi come sia possibile che adesso, a distanza di quattro giorni, lo si possa invece fare.
Ma anche per questo c’è una spiegazione: se lui può cambiare opinione nell’arco di così poco tempo perché il suo partito non potrebbe fare altrettanto? I miracoli sono sempre possibili, soprattutto quando si tratta di un partito che ha alla sua guida “ l’unto del Signore”.
A Modica siamo giunti davvero alla frutta
DOVREBBERO TACERE E INVECE PARLANO
In questi anni non abbiamo mai fatto mancare le nostre critiche ai politici modicani, non certo per il gusto di biasimare, sempre e comunque, le scelte e le azioni di cui si sono resi protagonisti, ma per una motivazione etica che è stata ed è quella di ridestare le coscienze assopite dei nostri concittadini. Non ci siamo riusciti, né noi, né altri che, come noi, da anni conducono la medesima battaglia: ne prendiamo atto, con rammarico!
Abbiamo cercato di dimostrare ai modicani che sono amministrati da persone la cui mediocrità politica è devastante, che affossano quotidianamente la democrazia e la meritocrazia ricorrendo alla deplorevole pratica del nepotismo e del peggiore clientelismo, che hanno cambiato e continuano a mutare casacca, segno della loro incapacità di vivere nell’autenticità ideale, sempre pronti, quando cambia il vento, ad issare nuove bandiere.
Ne abbiamo messo in evidenza l’arroganza, l’incompetenza e la facciatosta, ma non è servito a nulla: ad ogni competizione elettorale, le solite facce, dai manifesti che deturpano la città, ci guardano ammiccanti e sorridenti – mentre sotto di loro appaiono le solite frasi melense – con cui ci promettono mari e monti e soprattutto di essere pronti al “sacrificio”. Per il bene di Modica, naturalmente! Il sacrificio, ovviamente, è proporzionale alla poltrona che si andrà ad occupare: il più pesante da sopportare è quello che conduce a Roma o a Palermo, perché in questo caso “immolarsi” per la propria città significa affrontare indicibili sofferenze che derivano dal mettersi in tasca, mensilmente, migliaia e migliaia di euro.
Riteniamo che adesso la misura sia veramente colma!
Non crediamo che la città possa ancora sopportare, ad esempio, i Minardo: zio e nipote. Quest’ultimo, proiettato di colpo ai vertici della politica, si permette anche di criticare l’Istituto autonomo case popolari di Ragusa perché, a suo parere, è diventato “un mero strumento elettorale”; lui che appartiene ad una coalizione che a Modica di carrozzoni clientelari ne ha tenuto in vita più d’uno. Questo signore, che non ha mai spiegato ai suoi concittadini per quale motivo, da perfetto sconosciuto, abbia potuto presiedere l’Azienda turismo di Ragusa, il Consorzio autostradale siciliano e infine la Fondazione Federico II di Palermo; che non ha mai spiegato ai modicani come ha fatto, da perfetto sconosciuto, ad essere stato inserito, alle ultime politiche, in posizione “blindata” nella lista del PDL, che gli assicurasse la certezza di essere eletto; questo signore, finché non dirà ai suoi concittadini come abbia fatto ad ottenere tutto questo, dovrebbe avere il buon gusto di tacere. E invece pontifica, dall’alto della sua inesperienza politica. Critica a destra e a manca e si atteggia a politico di lungo corso: lui che, per la sua giovane età, non ha conosciuto la politica “alta”, per la quale, in questa nostra Italia, i giovani erano disposti anche a rimetterci la vita, e l’elenco di coloro che ce la rimisero purtroppo è assai lungo. Lui, che ha conosciuto solo la politica degli slogan e dei sorrisi ebeti di Berlusconi, la politica delle giacche, delle cravatte e dei luoghi comuni, la politica senza slanci ideali e senza valori, dovrebbe tacere. E invece parla!
Lo zio, che non ha mai brillato in simpatia, adesso è diventato davvero insopportabile. Disquisendo sul dissesto finanziario del Comune – anche se non è stato ufficialmente dichiarato sappiamo tutti che c’è – si è permesso di dire che la vecchia amministrazione ha lasciato “Gerusalemme distrutta”
C’è da restarne sbalorditi!
Il deputato Riccardo Minardo è stato, in quell’ amministrazione, vicesindaco per tre anni, Enzo Scarso, attuale vicesindaco e politicamente uomo di Minardo, è stato per sei anni presidente del consiglio comunale, Paolo Garofalo, che presiede l’attuale Consiglio, e anche lui esponente dell’MPA, è stato assessore nella giunta Torchi e così un altro autonomista, quel Cerruto che è stato assessore con Torchi e adesso lo è con Buscema.
Ebbene, anziché recitare il “mea culpa”, l’MPA replica in tal modo alle critiche ricevute: “ Nessuno ha mai negato la presenza in seno all’amministrazione Torchi. Anzi, chi c’era ha scelto di non esserci più per non legittimare scelte politiche che hanno logorato le istituzioni”. Peccato che questi signori, diventati nel frattempo autonomisti, abbiano dimenticato di spiegarci per quale motivo ci hanno messo sei anni per accorgersene! Tale dichiarazione è l’ennesima conferma di quella mediocrità politica di cui parlavamo: pensavano, con quanto detto, di tirarsi fuori dall’imbarazzo e invece non hanno fatto altro che aggravare la loro posizione, che rimane paradossale e frutto di deprecabili scelte opportunistiche.
Per quanto riguarda Riccardo Minardo egli è senz’altro tra i maggiori responsabili del disastro e si erge a giudice degli altri. Lui, che con la religione – sebbene a modo suo – ha una certa familiarità, considerato che invoca spesso la Madonna e Padre Pio, non sa che è un grave peccato guardare la pagliuzza nell’occhio del fratello mentre una trave è presente nel suo!
Ancor più del nipote, dovrebbe star zitto. E invece parla! Parla anche Peppe Dago e dichiara che a lui non interressa discutere di poltrone o incarichi; e difatti lui, con la sciagurata decisione di far eleggere Torchi sindaco, come tutti sanno, non c’entra nulla!
Lui, che porta la responsabilità di aver amministrato Modica per sei anni, insieme, e certamente più del suo ex pupillo, ed è dunque primo responsabile del dissesto finanziario e del degrado politico della città, non tace, ma anche lui parla, anche lui pontifica. Per il bene della città, si capisce!
E parla anche Torchi, colui che ha iniziato, politicamente, la devastazione della città, con la sua politica dell’immagine e dell’apparire, dei riflettori e delle interviste. Lui che svuotava le casse comunali per organizzare giostre, sagre e fiere d’ogni tipo per mere finalità elettoralistiche, mentre il comune non aveva già una lira.
E’ stato durante la sua amministrazione che ha avuto inizio il calvario dei dipendenti comunali con spaventosi ritardi nei pagamenti degli stipendi; quello dei fornitori dell’Ente che non vedevano saldati i loro crediti, quello degli operatori ecologici, e la lista potrebbe naturalmente continuare.
Invece di stringere la cinghia, l’allargava per organizzare sciocchezze. Ce lo ricordiamo raggiante per l’Eurochocolate o perché Modica balzava agli onori della cronaca nazionale per il cioccolato, e intanto la città precipitava sempre più nel baratro.
Ricordiamo le sue dichiarazioni di sconfinato amore per la città, salvo poi abbandonarla, per tentare fortuna a Palermo, nella più assoluta precarietà che lui stesso aveva creato, facendo vivere Modica, per ben sei anni, in un clima di perenne campagna elettorale.
Un capitano che per primo abbandona la nave, quando questa sta per affondare, dovrebbe chiudersi nel silenzio, per il resto dei suoi giorni. E invece parla. Persino lui!
Parla Minardo zio e pontifica Minardo nipote; pontifica Drago e parla Torchi: parlano gli artefici del disastro, e intanto Modica, come una nave alla deriva, affonda, sotto la guida di un nocchiero che, forse, non ha ancora capito con quanta cura è stata pensata e preparata la trappola in cui è finito.
Marzo 2009
LA SINDROME DI STOCCOLMA
L’ espressione “ Sindrome di Stoccolma” fu usata, per la prima volta, da Conrad Hassel, agente speciale dell’FBI, in relazione a quanto avvenne nella capitale svedese, nell’agosto 1973, quando due rapinatori tennero in ostaggio per sei giorni quattro impiegati in una banca: una volta liberati, i sequestrati mostrarono grande solidarietà nei confronti dei sequestratori ( una degli ostaggi, addirittura, instaurò con uno dei banditi una relazione sentimentale) a tal punto che al processo testimoniarono in loro favore.
Con tale sindrome, pertanto, si intende quel particolare stato psicologico che induce la vittima a nutrire sentimenti positivi nei confronti del suo aguzzino. Alla luce degli ultimi avvenimenti di politica locale, noi crediamo che tale sindrome abbia colpito il sindaco Buscema e di ciò diremo più avanti.
Prima di addentrarci in questa analisi, però, riteniamo utile fare alcune precisazioni. Abbiamo sempre nutrito molta stima, sul piano personale, per Antonello Buscema, ritenendolo un uomo onesto e leale; anche se non condividiamo le sue posizioni politiche, che sono distanti dalle nostre,
e non apprezziamo l’ambiente cattolico da cui proviene, che ha una visione del Cristianesimo assai lontana dalla nostra.
Abbiamo salutato con entusiasmo la sua candidatura. Ci sembrava la persona giusta per porre fine al disastro politico e amministrativo compiuto da Torchi, troppo condizionato, a nostro parere, dal suo referente politico a livello nazionale, troppo attento a curare la sua immagine e quella della città e che ha affossato il bilancio comunale come nessuno dei suoi predecessori aveva mai fatto. Dopo tale rovinosa esperienza, abbiamo coltivato la speranza che con Buscema potesse realizzarsi la vera rinascita di Modica: non quella superficiale realizzata da Torchi - che ha prodotto soltanto alienazione, si pensi ai tanti che si sono convinti di vivere in una metropoli, vittime del più gretto provincialismo, che è quello di voler apparire a tutti i costi non provinciali – ma una rinascita autentica, che si può avere soltanto quando si sa costruire l’avvenire edificandolo sui costumi, sui valori e sugli ideali della comunità cui si appartiene.
La nostra speranza è crollata da tempo: è caduta nel momento in cui Buscema ha deciso di non andare da solo al ballottaggio. Se avesse vinto, lo sappiamo, avrebbe avuto contro la maggioranza del civico consesso che gli avrebbe reso la vita impossibile; ma in tal caso avrebbe potuto parlare ai suoi concittadini, mettere il consiglio comunale con le spalle al muro e uscire a testa alta dal Palazzo, mentre i modicani avrebbero saputo a chi attribuire l’ingovernabilità della loro città. Se avesse perso, avrebbe dimostrato un lodevole disprezzo per la poltrona e un ammirevole attaccamento ai suoi ideali personali e politici.
L’alleanza con Minardo, ossia con uno dei massimi artefici dell’attuale disastro, ha tolto credibilità a questa Amministrazione e, ovviamente, ha ridotto i suoi spazi di manovra e le sue possibilità di imprimere alla politica modicana un autentico cambiamento di rotta.
Siamo rimasti esterrefatti nel vedere la città tappezzata di manifesti del PDL che accusano l’attuale Amministrazione di essere la responsabile del dissesto finanziario della città. Evitiamo di confutare questa infamia: dimostrare la falsità e l’inconsistenza di simili affermazioni sarebbe oltremodo facile, e a noi non piace essere forti con chi è troppo debole. Noi, semplici cittadini, possiamo permetterci un simile atteggiamento, ma un Sindaco no!
Sindaco e assessori avevano il dovere di reagire con fermezza ad una provocazione che sarà pure demenziale, ma alla quale, gli ingenui – e in questa città sono tanti – potrebbero anche credere.
Non contento della mancata reazione, Buscema invita Nino Minardo e Peppe Drago, per esporre loro le sue strategie amministrative.
E’ come se i familiari di un moribondo, per tentare di guarirlo, chiamassero al suo capezzale coloro che poco prima l’avevano avvelenato. E’ una scena surreale! Ma soprattutto, ci sembra che il Sindaco abbia commesso un errore imperdonabile; coloro che lo hanno votato, infatti, gli hanno dato un mandato preciso e inequivocabile: farla finita, una volta per tutte, con la demagogia di Torchi e Drago, con la politica edulcorata e plastificata di Forza Italia, con l’allegra e sciagurata gestione delle finanze comunali, con lo strapotere dei commercianti, con la cementificazione selvaggia che ha fatto di Modica un’immensa colata di cemento. Chiedere la collaborazione di Drago e Minardo, a noi sembra un tradimento del suo elettorato.
Ed è a questo punto che tiriamo in ballo la sindrome di Stoccolma, perché non riusciamo a trovare un’altra spiegazione all’assurdità di quanto avvenuto. Né Drago né Minardo, ovviamente, sono degli aguzzini, ma è fuor di dubbio che di Buscema sono acerrimi “ nemici” e che il loro unico intento è quello di sbarazzarsene, politicamente, s’intende!
Prima dell’incontro col sindaco, Minardo aveva dichiarato: “ Ascolterò attentamente quanto Buscema avrà da esporci. Non ho preconcetti né posizioni prestabilite”. Tre giorni dopo il confronto, il suo partito attacca Buscema riproponendo le solite accuse, ossia quelle di non aver posto in essere alcuna proposta positiva per uscire dall’emergenza finanziaria, e di aver soltanto intimorito i dipendenti, i creditori e tutta la città avanzando l’ipotesi del dissesto finanziario. Lo stesso ha fatto l’UDC: “ Diciamo no a questa Amministrazione perché è palese l’incapacità amministrativa per mancanza di idee e progetti”.
Coloro che il Sindaco ha invitato al capezzale della nostra città, gravemente ammalata, sono fra quelli che hanno organizzato la trappola (ci si perdoni l’autocitazione). Fra non molto, costoro torneranno, col piglio e l’arroganza di sempre: Torchi ha già dato inizio alle grandi manovre, con la sua frequente presenza sulla stampa e nelle televisioni locali. Gli affossatori di Modica torneranno nel Palazzo e la cittadinanza – sempre più inebetita – li accoglierà come i salvatori della Patria, mentre l’incolpevole Buscema – e non Torchi – sarà ricordato come il Sindaco del dissesto!
Il nostro Sindaco, dunque, accoglie cordialmente i responsabili dello sfascio, li rende edotti su ciò che intende fare e ne ascolta persino i consigli. Sono evidenti i segni della sindrome!
Uno stato psicologico preoccupante, ma che, se colpisce un Sindaco, diventa addirittura allarmante: possiamo costruire mura, innalzare barricate, ma se il primo cittadino solidarizza con chi ha mostrato ampiamente di non amare Modica, ma di volerla semplicemente usare, la nostra città rimarrà indifendibile!
IL BUONISMO E IL GARANTISMO
Il piccolo Giuseppe Brafa se n’è andato per sempre, dilaniato da un branco di cani randagi. Mentre ancora sanguinavano i cuori affranti dei genitori e della sorella, iniziava l’inevitabile e becera azione di sciacallaggio. La volgare ricerca del responsabile di questa morte assurda ha prevalso sulla sacralità del silenzio; il frastuono delle dichiarazioni e delle testimonianze, come sempre accade in questo nostro Paese da tanti anni in balìa di se stesso, ha soffocato le coscienze, tacitando la riflessione individuale, l’unica che, in casi come questo, può aiutarci a capire il senso di ciò che accade, e preservarci dal vortice dei luoghi comuni e dell’ipocrisia.
Noi non intendiamo affatto sottovalutare la necessità che siano individuati i responsabili di questa tragedia: sarà la magistratura a decidere dove finiscono le colpe del custode dei cani e dove iniziano quelle di chi gliene aveva dato l’affidamento, e a tal proposito, ci chiediamo come sia stato possibile dare in custodia decine di cani ad una persona che, a giudicare dal comportamento avuto con le forze dell’ordine (contro le quali ha aizzato gli animali) , non ci pare sia molto equilibrata.
Possibile che nessuno se ne sia accorto?
Sarà la magistratura, infine, a stabilire dove finiscono le responsabilità del Comune di Scicli e dove iniziano quelle della Regione Sicilia che ha impiegato ben sedici anni per attuare una norma così importante come quella sul randagismo.
Si trovino, dunque, i responsabili e li si faccia pagare duramente. Ma il problema, a nostro avviso, sta altrove. Occorre guardare al di là degli accadimenti e delle responsabilità contingenti e capire che la fine atroce di questo bambino risiede in un clima culturale che non è più tollerabile, quel clima di buonismo ipocrita, che ormai si è insinuato in tutti i settori della società politica e civile, che ha finito per narcotizzare il nostro popolo, a tal punto che è ormai normale scambiare la vittima col carnefice.
E’ per colpa di questo imperante buonismo e di un esasperato garantismo che un negoziante, dinanzi ad un rapinatore armato, non deve reagire, perché, qualora lo faccia, e malauguratamente il galantuomo che lo sta rapinando muore, per lui si spalancheranno le porte dell’inferno. E’ per colpa di tutto questo che un poliziotto o un carabiniere deve prima farsi sparare addosso e poi – se ha la fortuna di essere ancora vivo – può rispondere al fuoco: anche in questo caso, se disgraziatamente ci scappa il morto, inizieranno accuratissime indagini e l’uccisore, che rischia quotidianamente la vita per un misero salario, se gli andrà bene finirà sotto inchiesta.
E’ per colpa di tutto questo che se un delinquente stupra una bambina, qualche giorno dopo, la piccola – che ha subito l’orrenda violenza e alla quale la vita è stata distrutta per sempre - dovrà subire anche l’onta di vederlo passeggiare tranquillamente, magari nella stessa strada dove ha compiuto il suo atto abominevole.
E’ per colpa di tutto questo che se un cane morde un bambino e il genitore gli assesta un calcio, corre il rischio di essere denunciato dall’animalista di turno che non tollera l’oltraggiosa pedata.
E’ per colpa di tutto questo che si vogliono costringere gli italiani ad accogliere stranieri d’ogni sorta, anche quelli che si mettono al volante, con addosso i fumi dell’alcol e della droga, e lasciano sull’asfalto, abbandonati, le loro vittime innocenti: anche con questi criminali occorre, naturalmente, essere buoni e tolleranti!
E’ per colpa di tutto questo, infine, se ancora oggi tanti cristiani, fra cui molti italiani, vengono spesso massacrati nei paesi musulmani e noi qui in Italia, visto che dobbiamo essere tolleranti e buoni, ricambiamo la cortesia costruendo moschee, che fra non molto saranno più numerose delle nostre chiese.
Questo è il clima in cui siamo costretti a vivere, ed è un clima che ha l’odore nauseante dell’ipocrisia, perché dietro l’apparente buonismo e l’esteriore garantismo si cela un egoismo gretto e volgare. Se il negoziante aggredito, la bambina stuprata, il passante investito, il bambino azzannato avessero lo stesso sangue di questa schiera di buonisti e garantisti, siamo certi che tutti, ma proprio tutti, si convertirebbero, di colpo, alla “cattiveria” e alla “intolleranza”. E’ facile fare i buoni quando le vittime nemmeno le conosci; un po’ meno quando ti appartengono!
Se non la smettiamo di alimentare questo clima ipocrita in cui viviamo, se non la finiamo di aver paura di dire ciò che pensiamo perché temiamo il giudizio altrui, l’aria che respiriamo finirà per avvelenarci così tanto che l’intossicazione diventerà irreversibile.
E’ questo clima che ha ucciso il piccolo Giuseppe.
Per quanto riguarda il branco, che si era già reso protagonista di altre aggressioni, andava abbattuto senza alcuna esitazione. Giustamente, don Salvatore Cerruto, che ha celebrato i funerali del piccolo Giuseppe Brafa, ha detto: “ Accadono cose strane, abbiamo fatto gli animali idoli, invece dobbiamo tornare alla dimensione, alla grandezza e alla dignità dell’uomo”.
Riflessioni che, considerato il clima in cui viviamo, sono destinate a cadere nel vuoto, tanto è vero che, dinanzi ad una tale tragedia – alla quale occorre aggiungere quella che ha colpito la giovane turista tedesca - la LAV, l’ENPA, e gli Animalisti italiani hanno trovato il coraggio di dichiarare: “ Non è giusto né risolutivo scaricare le colpe su un gruppo di cani senza accettarne le responsabilità esclusivamente umane nella gestione del fenomeno randagismo”.
Per farli contenti, proporremo di assegnare all’intero branco “il premio bontà”.
Se dei cani vengono colti da un raptus omicida la colpa è degli uomini. Bene! Da oggi sappiamo che quando un uomo, senza alcun motivo, sterminerà la sua famiglia, la colpa sarà stata dei cani.
Sappiamo che con quanto detto ci tireremo addosso le ire di tutti coloro che genericamente abbiamo definito buonisti. Confessiamo che la cosa non ci preoccupa!
La nostra impermeabilità alle loro critiche sarà il nostro modo, non ipocrita, di piangere la morte del nostro piccolo concittadino e di onorarne il ricordo, con la collera che solo noi “cattivi” siamo in grado di nutrire!
Aprile 2009
IL FUTURO CHE STIAMO COSTRUENDO
In questi giorni, sicuramente sollecitati dall’atroce fine che è toccata al nostro piccolo concittadino, la cui vita è stata spezzata dalla furia assassina di un branco di cani, ci è capitato spesso di riflettere sul disgraziato Paese in cui viviamo.
La riflessione è poi sfociata nell’immaginazione ed abbiamo provato a pensare come, fra un secolo o più, sarà ricordata l’epoca in cui la sorte ci ha imposto di vivere. Per quanto il passato ci possa essere caro, sia per la nostra indole sia per la nostra formazione culturale, non siamo così ingenui da rivestirlo, sempre e comunque, coi panni della dolcezza e della maestosità.
Sappiamo bene che la storia non è scritta in bianco e nero, ma si dispiega in molte sfumature che non consentono, assai spesso, di discernere con chiarezza gli eventi positivi da quelli negativi. Tuttavia, ogni epoca, anche quella che guardata con superficialità potrebbe sembrare oscura (è la sorte toccata per tanto tempo al Medioevo, per esempio, a causa della faziosa interpretazione di stampo illuministico, oggi per fortuna superata) ha quasi sempre dato, comunque, il suo contributo alla crescita civile e culturale dell’Italia e dell’Occidente.
Basti per tutte, il cosiddetto “secolo di ferro”: la grave crisi economica, l’Inquisizione, la guerra dei Trent’anni, non possono cancellare il fatto che sarà ricordato come il secolo di Galilei, Newton e Cartesio.
Ci siamo chiesti come sarà ricordato questo tempo in cui viviamo!
Che cosa stiamo lasciando, in termini di civiltà ed eticità, alle generazioni che verranno: probabilmente, soltanto un cumulo di macerie!
Ci hanno sempre dipinti come un popolo di poeti, santi e navigatori.
Un popolo non lo siamo più da un pezzo, da quando l’internazionalismo social-comunista, l’americanizzazione della nostra società, e, in parte, l’ecumenismo post-conciliare ci hanno privato del nostro Ethos e per questo fatichiamo a riconoscerci in quei valori comuni che ci rendevano una nazione: abbiamo riposto nell’oblio la civiltà greco-latina e la tradizione ebraico-cristiana, che hanno plasmato le nostre coscienze e forgiato il nostro carattere.
Per quanto riguarda i santi, i poeti e navigatori da molto tempo hanno lasciato il posto agli ipocriti e ai ladri. E’ di questi giorni la notizia di alcuni noti primari palermitani, che, in quanto medici, avrebbero dovuto essere d’esempio per umanità, correttezza e deontologia, e invece, a quanto pare, stavano in combutta con affaristi senza scrupoli per intascare denaro, che oggi, in gran parte dell’ambiente medico, conta mille volte più della serenità e della salute dei pazienti.
Forse è proprio così che sarà ricordata l’Italia del nostro tempo: un Paese di ladri!
La perdita della nostra identità ci ha defraudato persino di una fra le più elementari attività intellettive, che è quella di saper distinguere il carnefice dalla vittima.
Viviamo in un Paese sempre pronto a giustificare il delinquente e a rendere impossibile la vita a chi alla violenza e all’arroganza dei criminali non intende arrendersi.
Stiamo costruendo altari alla scienza ma li stiamo edificando sulle ceneri dell’Umanesimo, ed è per questo che veneriamo falsi idoli, come gli animali – che vanno amati, non adorati – e come ogni idolatria, anche questa, offusca le menti, a tal punto che ci poniamo dei problemi ad abbattere dei cani che hanno fatto a brandelli un essere umano, un bambino di soli dieci anni, e distrutto la vita di un’intera famiglia.
Siamo un popolo di alienati, e lo dimostra il fatto che alcuni imprenditori del Nord si sono resi disponibili ad adottare alcuni cani randagi che scorazzano nella nostra provincia.
Al di là della demagogia e della inutilità del fatto – 14 cani su un totale di 4000 randagi -
la scelta potrebbe essere anche lodevole se questa adozione fosse stata preceduta da un’altra ben più importante e significativa: quella dei bambini, di quelle creature senza colpa che in tante parti del mondo se hanno la fortuna di vedere l’alba non è detto che nello stesso giorno abbiano anche quella di assistere al tramonto, perché non hanno né cibo né acqua, per colpa di quella parte opulenta del mondo, che magari garantisce ai cani, ogni giorno, cibi sani e succulenti.
Pratichiamo il furto, l’idolatria e come se non bastasse sguazziamo nella cafonaggine: milioni di nostri connazionali guardano, con volgare voracità, le scene melense e triviali delle fattorie, delle isole di idioti più o meno famosi e dei grandi fratelli. Noi non siamo più una nazione, siamo un’accozzaglia di individui che vaga senza meta nel deserto, alla ricerca di un falso profeta – uno qualunque – purché ci dia una ragione per stare al mondo.
Abbiamo perso il senso della sacralità della parola e viviamo nelle chiacchiere; abbiamo smarrito la capacità di parlare alla nostra coscienza e ci tuffiamo sempre più inebetiti nel frastuono quotidiano.
Non sappiamo più apprezzare l’importanza del silenzio che soffochiamo persino nei momenti in cui dovrebbe scandire il tempo della sofferenza e del raccoglimento. E’ per questo motivo che da tempo, alla vista di una bara, non sappiamo resistere al volgare e stupido vezzo di battere le mani.
Stupido, perché applaudire vuol dire essere favorevole e compiacente, e quindi, nella fattispecie, si tratta di un atteggiamento quanto meno paradossale.
Volgare, perché si tratta comunque di un fenomeno chiassoso che turba la mestizia di un avvenimento triste.
Nemmeno al piccolo Giuseppe Brafa è stata risparmiata questa sguaiata e inutile sceneggiata.
L’ASSOLUTO E IL RELATIVO
Le critiche rivolte dal signor Iozzia al mio articolo “Il buonismo e il garantismo”, pubblicato su La Pagina del 28 marzo, mi offrono la possibilità di poter tornare – per la seconda e ultima volta, naturalmente - sull’argomento che ha fatto inorridire il gentile lettore, il quale, contesta le mie affermazioni in modo garbato ma deciso.
Con altrettanta cortesia e fermezza,devo innanzitutto fare osservare che le obiezioni del lettore sono l’ulteriore prova che in questo Paese, come diceva Montanelli, non è possibile andare controcorrente. La cultura socialcomunista, animalista, ambientalista – e chi più ne ha più ne metta -
ha ormai tracciato le coordinate entro le quali deve nascere e svilupparsi il conformismo intellettuale, e guai ad oltrepassarne i confini, ché altrimenti – come ci ricorda il signor Iozzia – si rischia di tornare ai tempi di Hitler e Mussolini.
Anche questa citazione, ad esempio, costituisce l’ennesima prova di come siamo diventati vittime di tale conformismo e si finisca per pensare come altri hanno stabilito che dobbiamo pensare: il lettore, infatti, associa impropriamente Hitler a Mussolini, e dimentica Stalin, che ha sulla coscienza quanto meno il triplo dei morti provocati dal tiranno tedesco e che in materia di intolleranza non fu secondo a nessuno.
Per quanto riguarda l’accoglienza riservata agli emigranti italiani, non posso che invitare il lettore a documentarsi su come venivano trattati i nostri connazionali quando, all’inizio del secolo scorso, con le loro valigie di cartone, approdavano sulle banchine del porto di New York o come venivano accolti e trattati, nel secondo dopoguerra, nelle miniere del Belgio e nelle fabbriche tedesche. Ciò, naturalmente, non significa che adesso dobbiamo riservare lo stesso trattamento ai disperati che arrivano da noi, ma evitiamo però di dare ad altri popoli, che ci umiliarono e maltrattarono, patenti di accoglienza e tolleranza che furono ben lungi dal possedere.
Vorrei, poi, tranquillizzare il signor Iozzia circa il mio essere informato sui giovani che il sabato sera frequentano le nostre piazze, visto che in gran parte sono gli stessi che al mattino, per motivi di lavoro, frequento io, che da oltre vent’anni conosco il mondo giovanile e le problematiche che gli sono connesse.
E veniamo ad uno dei motivi che maggiormente hanno infastidito il nostro lettore: il problema degli immigrati. Per quanto riguarda la questione religiosa, che non ho inventato io, tanto è vero che si parla di “martiri del XX secolo”, sono ancora tanti coloro che vengono massacrati nei paesi musulmani. Io non ho mai invocato l’ “ occhio per occhio, dente per dente”, così come non ho mai pensato e scritto che occorre impedire loro di professare liberamente il loro credo. La mia provocatoria proposta di non costruire più moschee, voleva porre in primo piano una questione sulla quale il conformismo intellettuale ci impedisce di riflettere: occorre avere il coraggio di distinguere la tolleranza dall’imbecillità, l’accoglienza dalla debolezza.
Ancora una volta, come ho già detto, ho l’impressione che dietro il buonismo si celi un becero egoismo!
In un Paese come il nostro, che seleziona persino i morti, decidendo quali sono quelli di serie A e quali quelli di serie B, e che non si fa scrupoli persino di sfruttarli per meri fini ideologici, quale importanza “politica” possono avere dei missionari trucidati in terra islamica! Un Paese che volesse difenderli – non potendo farlo né con le armi né proibendo agli immigrati la libertà di culto: su questo siamo certamente d’accordo – a quali mezzi dovrebbe ricorrere? A quali, se non a quelli della fermezza e della dignità? Costruire loro le moschee, affinché possano pregarvi in modo sereno e confortevole, mentre i cattolici vengono uccisi, non è sinonimo di tolleranza, è assenza di dignità ed è menefreghismo verso i nostri connazionali. Non sto invocando alcuna guerra santa ma soltanto una forte e decisa azione diplomatica. E se, per farci ascoltare, fosse necessario non costruire più moschee nel nostro Paese, si abbia il coraggio di farlo! Se tale politica fosse stata fatta, oggi non assisteremmo a certe situazioni che ci fanno diventare lo zimbello del mondo: si pensi a certi magistrati che decidono di togliere i crocifissi dai muri per non urtare la suscettibilità dei musulmani. Accogliere gli immigrati mi sta bene. Sottometterci, a casa nostra, alle loro leggi e alle loro credenze mi sembra inaccettabile.
Il grande equivoco che non ci permette di uscire da ciò che Kant definiva “lo stato di minorità intellettuale” è quello di avere elevato la tolleranza e la non violenza a valori assoluti. E’ per tale motivo che nel mio articolo ho toccato dei temi che ad una lettura superficiale – mi si perdoni la franchezza – sembravano non avere nulla in comune con storia del piccolo Giuseppe; e comunque, in ogni caso, tale storia non era affatto il tema centrale dell’articolo.
La violenza non piace nemmeno a me, caro Iozzia, ma senza questa, per fare un esempio, l’Italia sarebbe ancora occupata dalle truppe sabaude e da quelle borboniche, il sole dell’impero farebbe ancora capolino dietro i colli fatali di Roma e i berlinesi dell’ovest sarebbero ancora divisi da quelli dell’est. E mettiamo che un padre, per puro caso, venga a trovarsi in un posto appartato dove qualcuno gli sta violentando la figlia: nell’attesa delle forze dell’ordine, quel padre sarà o no costretto ad essere intollerante e violento? Sono certo che tutti riconosceremmo a quel padre il diritto a difendere la figlia. E pertanto tale diritto va riconosciuto a tutti i padri che dovrebbero malauguratamente trovarsi in quella situazione.
E perché se in quel caso nessuno si scandalizzerebbe della violenza paterna, dovremmo invece scandalizzarci di quella messa in atto da un negoziante che non vuol vedersi portare via ciò che ha costruito in anni di duro lavoro? E perché dovremmo scandalizzarci di un poliziotto che spara e cerca di portare a casa la pelle prima che qualcuno gli fracassi il cranio con un estintore?
Devo ripetermi: “ E’ facile fare i buoni quando le vittime nemmeno le conosci, un po’ meno quando ti appartengono”
Nessuno vuole che l’Italia diventi un paese di intolleranti e violenti. Ho semplicemente voluto porre all’attenzione un fatto che io ritengo gravissimo e cioè che questo nostro Paese non riesce più a difendere il nostro diritto alla vita - la nostra e quella dei nostri cari - alla proprietà (quella costruita col sudore della fronte) e persino alla nostra identità nazionale. Mi si provi a spiegare se liberare, grazie a mille cavilli giuridici, l’autore di un’estorsione, dopo quarantott’ore di galera, e dunque metterlo in condizione di potersi vendicare di colui che due giorni prima ha avuto il coraggio di denunciarlo, vuol dire proteggere il cittadino. Mi si provi a spiegare che difesa è mai questa!
Quando uno Stato non è in grado di difendere i cittadini, e in molti casi quello italiano non lo è, cosa rimane ad un cittadino se non la legittima difesa?
E nella legittima difesa non c’è violenza? Sono problematiche dalle mille sfaccettature e non possono essere liquidate con un frettoloso giudizio di condanna o di assoluzione.
La non violenza e la tolleranza sono, anche per scrive, valori di grandissimo spessore, ma non possono essere assolutizzati, anche perché scaturiscono dalla coscienza umana e pertanto da ciò che è per sua natura relativo.
Maggio 2009
IL SONNO DELLA RAGIONE
Sulla mediocrità culturale della classe politica modicana scriviamo da anni, per cui non è il caso di farne un’ulteriore analisi. Ciò che possiamo fare, giacché lo riteniamo utile per aprire gli occhi ai tanti nostri concittadini ormai narcotizzati, ogni qualvolta se ne presenta l’occasione – e vista la statura politica dei nostri parlamentari, di alcuni assessori e di tanti consiglieri, si presenta assai spesso – è quello di evidenziare gli atteggiamenti contraddittori, le dichiarazioni incoerenti e le argomentazioni che lasciano trasparire la pochezza culturale dei singoli.
A febbraio, ad esempio, ci siamo occupati di Tato Cavallino, perché avevamo intuito che i suoi continui interventi in Consiglio comunale non potevano essere il frutto di una sua improvvisa conversione alle battaglie ideali – il personaggio, lo diciamo con franchezza, non ci sembra particolarmente votato a questo modo d’intendere la politica – ma che erano soltanto il mezzo per ottenere maggiore visibilità sulla stampa locale, per preparare con cura il colpo di scena che poi puntualmente è arrivato.
Cavallino, infatti, abbandonò improvvisamente il PDL, perché, a suo dire, aveva un modo di fare politica non più conciliabile col suo, salvo poi rientrarvi nel giro di pochissimi giorni: il tutto, e lo scrivemmo, al solo scopo di alzare il prezzo per rimanervi, e la mossa diede i suoi frutti, perché, se ricordiamo bene, è poi finito in qualche commissione regionale.
Adesso, aspettiamo al varco il capo gruppo dell’UDC, Paolo Nigro: questi pare stia percorrendo lo stesso itinerario del suo collega Cavallino. Da mesi, ormai, staziona permanentemente sulla cronaca locale. Qualunque osservazione, anche la più inutile e demagogica, risulta funzionale al suo obiettivo. Parla di tutto e si occupa di tutto, assumendo i toni del politico di razza e soprattutto sembra aver scambiato il suo ruolo di capo gruppo nel Consiglio comunale di una cittadina della provincia siciliana con quello del suo omologo che siede in Campidoglio.
Tale atteggiamento lo ha spesso condotto a rilasciare dichiarazioni che dal punto di vista politico potrebbero suscitare solo ilarità, se non riguardassero la nostra città, sommersa da un oceano di guai che ci hanno lasciato in eredità lui e i suoi amici politici.
Come si dovrebbe reagire, infatti, dinanzi a costui che, pur di dire qualcosa, raccomanda all’amministrazione Buscema di “parlare meno e agire in silenzio”. Nella foga di parlare, pur di parlare, non s’accorge della situazione quanto meno paradossale in cui si va a ficcare, visto che poi aggiunge “ci vuole un vero piano di risanamento finanziario del Comune”. Come può questo signore sollecitare qualcuno a parlar meno e agire in silenzio, lui che non fa altro che parlare e soprattutto che appartiene ad una coalizione che ha sostenuto Piero Torchi, ovvero il politico che non ha mai agito in silenzio e che anzi, al contrario, ha inaugurato a Modica la politica spettacolo. Come può costui invocare il risanamento finanziario dell’ente, lui che appartiene ad una coalizione
che quell’Ente, dal punto di vista finanziario, lo ha distrutto.
Non contento, il capo gruppo dell’UDC definisce ibrida l’attuale maggioranza e si avventura in analisi dalle quali traspare la sua convinzione di ritenersi un politico navigato: a noi sembra, ancora una volta, che Nigro ritenga di trovarsi in un posto in cui non è: crediamo di fargli cosa utile rammentandogli che si trova a Modica, a palazzo S. Domenico, e non a Roma, a palazzo Chigi.
A noi, la maggioranza che governa Modica non piace – e la lettera che ci ha indirizzato il Sindaco sullo scorso numero di Dialogo lo dimostra – perché è veramente ibrida.
Ma questo lo possiamo dire noi, che nella nostra vita non abbiamo mai cambiato bandiera: abbiamo soltanto attenuato di molto, come è giusto che sia, l’estremismo dei nostri anni giovanili. Ma non può dirlo Nigro, che si trova in una coalizione non meno ibrida di quella che critica.
Proprio in questo caso, in cui occorrerebbe addentrarsi in profonde analisi politiche, il capo gruppo tace!
Non è del tutto improbabile che egli sconosca le storie e i valori del partito in cui milita e di quelli che frequenta. Cosa potrà mai essere più spuria di un’alleanza tra Fini e Bossi, o fra quella che il suo partito – che si dichiara cattolico: Dio abbia misericordia di loro! – per tanto tempo ha intrecciato col partito azienda, laico, liberale, liberista e filo capitalista (la separazione, infatti, non è certo avvenuta per contrasti ideali).
Vedremo, comunque, se l’interventismo di Nigro avrà gli stessi esiti di quello del consigliere Cavallino. Questa, cara Lettori, è la nostra classe politica: smettiamola di prenderci in giro sul riscatto di Modica e sul suo futuro; finché il livello politico e culturale di coloro che frequentano il Palazzo sarà questo, è bene essere consapevoli che stiamo ancora precipitando verso il fondo del baratro. Ma la tragedia ancora più grande è rappresentata dal fatto che coloro che hanno politicamente ed economicamente distrutto la nostra città possono permettersi di dire simili assurdità, e, a parte sporadiche eccezioni, tutti tacciono, come se questo rientrasse nel novero delle cose normali, e a furia di considerarle tali, la città non s’accorge più di nulla e sprofonda sempre più nel sonno della ragione.
L’IDRA DI LERNA
Nel nostro ultimo articolo su “Dialogo” abbiamo scritto che, avendolo fatto per anni, non è più il caso di occuparci della mediocrità della classe politica modicana in generale, ma che, per aprire gli occhi ai nostri concittadini ormai narcotizzati, può essere utile, oggi, evidenziare, di volta in volta, la mediocrità politica e culturale dei singoli. Per tale motivo, ci siamo rioccupati di Tato Cavallino e occupati di Paolo Nigro.
Adesso, riteniamo utile porre la nostra attenzione sul segretario provinciale dell’UDC, Pinuccio Lavima, nella speranza che le nostre considerazioni possano dare un piccolo contributo al risveglio civile di questa nostra città. Le nostre riflessioni nascono dagli ultimi avvenimenti, che, per l’ennesima volta, vedono coinvolti in problemi giudiziari esponenti dell’UDC, un partito che non prova alcuna vergogna nel dichiarare la sua ispirazione cristiana, considerato che detiene il triste primato di essere il più corrotto d’Italia, probabilmente, di Sicilia, sicuramente.
Si tratta di un partito – ma in questo è in affollata compagnia di tutti gli altri – di inveterati voltagabbana; ma su un punto dimostra però una coerenza che gli altri non possono vantare: non ha mai tradito la madre che lo ha partorito, e come la vecchia DC si barcamena tra corruzioni, concussioni e malaffare.
Basti pensare a Giulio Andreotti: gli italiani sono stati convinti, grazie ad un’ informazione manipolata, che il “divo” sia stato assolto, mentre in realtà la sentenza ha confermato le sue connivenze con la mafia, e il democristiano Andreotti non ha pagato soltanto perché i reati da lui commessi sono caduti in prescrizione. Ovviamente, questo signore dal comportamento “corretto e trasparente” è stato premiato con il laticlavio a vita. Sempre a Palazzo Madama siede un altro galantuomo, il democristiano, poi esponente di spicco dell’UDC nazionale, nonché ex governatore della Sicilia, Totò Cuffaro, sebbene interdetto dai pubblici uffici e nonostante sia stato condannato per aver favorito singoli esponenti dell’organizzazione mafiosa palermitana.
Ma l’UDC persevera nella sua politica “trasparente e anticlientelare” con una coerenza “commovente” e una tenacia “ammirevole”. In questi ultimi giorni altre “perle” hanno impreziosito la sua storia: l’assessore regionale Antonello Antinoro è indagato per voto di scambio e il deputato Nino Dina lo è per concorso esterno in associazione mafiosa.
Sarà naturalmente la Magistratura a stabilire se siano o meno colpevoli, ma ancora una volta i nostri politicanti mancano di buon gusto, non avvertendo l’opportunità di dimettersi e mostrando, come sempre, un disgustoso attaccamento alla poltrona.
E infine, il deputato Peppe Drago, condannato in via definitiva all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per non aver documentato in che modo spese i fondi riservati al presidente della Regione, quando una decina d’anni fa ricoprì tale prestigioso incarico. Egli, in occasione delle sue dimissioni da presidente del Consorzio universitario ragusano, ha dichiarato di non essere attaccato alle poltrone, eppure anche lui si guarda bene dal lasciare quella di Montecitorio, anzi pensa di ricorrere alla Corte di giustizia europea, commettendo, a nostro avviso, un errore, che è assai grave perché commesso da un deputato nazionale, che è quello di mostrare poco rispetto per la sentenza emessa da un Tribunale del suo Paese nel più alto grado di giudizio.
Lasciare la carica di deputato sarebbe doveroso, anche in considerazione del fatto che a Ottobre
dovrà affrontare un altro processo nella sua città, e con lui Torchi, Floriddia (ancora l’UDC!) ed altri.
A questo punto i nostri Lettori si saranno chiesti: e Lavima?
Ebbene, noi li invitiamo a valutare con attenzione ciò che abbiamo scritto e poi a leggere, con altrettanta attenzione, ciò che il segretario provinciale dell’UDC ha dichiarato, a proposito della condanna di Drago, sul suo partito. Un partito “ che continua a interpretare le istanze del territorio, in un dibattito politico che ha bisogno dei valori di equilibrio e moderazione (…). Consideriamo una parentesi, seppur triste della giustizia italiana, le vicende di queste ore (…) Nulla può distruggere un’esperienza politica esaltante (sic!) che ha determinato la crescita della provincia di Ragusa negli ultimi vent’anni (…) Le vicende di queste ore ci convincono ancor più della bontà dell’iniziativa politica del nostro partito”.
Cosa mai potremmo aggiungere a simili dichiarazioni? Noi non ci aspettavamo certo che Lavima denigrasse il suo partito, ma troviamo paradossale che, anziché chiudersi in un decoroso silenzio, addirittura lo esalti, e troviamo assolutamente inopportuno che tessa le lodi di un partito i cui guai con la giustizia sono all’ordine del giorno.
Si renderanno conto i modicani, prima che sia troppo tardi, della mediocrità politica di coloro che a Modica, come in Provincia, occupano delle poltrone sulle quali, se vivessimo in una società politicamente matura, non si sarebbero mai potuti accomodare?
Sembra incredibile, ma questo Paese è ancora nelle mani della Democrazia Cristiana, che è simile a quel mostruoso serpente che viveva nella palude di Lerna e le cui teste sebbene tagliate non smettevano di ricrescere.
Giugno 2009
NOI SIAMO DISFATTISTI
L’episodio accaduto il 21 maggio nell’aula consiliare del Comune di Modica – ci riferiamo all’intervento del consigliere Nino Cerruto interrotto dalla scomposta reazione del deputato Peppe Drago, del consigliere provinciale Vincenzo Pitino ed altri - non può non suscitare delle riflessioni, non soltanto per la gravità di quanto accaduto, ma anche e soprattutto perché il fatto apre uno squarcio sulla concezione che certi politici hanno della dialettica democratica.
Cerruto, come si sa, aveva espresso il suo rammarico per il fatto che i lavoratori della Multiservizi avevano applaudito l’intervento di Drago, ricordando, giustamente, che quest’ultimo è fra i maggiori responsabili della precaria situazione in cui essi si trovano. L’esponente di “Una Nuova Prospettiva” aveva anche ricordato che le vicende giudiziarie in cui è coinvolto Drago non lo rendono credibile.
A questo punto, è successo il finimondo. La pesante reazione del deputato e dei suoi amici ha, di fatto, impedito a Cerruto di portare a termine il suo intervento in aula, ed è da stigmatizzare con forza il comportamento del presidente del consiglio comunale, che non soltanto non ha fatto espellere dall’aula i facinorosi, ma non ha più ridato la parola al consigliere Cerruto. La reazione di Drago è assolutamente da condannare per molti motivi: ci limiteremo a ricordare quelli che ci sembrano i più importanti e significativi.
Il primo è talmente ovvio che ci pare quasi superfluo ricordarlo: in democrazia l’avversario lo si lascia parlare e dopo si replica e se si ritiene che questo abbia oltrepassato i limiti è legittimo ricorrere alla querela, ma non è consentito ad alcuno di intimidirlo. Un atteggiamento del genere lo si può capire, ma non certo giustificare, qualora accada in qualche sperduto paesino dell’entroterra, dove ancora c’è spazio per le coppole e la lupara, e se a sentirsi offeso è un povero ignorante.
In una città come Modica, non soltanto non lo si può giustificare ma nemmeno capire, considerato che il contesto in cui è avvenuto è il civico consesso di una città che vanta un’antica tradizione di civiltà e di cultura e che il protagonista è un deputato nazionale con una laurea in medicina e che è stato anche presidente della regione siciliana.
Quanto accaduto giustifica l’opinione di coloro che ritengono che Drago non sia politicamente adatto a ricoprire posti di prestigio, per i quali è necessario mantenere un comportamento che sia sempre rispettoso delle opinioni altrui. Un’altra considerazione riguarda il fatto che al deputato sono saltati i nervi perché Cerruto ha fatto riferimento alla sua storia giudiziaria. Drago dimentica che la Cassazione lo ha condannato a tre anni di carcere (pena sospesa) per peculato e all’ interdizione perpetua dai pubblici uffici e che è attualmente indagato dal Tribunale di Modica per riciclaggio di denaro e concussione.
Per quanto concerne la seconda questione, in base alle nostre regole giuridiche egli è ancora innocente, e sarà naturalmente la Magistratura ad assolverlo o condannarlo. Ma per quel che riguarda la prima, Drago non può far finta di nulla: è colpevole e pertanto deve assumersi le sue responsabilità. Non può inveire contro chi glielo ricorda, dovrebbe tacere e portare in silenzio il fardello delle sue colpe. Inoltre, e lo abbiamo già scritto, è inaccettabile che il partito cui appartiene, che pullula di indagati e condannati, si permetta di ritenere ingiusta la sentenza che ha condannato Drago ed è inaccettabile che lo faccia anche lui.
Siamo in presenza di un deputato nazionale che non soltanto non avverte l’esigenza di lasciare la poltrona di Montecitorio ma addirittura contesta una sentenza della Cassazione: è ora di finirla con la Casta; è ora che deputati e senatori si rendano conto che il fatto di godere di enormi e ingiustificati privilegi – il che è già di per sé scandaloso – non significa che debbano avere più diritti degli altri.
La terza e ultima riflessione riguarda i lavoratori che lo hanno applaudito. E questo è il fatto che maggiormente ci preoccupa: lo abbiano fatto per necessità o, peggio, per scelta, l’avvenimento conferma una situazione grave ed allarmante. Quei lavoratori, infatti, sono come la punta di un iceberg, sono la rappresentanza di una consistente fetta della cittadinanza, che, evidentemente, in caso di competizione elettorale, sarebbe ancora pronta a votare Drago, Pitino, Torchi e i loro amici.
Ciò significa che una gran parte di Modica non ha ancora capito che questi signori sono i responsabili dello sfascio civile ed economico di questa città, come lo sono Minardo e i suoi attuali assessori, che, convertitisi di colpo all’autonomismo e passando dall’altra parte della barricata, si illudono di far dimenticare quello che hanno combinato, dal punto di vista politico, quando erano alleati di Drago e compagni.
Ci spiace ammetterlo, ma non vediamo vie d’uscita per la nostra città. Se avere questa consapevolezza vuol dire fare del disfattismo, ebbene, lo diciamo a voce alta: noi siamo disfattisti!
RIMPIANTI E NOSTALGIA
Per noi, che siamo nati intorno alla metà degli anni Cinquanta, e che pertanto abbiamo iniziato ad interessarci di politica, con passione e consapevolezza, nei primi anni Settanta, è naturale nutrire, nei confronti dell’attuale politica, un profondo disgusto e una totale ripugnanza.
Quando dico noi, ovviamente, intendo riferirmi a tutti coloro che a vent’anni avemmo il coraggio di consacrare ad un’idea la nostra vita, di lottare perché il profumo di quell’ideale inondasse le strade della nostra Italia, per liberarla dalla demagogia e dalle falsità che anche allora inquinavano il nostro Paese. Noi, i ragazzi degli anni Settanta, ascoltavamo i Beatles e Battisti, la voce limpida di Enrico Ameri e quella roca di Sandro Ciotti e aspettavamo con ansia 90° minuto e quel gran signore di Paolo Valenti, e non potevamo immaginare che un giorno, a sostituire quei professionisti seri, eleganti e competenti, arrivassero i “professionisti” delle chiacchiere, dei litigi e delle volgarità.
Ci bastava poco per essere felici e non avevamo bisogno di torturare le nostre braccia e di avvelenare il nostro sangue per essere allegri e sorridenti: bastava una chitarra e un falò sulla spiaggia per gustare la spensieratezza della nostra gioventù.
I giorni scorrevano lieti, tra lo studio, il pallone e le feste sulle terrazze nelle sere d’estate, tra amori sbocciati e amori finiti, ma mai tutto questo ci allontanò dal nostro impegno politico. Non accadde mai che il divertimento, al quale pure non avremmo rinunciato per nulla al mondo, affievolisse la carica ideologica che era in noi e ci conducesse sulle aride strade del qualunquismo.
Noi, i ragazzi degli anni Settanta, stavamo sotto le bandiere rosse o tricolori e battevano forte i nostri cuori quando ascoltavamo, in religioso silenzio, Almirante o Berlinguer: eravamo avversari, ma se si escludono le frange estremiste e violente dell’una e dell’altra parte, c’era tra noi un’amicizia sincera. Entrambi volevamo cambiare il nostro Paese, e non c’è alcuno che possa mettere in dubbio la purezza dei nostri ideali e la forza della nostra volontà; non c’è alcuno che possa dubitare che lottavamo per renderlo migliore.
La diversità dei fini non può cancellare ciò che ci univa: odiavamo l’immobilismo e l’opportunismo della Democrazia Cristiana e dei partiti che le facevano corona, perché sognavamo l’Italia dell’ordine, della pulizia morale, della giustizia sociale, del lavoro e del progresso. Ma ciò che più d’ogni altra cosa ci univa era l’avversione al capitalismo: un sistema economico-sociale che era ed è immorale, perché è contro l’uomo, visto che non lo considera come tale ma lo valuta come una merce.
Ricordo con molta nostalgia i comizi serali durante le infuocate campagne elettorali di allora: Piazza della Repubblica a Siracusa, dove allora vivevo, si riempiva fino all’inverosimile, quando i segretari nazionali dei nostri partiti salivano sul palco, ed è ancora vivissimo, in me, il ricordo di quei lunghi cortei che percorrevano l’intero Corso Umberto per raggiungere Ortigia, fra lo sventolio delle bandiere e i nostri cori che s’alzavano verso il cielo.
E nel cielo son rimasti i nostri valori e i nostri ideali. Son rimasti pensiero: desiderammo tanto che, mazzinianamente, si legassero in un’ unione indissolubile all’azione, ma ciò non avvenne e non riuscimmo a cambiare l’Italia, e dopo più di trent’anni siamo qui a constatare amaramente che i partiti di allora, con altre sigle ed altri nomi, hanno vinto. C’è una logica ovviamente in tutto questo ed è che la politica è lo specchio di un popolo. Quello italiano scelse come governanti i vari Andreotti, Moro, Fanfani, Saragat e La Malfa; oggi ha scelto Berlusconi, Bondi, Bossi, Prodi e Rutelli. La situazione è naturalmente peggiorata: se è vero che i due gruppi sono accomunati dal disinteresse per il loro Paese e dall’unico obiettivo di coltivare i loro più o meno meschini interessi è altrettanto vero che i primi, quanto meno, avevano una cultura e delle doti politiche che i secondi son ben lungi dal possedere.
Noi, i ragazzi degli anni Settanta, non possiamo non guardare con profonda preoccupazione a quelli di oggi; non possiamo non inorridire all’idea che la loro vita, assai spesso, si consuma tra il computer e il grande fratello, fra gli amici della De Filippi e l’isola dei famosi.
Noi andavamo all’università con il Secolo d’Italia o l’Unità in bella mostra; oggi il quotidiano, e non soltanto fra i ragazzi, è diventato un oggetto misterioso. Negli anni Settanta, durante le campagne elettorali, i “rossi” parlavano di giustizia sociale, dei sacrosanti diritti dei lavoratori, dello sfruttamento nelle fabbriche e nelle campagne; i “neri” parlavano di alternativa al sistema, di corporativismo e di rinascita morale della Patria.
Insieme denunciavamo la vergogna di un Paese che lasciava che i suoi governi venissero fatti dagli Stati Uniti e della Confindustria e insieme si lottava perché in Italia si realizzasse una vera giustizia sociale: gli uni invocavano la nazionalizzazione dell’economia, gli altri la socializzazione.
Nelle campagne elettorali di oggi si parla delle attricette, delle veline e delle feste di Berlusconi!
Luglio 2009
Ricordo di Franco Antonio Belgiorno
SAREMMO DIVENTATI AMICI FRANCO ED IO
Ho conosciuto Franco Antonio Belgiorno tre anni fa; non posso dire che diventammo amici: l’amicizia, per chi, come me, è convinto che le parole abbiano ancora un senso, è un sentimento che ha bisogno di anni per germogliare nella sua autenticità e che pertanto necessita di essere alimentato con l’acqua di una costante, direi quasi quotidiana, frequentazione, che tra me e Franco non c’è stata. Eravamo, però, sulla buona strada, visto che abbiamo fatto in tempo a maturare una stima reciproca che non è mai venuta meno.
Ricordo con molto piacere e tanto rimpianto le sue lunghe telefonate, che furono assai frequenti, soprattutto nei primi mesi successivi al nostro primo incontro: inutile dire che ero lusingato che scegliesse proprio me per esternare l’amarezza che aveva dentro, e che in quelle occasioni soffocava il suo spirito goliardico che in lui non s’era mai spento, nonostante la vita lo avesse molto provato, a causa della malattia sua e della moglie, e della perdita dell’amato fratello Duccio.
Ma si trattava di un momento, poi riaffioravano le sue battute esilaranti e sembrava compiacersi di essere stato lui a generare la mia irrefrenabile ilarità.
La sua sottile e intelligente ironia era per lui come l’acqua che rinfresca un arido giardino, quello del suo inguaribile pessimismo, senza, tuttavia, che quell’acqua diventasse uno strumento di fuga e di alienazione. Telefonarmi, per lui, era un modo di liberarsi d’un peso che gli procurava fastidio e sofferenza: era lo sfogo di un galantuomo che mi confidava il suo grande rammarico per le pietose condizioni in cui era stata ridotta la sua amata Modica.
Se è vero, infatti, che non perdeva occasione per parlarne male, e la cosa dava fastidio a molti – a coloro che erano incapaci di leggere tra le righe delle “cattiverie” che le riservava – è altrettanto certo che amava infinitamente questa città: si sentiva, come mi disse più volte, come un marito tradito! Non sopportava l’idea che la Modica sobria ed elegante fosse stata trasformata, da politici volgari ed ignoranti, in una sorta di chiassoso circo equestre. Coloro che in questi anni hanno avuto la bontà di leggere quanto ho scritto su “Dialogo” e su “La Pagina”, capiranno per quale motivo con Franco ci intendemmo subito.
Perché Franco - nelle celebrazioni in occasione della ricorrenza del suo 70° compleanno mi pare non sia stato sufficientemente sottolineato - non sopportava i mestieranti della politica, non tollerava l’ineleganza e la maleducazione, e il maldestro tentativo di volerle nascondere con le cravatte, gli abiti firmati e le macchine lussuose. Come dire: dall’innata volgarità alla scurrilità dell’ostentazione! E mi spiace molto che ai suoi funerali sia stato presente qualcuno di questi imbecilli, e che lui non potesse far nulla per scaraventarli fuori.
Molte cose ci univano, oltre a quelle già dette. Mi piace ricordarne due: l’essere nati entrambi a Siracusa e l’aver poi scelto di vivere nella città dei nostri padri e l’avversione per un’ espressione ormai, purtroppo, assai diffusa, anche tra coloro che ignoranti non sono, che è quella del “fare cultura”, convinti, io e lui, che la cultura non si fa, ma la si possiede.
Ci vedevamo una volta al mese, nella redazione di “Dialogo”. Mentre il solito gruppo di amici e collaboratori era impegnato nella piegatura del giornale, Franco arrivava, eccentrico, nel modo di fare e di vestire. Si sedeva, senza togliersi l’immancabile cappello, e cominciava per noi il momento più simpatico del nostro già cordiale incontro mensile. Le battute sull’Amministrazione
Torchi – che gli era, come al sottoscritto, particolarmente antipatica e sgradita – fioccavano con una intensità travolgente; erano momenti di grande ilarità, come quella volta in cui propose di cambiare nome alla nostra città e di chiamarla “Minardia”.
Nei due anni prima che ci lasciasse si era dunque avvicinato ai redattori di “Dialogo” e proprio su quel giornale aveva letto gli articoli di quel modicano che si cela sotto lo pseudonimo di “Terzo Occhio”, il quale, sul numero dell’Ottobre 2006, aveva avuto per Franco Belgiorno parole di elogio.
Nel numero successivo, Franco gli rispose, e riferendosi agli articoli che allora scriveva per “Il Giornale di Sicilia”, scrisse: “ Credo che i lettori, di qualunque colore essi siano, non abbiano nemmeno recepito questo lavoro” - si riferiva, come egli stesso aveva scritto nella prima parte della sua risposta, al suo tentativo, tramite quegli articoli, di far capire ai suoi concittadini, che l’Amministrazione Torchi stava conducendo Modica allo sbaraglio - “ Una sorta di fatalismo che ben conosco, che in parte avevo dimenticato vivendo nel cuore di un’Europa dove la politica è serio lavoro”.
Strinse certamente rapporti di collaborazione col gruppo “Terzo Occhio”. Infatti, trascorso poco tempo dalla sua geniale proposta di cambiare nome alla città, nelle edicole di Modica apparve un numero del cosiddetto “foglio di battaglia”, che il gruppo pubblica con scadenza non periodica, il cui titolo, a caratteri cubitali, era proprio “Minardia”. Ciò è confermato anche dal fatto che successivamente, per le Edizioni Terzo Occhio, uscirono tre suoi libelli, che scelse di pubblicare con uno pseudonimo. So, da fonte certa, che si tratta di piccoli capolavori, che lasciano trasparire la sua impareggiabile ironia e mi auguro che, quanto prima, la città possa conoscere e apprezzare queste ultime sue satiriche pennellate sulla mediocrità e sulla bassezza morale di molti politici modicani.
Il suo rimpianto per il passato – e questo ci univa profondamente – non era mai fine a se stesso, ma era un’implicita condanna del presente che odiava, quello dell’ignoranza, del frastuono, della volgarità e della mediocrità, che hanno tolto all’antica capitale della Contea la sua unicità e l’hanno trasformata in un paesone che vive nell’apparenza e nella superficialità.
Saremmo diventati amici io e Franco e mi spiace che non possa più dire le stesse cose che dico io, ma che dette da lui acquistavano certamente maggiore autorevolezza.
Settembre 2009
IL RIMPASTO E LE POLTRONE
A quanto pare, entro il mese di settembre sarà effettuato il rimpasto in seno alla giunta Buscema. Di questo rimescolamento delle deleghe assessoriali a Palazzo San Domenico se ne parla già da alcuni mesi ed ha costituito, in quest'estate umida e afosa, l'argomento di cui maggiormente si è discusso, in assenza di una vera cronaca politica che nella stagione estiva, come si sa, è assai spesso latitante. Abbiamo sempre stigmatizzato i rimpasti nella giunta Torchi: se ne fecero talmente tanti che ne perdemmo il conto! Il fatto che, al contrario di quanto accadeva per Torchi, abbiamo stima per Buscema, tanta come persona, un po' meno come politico, non può esimerci dal riservare a' lui le stesse critiche che allora non facemmo mancare a colui che continuiamo a ritenere il peggior sindaco che Modica abbia avuto. In una sua civilissima replica, sul mensile Dialogo dell'aprile 2009, in risposta ad un nostro articolo, pubblicato sullo stesso giornale il mese precedente, l'attuale sindaco testualmente scriveva: "Appare chiaro che il suo è più un pregiudizio che un giudizio allorché afferma di aver perso la speranza sulla mia sindacatura già sin dal ballottaggio e quindi prima di vedermi all'opera". Si riferiva alla nostra delusione scaturita dalla sua alleanza con Riccardo Minardo. Adesso, però, l'annunciato rimpasto non è un evento frutto della nostra fantasia, è un dato di fatto e pertanto le nostre valutazioni non vanno inserite nel quadro nebuloso dei pregiudizi, ma in quello limpido e chiaro dei giudizi, proprio perché ci troviamo dinanzi a un dato politico inequivocabile. Un elemento assai sconfortante è rappresentato dal fatto che l'imminente rimpasto dimostra l'inconsistenza della presunta diversità del centrosinistra: non possiamo certamente credere che quando questi squali idi caroselli li faceva Torchi erano legati alla spartizione delle poltrone, mentre adesso che li fa Buscema dipendono dalla necessità, come afferma Giancarlo Poidomani, di effettuare "una nuova ripertenze, un nuovo sprint per aggredire altre emergenze e problematiche di cui soffre da anni il Comune di Modica". Le parole del coordinatore 'cittadino del PD sono in palese contraddizione con queste sue altre affermazioni infarcite di retorica: "In questi dodici mesi tutti hanno lavorato dando il massimo, sacrificandosi e mettendo gli interessi della città in primo piano. Tutti adesso hanno dato la propria disponibilità a restituire le proprie deleghe". Ci spiace ripeterei, ma come allora lo chiedemmo più volte a Torchi in occasione degli innumerevoli rimpasti che caratterizzarono la sua sindacatura - non ottenendo mai, ovviamente, alcuna risposta - lo chiediamo adesso a Poidomani: come mai degli assessori, che hanno dato il massimo, che si sono sacrificati per l'ormai famoso "bene" della città, che hanno dimostrato non solo competenza ma anche abnegazione, non sono però adatti a garantire il nuovo sprint, ad aggredire le emergenze, ecc. ecc. Poidomani e Buscema spieghino alla cittadinanza quali sono le competenze e le qualità umane di coloro che subentreranno. Dimostrino, in altre parole, in maniera inequivocabile, che i subentranti danno maggiori garanzie degli estromessi (non abbiamo più l'età, ovviamente, per credere alla favola della loro disponibilità a restituire le rispettive deleghe). Se non sono in grado di fare questo, abbiano la bontà di tacere e di ammettere che bisogna sacrificare gli attuali assessori perché altri scalpitano per guadagnare l'agognata poltrona e perché occorre accontentare tutti, per una mera questione di correnti e di amicizie: alla faccia delle emergenze "di cui soffre da anni il Comune di Modica". Ciò per quanto riguarda le sostituzioni; per quel che concerne la rimodulazione delle deleghe, non v'è dubbio che questa è in palese contraddizione con le competenze più volte riconosciute agli attuali assessori. Che il rimpasto lo voglia Minardo è naturale, rientra nel suo modo di intendere la politica, quella che non smetteremo mai di combattere con le uniche armi che possediamo: quelle del libero pensiero e quelle di scrivere ciò che pensiamo, visto che non abbiamo padroni. Buscema e Poidomani, però, hanno illuso i cittadini, perché hanno costruito la loro vittoria elettorale puntando sulla presunta discontinuità con la precedente amministrazione: il futuro rimpasto, invece, traccia una deludente linea di continuità con l'amministrazione Torchi, che tanti guai ha procurato alla nostra città. Buscema, Poidomani e gli altri esponenti della coalizione di centrosinistra si trovano impigliati in un'eclatante contraddizione e in una situazione poco edificante: o il centrosinistra è simile al centrodestra (la destra di Berlusconi e quella "cosa" indefinibile e ibrida creata da Fini, ovviamente) oppure si sta inchinando al diktat di Riccardo Minardo, che addirittura - come apprendiamo da " Il Giornale di Sicilia del 30 agosto - ha già annunciato i nomi dei suoi futuri assessori, infischiandosene degli appelli alla collegialità fatti dal PD e dai suoi alleati: nell'uno e nell'altro caso, non possiamo non constatare, con profonda amarezza, che ii riscatto di Modica non è ancora incominciato.
HO FATTO UN SOGNO. MA GUARDA UN PO’ CHE SOGNO!
In una di queste ultime notti ho fatto un brutto sogno: i sogni, di solito, rimangono confinati nella parte più recondita del nostro animo e di norma svaniscono con le prime luci dell'alba. Stavolta, però, non è stato così. Sia il contenuto manifesto, quello che Freud definiva la scena onirica, sia quello latente, mi hanno perseguitato e tuttora ancora mi opprimono, benché siano passate quarant'otto ore dall'incubo. Per quanto riguarda la decisione di renderlo pubblico, nasce dal fatto che l'oggetto del sogno non riguarda soltanto me ma l'intera cittadinanza. Non mi resta dunque che raccontarlo.
Era un grigio e nuvoloso giorno di settembre, un fastidioso vento sollevava in aria i sacchi d'immondizia che da giorni erano accatastati accanto ai contenitori per l'ennesimo sciopero dei netturbini, quando i modicani, esterrefatti, appresero una notizia da fare impallidire anche quelle di carattere nazionale e internazionale: Saro e Riccardo Minardo si erano riconciliati! Cosa sarebbe successo adesso? Questa era la domanda che albergava nella mente di tutti i miei concittadini e nella mia. E il Sindaco, avrebbe resistito a un'onda d'urto di tali dimensioni? Poi, tutti fummo assaliti come da un torpore, in attesa di assistere alt'evoluzione degli eventi, come fossimo consapevoli che, comunque, nulla avremmo potuto fare per cambiarne il corso! Durante la notte successiva alla ritrovata armonia, dovette sicuramente. accadere qualcosa; i particolari ci sfuggono, perché si perdono nella nebulosa dimensione del sogno: Buscema, infatti, recandosi, come ogni mattina, a Palazzo S. Domenico, trovò il suo ufficio ermeticamente chiuso. Provò a chiedere spiegazioni a dirigenti e semplici impiegati, che rintracciò alla Latteria per la prima delle tante pausecaffè della giornata, ma non trovò alcuno disposto a dargliele. Alla fine, da solo, riuscì a scoprire che il suo ufficio era stato spostato, ma non in un'altra stanza dell'edificio, bensì in una vecchia masseria di una contrada modicana: ho provato a ricordarne il nome, ma nonostante gli sforzi, non mi sovviene: lui sì che se n'è andato alle prime luci dell'alba! Stanco ed accaldato pur essendo settembre il caldo continuava a non darci tregua - Buscema si recò alla vecchia masseria ed entrato scorse, dietro l'ampia scrivania, il volto soddisfatto e sorridente di Riccardo Minardo. Che cosa j due ex alleati si dissero non lo so, per il semplice motivo che non lo ricordo. Certo, si può immaginare lo stato d'animo dell'ormai ex sindaco quando vide, nella stanza del suo successore, il suo vice sindaco, Enzo Scarso, che era riuscito a conservare la sua carica e mostrava un atteggiamento amichevole e cordiale nei confronti di Minardo, A questo punto, saranno state le quattro del mattino, mi svegliai, madido di sudore, e lo confesso, mi dispiacque che si era trattato solo di un sogno, ma soltanto perché ero rimasto vittima della mia vanagloria: mi dispiaceva, infatti, non poter rinfacciare a Buscema di non avermi dato ascolto tutte le volte che gli avevo ricordato ch'era stato un errore l'accordo con l'ex senatore. Mi riaddormentai con la speranza di scoprire come la storia sarebbe andata a finire, e Morfeo fu con me generoso: quella la scena, quelle situazioni e quei personaggi tornarono ad animare i miei pensieri notturni. Tutti i consiglieri comunali dell'attuale maggioranza, esclusi quelli dell'MPA, si dimisero - il come e il perché ciò avvenne non è dato sapere; d'altronde, si sa che nei sogni non tutto ciò che accade ha una spiegazione logica e razionale - e nell'emiciclo del civico consesso fecero il loro ingresso, spavaldi e baldanzosi, tutti coloro che militando nelle file del PDL erano stati trombati alle ultime amministrative. L'UDC restò fuori dal consiglio comunale e dalla giunta e Peppe Drago, seguendo le orme del suo ex pupillo Piero Torchi, anticipò il suo mesto addio alla politica: lo seguirono, in questo triste viaggio, tutti coloro che per anni lo avevano servito e riverito, e del,'UDC a Modica non si sentì più parlare. Per quanto riguarda la giunta, fece scalpore il fatto che a Nino Minardo, pur rimanendo a Montecitorio, furono assegnati ben quattro assessorati! Un evento, sebbene non perfettamente nitido, e ciò trattandosi di un sogno è naturale che possa accadere, ricordo che mi ha procurato angoscia per molte ore: Minardo, il padre di Nino, offrì una cifra stratosferica per acquistare Video Mediterraneo, e Carpentieri, dopo una iniziale riluttanza, finì per accettare. Passata nelle mani di Saro Minardo, l'emittente fu associata a quella del fratello, e il nuovo network, che fece a meno di quei giornalisti che non risultarono graditi, divenne un colosso in grado di competere con Mediaset: Berlusconi, nell'occasione, fece di tutto per impedirne la nascita, ma alla fine anche lui dovette arrendersi! Per alcuni giorni Piazza Matteotti vide alternarsi sul palco personaggi chi fossero non lo so che arringavano la folla e inveivano contro i Minardo che si erano assicurati il controllo della politica modicana e persino dell’informazione televisiva. Dopo qualche tempo, di questi personaggi non si seppe più nulla: alcuni passarono addirittura con la famiglia Minardo - il perché non so dirlo - altri preferirono defilarsi e di loro non si ebbe più notizia. Ciò che invece fece notizia, non solo a Modica ma in tutta l'Isola, fu l'insediamento del nuovo consiglio comunale. In quella occasione, il sindaco Riccardo Minardo, prima di andare ad occupare la sua poltrona, andò ad abbracciare il fratello, seduto fra il numeroso pubblico, per una foto ricordo. Alla domanda dei giornalisti presenti rivolta a entrambi, per sapere quali erano i loro sentimenti ora che si erano riavvicinati, i due fratelli, all'unisono, risposero che loro, in verità, non si erano mai allontanati! A questo punto, nove persone; che per anni erano rimaste nell'ombra, si precipitarono accanto ai l\!1inardo: erano i membri del gruppo Terzo Occhio che rivendicavano l'esattezza della loro profezia; nel giugno del 2008, infatti, quel che ora stava accadendo l'avevano predetto nel loro foglio di battaglia, quello con il titolo "Minardia". Non so quali fossero le intenzioni dei nove, ma dal quel momento l'aula consiliare divenne una bolgia e molti consiglieri tentarono di passare alle. vie di fatto: il momento era opportuno per fargliela pagare a quelle stramaledette ombre! Cosa accadde dopo non so dirvelo, perché a quel punto l'inesorabile suono della sveglia mi riportò nella realtà, certamente non idilliaca, ma più rassicurante di quella che aveva animato la mia travagliata nottata!
Ottobre 2009
UNA RIVOLUZIONE CULTURALE PER RIPULIRE LA POLITICA
Il degrado di Modica - su cui tutti concordano, di cui tutti parlano e per risolvere il quale nessuno fa niente - ha origini lontane, ed una sua disamina, approfondita e minuziosa, è ormai affidata a coloro che in futuro scriveranno la storia di questa città dal secondo dopoguerra in poi. Lasciamo dunque la storia a chi verrà dopo di noi e occupiamoci della cronaca. Abbiamo assistito, in questi ultimi anni, alla devastante esperienza politica dell'Amministrazione Torchi: sono stati gli anni in cui a palazzo San Domenico si respirava l'aria malsana della demagogia, del rampantismo e del nulla ideologico. Modica è stata trascinata nel catastrofico vortice dell'apparire e della più squallida superficialità ed è stata travolta dal rovinoso turbine della cementificazione selvaggia, degli avvisi di garanzia e della sconsiderata aggressione alle sue zone sottoposte al vincolo ambientale e paesaggistico. Avevamo sperato - lo abbiamo scritto molte volte - che qualcosa potesse cambiare con la nuova Amministrazione, considerata la stima che abbiamo per Antonello Buscema, ma, osservando quel che sta accadendo - valga come esempio l'avvilente valzer delle poltrone assessoriali - e quel che è accaduto, ovvero l'accordo - da noi già ampiamente e ripetutamente biasimato - con uno dei principali artefici del decadimento di Modica, non possiamo, ancora una volta, non riconoscere nella nostra terra quanto fu profetico Tomasi di Lampedusa nel descrivere i
Siciliani e nel capire come vanno le cose, Per quanto riguarda Modica, dunque, sono cambiati, solo in parte ovviamente, i protagonisti della politica, ma nulla è realmente mutato: i problemi decennali della nostra città sono ancora lì a ricordarci che l'affermazione "per il bene della città", che insopportabilmente condisce ogni discorso di sindaci, assessori e consiglieri, è soltanto uno slogan vuoto ed inutile.
La cementificazione non si è arrestata, il traffico veicolare continua ad essere infernale, i contenitori dell'immondizia sono stracolmi a giorni alterni, e le strade, ormai in condizioni pietose, sono invase, con preoccupante frequenza, da sacchetti orribili e maleodoranti; e intanto i dipendenti del Comune e delle società ad esso collegate devono ancora sudare le proverbiali sette camicie per ottenere il loro sacrosanto salario, le nostre spiagge e le nostre campagne sono rese insicure dalla presenza di cani famelici (la ferita aperta dalla tragica fine del piccolo Giuseppe non si è certo rimarginata nelle nostre coscienze, e il fatto che il massacro sia avvenuto nel territorio limitrofo di Scicli non cambia naturalmente i termini della questione) e le attese per le visite specialistiche nel nostro Ospedale hanno ormai raggiunto tempi biblici: alla faccia della salvaguardia della salute dei cittadini! Questa era la situazione all'epoca dell'Amministrazione Torchi, un Sindaco che abbiamo "politicamente" odiato con tutte le nostre forze; questa è la situazione con l'Amministrazione Buscema, un Sindaco che invece stimiamo per la sua correttezza e per il suo sincero desiderio di voler fare davvero il bene di questa città, ma che, a giudicare da quanto abbiamo finora detto, evidentemente non è adeguatamente supportato per poterlo fare: non riteniamo, infatti, che tutti gli esponenti del suo partito, né tanto meno quelli vicini a Minardo, siano animati dalla sua stessa aspirazione e non crediamo che la fatiscente e disorganizzata struttura burocratica del Comune - sulla quale, peraltro, non ci sembra che Buscema abbia ancora inciso in maniera risoluta- possa essergli di aiuto. Parafrasando Lenin - e la cosa, chi ci conosce lo sa bene, non ci esalta - non ci resta che porci la domanda: "Che fare?". Noi non abbiamo, ovviamente, la presunzione di sapere tutto ciò che occorrerebbe fare per salvare Modica, abbiamo invece la convinzione che se i partiti - il discorso naturalmente vale per la nostra città come per l'Italia intera - osservassero alcune regole nella compilazione delle liste, in occasione delle competizioni elettorali, forse qualcosa potrebbe veramente cambiare nel nostro Paese e nella nostra città: la condizione preliminare per poter applicare le regole di cui adesso diremo è che l'Italia diventi un Paese veramente democratico, perché non lo è e non lo sarà fin quando i cittadini non potranno realmente scegliere i loro rappresentanti, visto che coloro che dovranno essere eletti sono già stati scelti dai vertici del partito o della coalizione. Immaginiamo quale rivoluzione attueremmo se i segretari dei partiti - a livello nazionale e regionale - e i loro coordinatori - a livello locale - fossero messi sotto la tutela di Probiviri, e come tali inattaccabili sotto il profilo del prestigio e della pulizia morale, col potere dato ai secondi di poter cacciare i primi in qualsiasi momento, qualora non fossero più ritenuti degni di ricoprire quella carica. Immaginiamo, se si impedisse ai disoccupati - quelli che sono tali per scelta, e ce ne sono tanti - di poter fare politica e trasformare questa da arte nobilissima di servire gli altri a strumento per "sistemarsi", per guadagnare quattrini continuando a non fare nulla e per rubare, così da poter mettere da parte il gruzzolo per il tempo delle vacche magre, perché non si mai! Immaginiamo, se le porte della politica venissero chiuse agli ignoranti, che, in quanto tali, non possono dare alcun contributo al progresso culturale della città (o dello Stato), e che ricorrono assai spesso ad atteggiamenti arroganti, per nascondere i complessi d'inferiorità che li affliggono. Immaginiamo, se a tutti coloro che ricoprono una carica politica - dal deputato nazionale e regionale all'assessore provinciale, dal sindaco all'assessore comunale - fosse dato uno stipendio pari a quello che percepivano svolgendo il loro lavoro (più un rimborso spese, naturalmente): siamo certi che in poco tempo i palazzi della politica si svuoterebbero e, come per incanto, nell'animo di quasi tutti si spegnerebbe la fiamma della loro "passione politica". Immaginiamo, se tutti i condannati in via definitiva venissero scaraventati fuori dai palazzi della politica dove siedono indegnamente. Immaginiamo, se tutti coloro che hanno ricevuto avvisi" di garanzia fossero costretti a dimettersi e fosse loro consentito di poter tornare a fare politica - con un adeguato risarcimento, ovviamente - solo quando fosse stata provata la loro innocenza. Questa è la rivoluzione che auspichiamo ! Finché la fedina penale immacolata, la pulizia morale, la cultura, il distacco dal denaro, il disprezzo per ogni forma di clientelismo e di nepotismo non saranno le condizioni imprescindibili per diventare consigliere comunale, assessore, sindaco o deputato, continueremo ad illuderei che cambiando gli uomini o le coalizioni modificheremo il nostro Paese o la nostra città: senza la rivoluzione culturale che abbiamo descritto non salveremo l'Italia e non salveremo Modica!
LA DESTRA, BERLUSCONI E LA FRITTATA
Ho letto con attenzione ed interesse l'articolo "Lo zabaglione e la frittata del lodo" di Ezio Castrusini, pubblicato sullo scorso numero de La Pagina. Devo confessare di averlo trovato un po' troppo di parte nel descrivere le vicende legate al lodo Alfano e alla reazione del nostro premier. Mi sembra doveroso, innanzitutto, sgombrare il campo da ogni equivoco: non ci tengo affatto ad essere scambiato per un berlusconiano.
Non lo sono mai stato, e chi ha avuto la bontà di leggere quanto ho scritto in questi anni su La Pagina e su Dialogosa benissimo che nutro per il "burattinaio di Arcore" - mi si perdoni l'autocitazione - poca stima e pochissima simpatia; tra l'altro, non mi capita quasi mai di condividere le sue idee politiche, per il semplice motivo che io sono di destra e lui no! Anche Castrusini, come del resto la maggioranza degli italiani, cade nell'equivoco di considerare Berlusconi un uomo di destra: il nostro capo del governo non lo è, come non lo sono mai stati e non lo sono tutti coloro che hanno militato nel partito-azienda da lui fondato; come non lo sono mai stati e non lo sono quelli politicamente nati in Alleanza Nazionale (anche se alcuni in quel partito lo sono stati); come non lo sono mai stati e non lo sono coloro che si abbeverano alle sorgenti del Po.
Il PDL. non è una coalizione di destra per il semplice motivo che è fondata su valori ed è mossa da ideali che sono antitetici a quelli di destra. All'unità nazionale, principio di altissimo valore, si preferisce una visione separatistica della società, che si esplica nell'auspicato Federalismo, voluto, per meri fini economici, dalla borghesia "padana". Lo Stato che interviene nell'economia per imporre un'equa politica fiscale e che guarda alla socializzazione come arma per contrastare le gigantesche ingiustizie prodotte dal capitalismo viene sacrificato sull'altare della legge del libero mercato e di uno sfrenato liberismo che rende sempre più grande il divario tra chi vive nella ricchezza e chi sopravvive nella povertà. E non si dimentichi, inoltre, che di questa coalizione, definita di "destra", fanno parte coloro che disprezzano il tricolore, che, ancora oggi, per un autentico uomo di destra, è un simbolo da difendere a qualsiasi prezzo. Sono ancora tante, naturalmente, le "cose" di destra che non trovano spazio nel PDL: si pensi al senso dello Stato, alla dirittura morale, alla difesa della tradizione, al senso dell'onore, al culto del dovere e della coerenza. Il PDL non è che un pezzo - l'altro sta nel PD - della vecchia Democrazia Cristiana, che, ben lungi dall'essere defunta, è viva e vegeta sotto altre spoglie, ed ancora s'ingrassa alla mensa delle due più grandi coalizioni politiche italiane: nell'uno e nell'altro schieramento, infatti, non mancano vecchi esponenti ed epigoni di quel partito che ha inquinato in maniera indelebile la vita politica nazionale. La destra cui mi riferisco, ovviamente, è quella che Fini ha svenduto per il classico piatto di lenticchie, anche se in questo caso si tratta di legumi assai appetitosi e molto redditizi.
Ma il PDL non ha nulla in comune nemmeno con la vecchia destra di matrice liberale: è estremamente difficile, infatti, conciliare la visione elitaria della politica con il populismo del nostro premier; i tanti, autentici signori che militavano nelle 'file del PLI con i tanti parvenu del PDL, le cui giacche e cravatte non riescono a celare assai spesso la rozzezza e l'ineleganza che li contraddistinguono; il culto dei diritti civili, che faceva parte, per così dire, del DNA del Partito Liberale con l'arroganza e l'intolleranza più volte manifestate dagli uomini della Lega e da quelli del partito-azienda. Ho fatto questa lunga premessa perché mi premeva sottolineare che il PDL, che indebitamente si qualifica come coalizione di centrodestra, non è, come ho già detto, che una riedizione del peggiore centrismo. Tutto ciò, ovviamente, non può non tornare utile al centrosinistra: considerato che anche quest'ultimo, in buona parte, nasce da una costola della vecchia DC, gli è assai conveniente tacere sul centro e insistere sulla destra. La lunga premessa è stata fatta anche per ribadire che, alla luce di quanto ho scritto in passato e di quanto sto scrivendo adesso, nessuno può ragionevolmente pensare che io possa avere simpatie berlusconiane. Tuttavia, dinanzi all'articolo di Castrusini, non posso non difendere il nostro capo del governo, giacché le argomentazioni svolte mi sono sembrate troppo unilaterali.
Scrive Castrusini: "Sicuramente il premier ha volontariamente omesso di citare questa consuetudine dei giudici costituzionali ..”. Io, invece, credendo alla buona fede di Castrusini, ritengo che egli abbia involontariamente omesso di ricordare l'atteggiamento a dir poco discutibile della Corte Costituzionale, che nel 2004, a proposito del lodo Schifani, precisò che non era necessario ricorrere ad una legge costituzionale - bastava quella ordinaria, insomma - e sottolineò quali aspetti della legge avrebbero dovuto essere modificati e in quale modo, ed oggi boccia il lodo Alfano che ha modificato quei punti così come voleva la Corte ma soprattutto perché ha utilizzato una legge ordinaria così come la stessa Corte aveva suggerito: insomma lo ha bocciato nel 2009 perché ha recepito quei suggerimenti che la Corte aveva dato nel 2004! Premesso che non ho. mai condiviso né il lodo Schifani né il lodo Alfano, non mi sento davvero di criticare Berlusconi, o meglio mi sento di criticarlo nel metodo ma non certo nel merito. Si può criticare il modo poco garbato con cui. ha reagito, ma non la legittimità delle sue critiche. Avrei voluto leggere nell'articolo in questione qualcosa circa la politicizzazione di buona parte della magistratura italiana. Berlusconi esagera nei toni ma non ha torto. Certo è difficile, per chi sta a sinistra (mi riferisco in questo caso agli eredi del PCI) criticare la magistratura, se non altro per dovuta riconoscenza: senza la sua azione, negli anni di tangentopoli, quando decapitò i vertici della DC e del PSI sancendo la fine di quei due partiti, il PCI (che stranamente passò indenne sotto le sue forche caudine, nonostante tutti sapessero che fiumi di denaro arrivavano da Mosca con destinazione Botteghe Oscure) non sarebbe mai diventato il primo partito d'Italia, anche se con l'avvento di Berlusconi tutto ciò durò lo spazio d'un mattino. E come si fa a negare che con Berlusconi la giustizia ha spesso funzionato ad orologeria? L'avviso di garanzia fattogli recapitare a Napoli mentre presiedeva un vertice NATO lo inseriamo nel novero degli eventi casuali? Come mai tanta urgenza? Si temeva che da un momento all'altro abbandonasse il vertice e tagliasse la corda? Berlusconi avrà certamente degli scheletri nell'armadio, ma c'è qualcuno pronto a giurare che De Benedetti o gli Agnelli non ne abbiano? Perché, l'unico a subire centinaia, o addirittura migliaia, di perquisizioni dalla Guardia di Finanza è stato lui? E come mai prima che scendesse in politica magistrati e finanzieri non si occupavano di lui? Gli scheletri sono tutti uguali, ma, evidentemente, quelli di Arcore sono un po' più uguali degli altri! Non credo sia condivisibile, inoltre, il rimpianto di Castrusini per Andreotti, e mi tocca ricordare che questo signore non è stato assolto dalle accuse infamanti che lo riguardano: se non è andato in galera, o ai domiciliari vista l'età, non è perché quei fatti non siano avvenuti, ma perché sono caduti in prescrizione: io ci andrei cauto col "signorile esempio", trattandosi di Giulio Andreotti. Castrusini, infine, sostiene che questo governo col ''principio dell'investitura popolare che tutto giustifica e che su tutto prevale" sta seriamente minando "le fondamenta del principio della divisione dei tre poteri dello Stato che è alla base di ogni democrazia moderna". Mi chiedo: è il governo, espressione di una maggioranza democraticamente eletta, che sta mettendo a rischio la nostra democrazia o è il centrosinistra (coadiuvato da una parte della magistratura e da un grande quotidiano italiano) che sta mostrando disprezzo per le istituzioni democratiche ricorrendo a qualsiasi mezzo per liberarsi di chi è stato legittimato dal popolo a governare? Berlusconi può piacere o non· piacere - a me, come ho più volte ricordato, non piace affatto - ma se la sinistra vuole mandarlo a casa vinca le prossime elezioni: se ci riesce in altro modo non farà che dare ragione al suo avversario quando afferma che possono pure cambiare nome, ma sempre comunisti rimangono!
Novembre 2009
E SE A MODICA TORNASSIMO ALLE URNE?
Le recenti esternazioni di Riccardo Minardo riguardanti l'azione amministrativa della giunta Buscema ci inducono a fare alcune considerazioni che, come di consueto, sottoponiamo all'attenzione dei nostri Lettori, con la mai tramontata speranza che i nostri concittadini possano frnalmente rendersi conto degli atteggiamenti paradossali, che assai spesso sono assunti dai politici che dovrebbero rappresentarli. Alle esternazioni un po' bizzarre di Riccardo Minardo, diciamo la verità, siamo ormai abituati, ma stavolta riteniamo che abbia veramente oltrepassato la misura, e crediamo che non possa continuare ad offendere l'intelligenza dei modi cani. Dopo aver ricoperto la carica di vicesindaco nell'amministrazione Torchi ed essere stato, insieme ai quei consiglieri comunali che in lui si riconoscono, perfettamente inserito ed integrato nell'amministrazione - quella delle sagre e della finanza allegra - che ha portato Modica al disastro, egli, sapendo di non poter più sedersi sulla comoda poltrona di Montecitorio, giacché quest'ultima era stata riservata al nipote Nino - mai la politica, nella nostra città, ha raggiunto un livello così basso! - si è scoperto autonomista ed ha così conquistato una poltrona a Palazzo dei Normanni, meno prestigiosa. di quella romana ma non certo meno redditizia! Con la stessa disinvoltura con cui ci si cambia d'abito, Minardo cambia bandiera e torna a governare la città, ottenendo assessorati e vicesindacatura! Se si fosse limitato a questo, il nostro sdegno sarebbe rimasto confinato nell'ambito di una critica, per quanto ferma e decisa, verso chi non mostra alcuna coerenza politica e ideologica e che trova perfettamente normale cambiare casacca ognivolta che i propri interessi politici lo richiedano. L'on. Minardo, però, non si è limitato a questo, e da quando si ritrova al governo della città, ovviamente dalla parte opposta a quella in cui si trovava un anno e mezzo fa, non ha perso occasione per ricordare ai suoi ex alleati, Piero torchi in testa, tutti i guai che hanno procurato alla città, facendo così scaturire nella testa di ogni essere pensante l’inevitabile domanda: ma lui dov’era quando Torchi e compagnia affossavano Modica? O contava qualcosa, e allora è corresponsabile dei guai prodotti dalla precedente Amministrazione oppure non contava nulla. Lasciamo all’ex senatore l’onere di dare ai suoi concittadini una risposta convincente!
Non contento di criticare i suoi ex alleati, Minardo attacca adesso quelli attuali e queste critiche ci sembrano più incomprensibili delle prime. Sulla questione della Multiservizi sostiene di sentirsi preso in giro perché ancora non è stata chiusa; sull’articolo 14 della finanziaria regionale – quello che consente alle banche di anticipare le somme dovute ai creditori dagli enti locali – afferma che lui “ si è ammazzato” a Palermo per fare inserire quell’articolo nella finanziaria ma qui a Modica non si fa nulla; e, infine, la stoccata finale al sindaco, che di fatto viene accusato di essere troppo accentratore in quanto non concede alcuna autonomia ai suoi assessori.
Nel caso dei suoi ex alleati nasce spontanea la domanda: ma lei dov’era on. Minardo? Nel caso degli attuali, non possiamo non chiederci: ma lei dove sta on. Minardo? Ci risulta che, tramite il vicesindaco e i suoi assessori, lei stia partecipando, e in maniera determinante, all’amministrazione della nostra città. L’ex senatore non è certo uno sprovveduto, per cui sa benissimo che criticando la giunta Buscema sta criticando i suoi assessori e se stesso: perché lo fa allora? Noi non abbiamo, naturalmente, la pretesa di conoscere i pensieri reconditi di Minardo, ma confessiamo che un’idea ce la siamo fatta. Ovviamente, non diamo alcun peso alla sua affermazione: “ Noi siamo leali ed onesti. L’accordo amministrativo è forte e solido e continuerà sino all’ultimo giorno di questa legislatura”. Non le diamo peso perché troppe volte abbiamo assistito ai cambi di casacca e al mutamento delle idee dei politici nostrani, compreso Minardo ovviamente, per poter prendere sul serio tali assicurazioni di fedeltà. Abbiamo l’impressione che Riccardo Minardo stia cominciando a prendere le distanze dal sindaco: che stia preparando l’ennesimo cambio di gabbana?
Noi, com’è noto, non nutriamo per lui alcuna stima, perché riteniamo che non abbia elevate doti politiche e perché non amiamo coloro che cambiano frequentemente casacca, ma non possiamo tuttavia non riconoscergli una buona dose di furbizia che, considerato l’attuale livello della politica, gli è stata certamente utile e ancora lo è. Per tale motivo crediamo che Buscema stia sbagliando a ridimensionare la gravità delle sue ultime dichiarazioni e a non volerle”inquadrare in una cornice di critica politica”.
Non abbiamo intenzione di tornare sul discorso dell’anomala alleanza Buscema-Minardo: su tale questione sia noi sia il sindaco ci siamo già ampiamente espressi. Ci asteniamo dunque dal fare ulteriori valutazioni sull’aspetto politico-amministrativo dell’alleanza, ma non su quello politico-ideologico. Ciò ci consente di affrontare un argomento che ci è particolarmente caro e su cui in passato abbiamo fatto volentieri alcune osservazioni. Quest’anno ricorre il ventesimo anniversario della caduta del muro di Berlino.
Quasi tutti abbiamo gioito per il successivo crollo del socialismo reale nei Paesi dell’Europa orientale, che si liberava finalmente dalla sanguinarie dittature che per tanti anni l’avevano oppressa, ma tutto ciò non deve far dimenticare che crollando , il muro trascinò nelle macerie anche le idelogie, che quando non vengono assolutizzate e venerate, costituiscono uno strumento di elevazione mentale e spirituale: una volta spazzate via, la politica è stata inquinata da un arido pragmatismo e da un deleterio processo di omologazione che ha finito per annullare le differenze. Quella che i tedeschi chiamano Weltanshauung (Intuizione del mondo) – che nella nostra lingua possiamo tradurre con l’espressione “ visione del mondo” – è crollata, e con essa la capacità, che ogni uomo dovrebbe possedere, di avere una personale concezione della vita, della relazione con gli altri, della storia e della progettualità. Se tutto questo non c’è, il politico – come ha recentemente scritto Carmelo Modica- diventa “ lo sbriga-faccende dei suoi elettori”.
Non può dunque esistere vera politica senza una Weltanshauung, e ciò è vero anche quando la politica si occupa di piccole realtà come quella modicana. E’ dalla visione del mondo che si ha, che dipende il tipo di città che si vuole costruire, i valori sui quali la si vuole fondare, come si intende organizzare lo spazio urbano, come si vuole affrontare la questione ecologica, e quale spazio si intende dare a problematiche importanti come quelle del lavoro, della solidarietà, della cultura.
Se la visione del mondo avesse ancora avuto l’importanza che non ha più, Buscema e Minardo non si sarebbero mai politicamente incontrati. Qualcuno osserverà: in tal modo però avremmo ancora l’UDC e il PDL al governo. E noi rispondiamo che non soltanto lo sono ancora, perché il loro modo di intendere e fare politica è incarnato perfettamente da Minardo, dal vicesindaco e dagli assessori autonomisti, ma, qualora l’amministrazione Buscema non riuscisse a risolvere i tanti problemi che attanagliano la città, gli esponenti dell’attuale opposizione potranno presentarsi all’opinione pubblica come i futuri salvatori della Patria, loro che ne sono stati gli affossatori. Non si dimentichi, inoltre, - basta saper leggere tra le righe delle recento esternazioni dell’ex senatore – che Minardo e i suoi tengono sotto scacco il resto della maggioranza, almeno che vogliamo ancora credere alle favole, e considerare le critiche di Minardo un affettuoso e bonario rimbrotto al Sindaco.
Non vanno sottovalutati, inoltre, il recente attacco che la CISL ha sferrato contro l’attuale Amministrazione, la decisione della CGIL di proclamare lo stato di agitazione degli operatori delle cooperative, per il mancato stipendio relativo ad alcune mensilità nonostante il sindaco abbia comunicato ai dirigenti sindacali che i mandati di pagamento sono già in banca e l’ultimatum del Comune di Scicli a quello di Modica per ottenere i sei milioni di euro che l’ente sciclitano deve ancora percepire per la ben nota questione della discarica di San Biagio, nonostante i due sindaci avessero raggiunto un accordo, che prevedeva la rateizzazione del pagamento: qualora Palazzo San Domenico non potrà saldare il debito entro il termine perentorio di tenta giorni, ed è ovvio che non potrà saldarlo, il Comune di Scicli avvierà le procedure per ricorrere al TAR di Catania. La prospettiva non può che essere quella della dichiarazione di dissesto finanziario da parte del Comune di Modica.
Alla luce di tutto quello che sta accadendo, sarebbe opportuno che il sindaco valutasse in maniera realistica, ad un anno e mezzo dal suo insediamento, se sia davvero il caso di continuare in questa esperienza amministrativa finora fallimentare, anche alla luce della considerazione che non si intravedono le condizioni per un radicale cambiamento di rotta. Dopo Torchi e compagni, era necessario che nelle stanze di palazzo San Domenico cominciasse a circolare aria nuova e non quella stantìa degli accordi impossibili, della solita spartizione delle poltrone e dei consueti e deprimenti rimpasti.
Considerato che la città non può permettersi di vivere per altri tre anni in queste condizioni, forse sarebbe auspicabile che il sindaco decidesse di trovare la strada per dare una soluzione a questa situazione insostenibile, anche a costo di percorrere quella più radicale e risolu
QUANDO LA TOLLERANZA ALIMENTA L’INTOLLERANZA
Prendo spunto dall'articolo "No al Crocefisso nelle scuole: reazioni" di Massimo Culmone, pubblicato sullo scorso numero de La Pagina, per fare alcune considerazioni su tale questione, che mi riguarda come cittadino e come insegnante. Da un bel po' di anni, ormai, si parla di Europa e forse pochi si sono accorti che quella che è stata realizzata è l'Europa -dei banchieri e dei mercanti, non certo quella dei popoli. Coloro che veramente detengono le chiavi del potere, a cominciare dalle grandi multinazionali, non potevano certo dar vita ad una Istituzione che sapesse guardare al di là della logica del mercato; non potevano di sicuro pensare all'Europa dei valori, della tradizione e delle radici storiche e culturali del vecchio continente. E' per tale motivo che nella Carta europea non si fa cenno ai princìpi del Cristianesimo, che, unitamente alla religiosità ebraica e alla cultura greca e latina, costituisce le fondamenta della nostra civiltà. Nessuna meraviglia, dunque, che la Corte di Strasburgo abbia dato ragione a una signora finlandese che pretende di direi cosa dobbiamo e cosa non dobbiamo fare a casa nostra! Siamo tutti quanti vittime di un colossale equivoco di cui, presto o tardi, pagheremo le conseguenze: mi riferisco alla idolatria della tolleranza, sul cui altare stiamo sacrificando la nostra intelligenza e la nostra libertà. Mi riferisco, ovviamente, al concerto distorto del termine tolleranza, che ha finito per trasformare un lodevole atteggiamento mentale in un comportamento paradossale e talvolta masochistico. E' una contraddizione, logica e linguistica, quella di celebrare l'intolleranza nel nome della tolleranza! Avere rispetto per le opinioni diverse dalle proprie, infatti, non significa . doversi sottomettere alle opinioni altrui. La palese intolleranza della signora Lautsi è stata difatti trasformata - da un imperante e insensato modo di pensare - addirittura in un diritto, e la signora finlandese, non nel nome di una concezione laica della vita, ma in quanto accecata da un ottuso e intollerante laicismo, ha assunto le sembianze della vittima, in una storia in cui, invece, le vittime autentiche siamo tutti noi. Il crocifisso, per noi occidentali, credenti o non credenti, è un segno che ha un'immensa valenza simbolica, altro che un "cadaverino", come ebbe a definirlo, con inaudita volgarità, in una trasmissione televisiva di qualche anno fa, un importante e "tollerante" rappresentante dell'lslamismo italiano. Per i credenti è il figlio di Dio che muore sulla croce per salvare il genere umano; per i non credenti rappresenta l'umanità intera, l'uomo, colto nei momenti più autentici della sua vita, quelli che il mondo d'oggi non sa più vedere, quali sono la sofferenza e la morte. Appeso ad una parete non può davvero dare fastidio a nessuno e la presa di posizione di questa signora ha più il sapore di un acritico pre-concetto che di una problematica educativa. Voglio poi sottolineare che l'Europa del commercio, delle banche e degli affari non ha titoli morali per esprimersi su questioni che non possono essere valutate con l'unico metro che essa conosce e che è quello del profitto, e voglio altresì ricordare che, nonostante i fautori dell'europeismo a tutti i costi stiano facendo di, tutto per annullarla, la sovranità nazionale non si è ancora disciolta in quell'ibrido calderone che è quest' Europa senz'anima e che rinnega la sua storia. La nazione italiana, nonostante la farneticazioni della Lega, per fortuna esiste ancora, e finché esiste un popolo che si riconosce in valori millenari e che è unito da un comune sentire, questo popolo ha il sacrosanto diritto di difendere se stesso attraverso la conservazione e la tutela della propria tradizione. Forse è giunto il momento di aprire gli occhi e di non farsi ingannare dal tranello che ci 'ha teso la cultura della falsa tolleranza. E' giusto, ad esempio, che ai tanti musulmani presenti in Italia sia data la possibilità di potersi riunire per pregare il loro Dio; un po' meno, forse, costruire moschee. Il mondo arabo, il quale non accetta che sui suoi territori siano costruite chiese o sinagoghe, non è intollerante, come spesso superficialmente si ritiene, ma è, più semplicemente, custode della sua memoria storica. E non stiamo parlando di una tribù di cannibali sperduta in qualche remota regione del pianeta, ma di un mondo che ha dato un contributo inestimabile al progresso del sapere, in tutte le sue manifestazioni materiali e spirituali. Lasciamo che nel nostro Paese rimangano le chiese, ma non per intolleranza o per bigottismo, ma perché sono una testimonianza artistica e spirituale dell'Occidente e pertanto di ciò che siamo stati e siamo; nella consapevolezza, tra l'altro, che abbiamo il dovere di lasciare a chi verrà dopo di noi un segno tangibile della cultura che li avrà resi ciò che saranno e nella certezza che un popolo che rinnega il proprio passato è un popolo che non ha futuro!
Dicembre 2009
IL MARCIUME È OVUNQUE
La politica è diventata il luogo dell'ignoranza, dei compromessi e del malaffare
Tra le tante teorie demenziali che circolano nella società odierna ce n'è una particolarmente insopportabile, ed è quella di coloro che ritengono che la critica debba essere sempre e necessariamente "propositiva": come dire che non si possono stigmatizzare le scelte altrui, soprattutto quelle politiche, se nel contempo non se ne propongono altre ritenute migliori. E'evidente che una simile sciocchezza deriva dalla mancanza di strumenti intellettuali idonei .ad effettuare un'analisi logica e critica delle proprie convinzioni, ed è, nello stesso tempo, il prodotto di un deleterio conformismo, visto che quest'idea si è ormai insinuata nel cervello di molti. D'altronde, è confortante pensare e parlare come tutti, anziché avere il coraggio di andare controcorrente, pur di non accettare compromessi politici, intellettuali e culturali. Se poi la critica, oltre a non essere "propositi va", è anche generalizzata, scatta immediatamente, come un riflesso condizionato, l'accusa di qualunquismo. E qui gli accusatori rivelano la loro scarsa conoscenza della lingua italiana, non essendovi alcuna relazione tra la critica e il qualunquismo. Chi è infatti il qualunquista? E' colui "che professa o dimostra indifferenza nei confronti degli impegni e dei problemi del momento, specialmente problemi politici o sociali" (Cfr. Devoto-Oli, Vocabolario della lingua italiana, Le Monnier, 2008): il qualunquista, dunque, è totalmente antitetico a colui che fa critica, in qualunque modo la faccia, perché questa scaturisce non dall'indifferenza ma da una costante attenzione ai fatti e ai problemi. Certamente i Lettori si staranno chiedendo come mai ci stiamo occupando del qualunquismo. Ce ne interessiamo perché si tratta di un'accusa che direttamente, o indirettamente, e dunque in maniera ipocrita, qualche volta è stata mossa a noi, a qualcun altro che la pensa come noi, e agli anonimi componenti del gruppo "Terzo Occhio", dei quali condividiamo quasi sempre critiche ed argomentazioni. Nella logica distorta di chi ci muove quest'accusa, tutti noi saremmo qualunquisti perché la nostra critica è attuata a 360 gradi.
E' giunto pertanto il momento di chiarire come stanno effettivamente le cose! Se tutto ciò che ci circonda è marcio, occorre avere il coraggio di dirlo, ed è un atteggiamento mentale assai discutibile quello di coloro che negano che oggi l'immondizia sia dappertutto, e che fniscono per abbandonare i sentieri sicuri del reale per incamminarsi sulle vie immaginarie del virtuale, convincendosi, così, dell'esistenza di àmbiti politici limpidi e puliti, pur di schierarsi e di illudersi in tal modo di essere "propositivi". Non è colpa nostra se il marciume è ovunque, se la politica è diventata il luogo dell'ignoranza, dei compromessi e del mal affare. Se criticare tutto questo e denunciarlo con forza vuoi dire essere qualunquisti, ebbene, che si sappia: noi siamo orgogliosamente qualunquisti! Se condannare forze politiche che si ritengono superiori alle altre per ideali e progetti, ma nella pratica manifestano la stessa inadeguatezza politica dei loro avversari, che mostrano la medesima incapacità di sapere elaborare progetti di ampio respiro, che rivelano la stessa e indecorosa abitudine di cambiare casacca, la stessa e indegna consuetudine di fare in modo che tutti gli amici della coalizione, prima o poi, debbano gustare l'ebbrezza di sedere su una poltrona assessoriale; se condannare tutto ciò è qualunquismo, ebbene, che si sappia: noi siamo orgogliosamente qualunquisti! Coloro che per scarsa conoscenza della lingua italiana, o per malafede, associano la critica a tutto campo al qualunquismo, dimostrano, altresì, dei limiti anche sul piano concettuale: confondono, infatti, l'essere alternativi con l'essere antagonisti. Chi oggi crede nell'alternativa, e cioè che i mali del nostro Paese e della nostra città si possono risolvere sostituendo uno schieramento politico con un altro, non riesce ad interpretare la società in cui vive e manifesta l'esiguità del suo orizzonte ideale e politico. Non avendo fatto tesoro degli insegnamenti di Galilei, il quale aveva compreso che restando all'interno di un sistema (la terra) non era possibile, senza un punto di riferimento esterno (il sole), capire se il nostro pianeta si muovesse o meno, coloro che ci criticano non si rendono conto che possono ritenersi alternativi finché vogliono, ma restando organici al sistema, vivranno nell'illusione che basta cambiare cavallo per vincere la corsa! Noi vogliamo porre in alto la bandiera dell'antagonismo: occorre uscire da una visione gretta e parziale della politica, saper guardare oltre la siepe delle convinzioni personali, e pertanto inevitabilmente piccole e limitate, e saper volare alto. Bisogna scalare la montagna e raggiungere la vetta, perché solo da lassù si può osservare la valle nella sua interezza. Fuor di metafora: è necessario saper guardare dall'esterno il sistema politico, sociale ed economico in cui viviamo, per coglierne le bassezze e le meschinità. Non sono le coalizioni che dobbiamo cambiare, ma è il sistema che va rifondato. Chi non capisce questo non si rende conto di essere vittima di una sorta di totalitarismo intellettuale: non riesce ad ammettere, infatti, che possa esistere un sistema diverso da quello in cui crede, e pertanto diventa portatore di una visione dogmatica della società e della politica. Il vero intellettuale non è mai organico e non è colui che necessariamente deve schierarsi: l'intellettuale autentico è colui che sa farsi coscienza critica della società in cui vive e opera. Se pensare tutto questo vuoi dire essere qualunquista, ebbene, che si sappia: noi siamo orgogliosamente qualunquisti! Noi lo siamo, se ciò vuoi dire non avere padroni che ci suggeriscono ciò che possiamo e ciò che non possiamo scrivere, se significa gustare ogni giorno il profumo della libertà e il gusto impagabile di poter criticare tutti coloro che fanno del male al nostro Paese e alla nostra città, a causa della loro malafede o della loro incapacità, infischiandocene se le loro idee sono vicine o lontane dalle nostre, se significa non subire il meschino condizionamento di dire sempre bene degli amici e sempre male dei nemici, se vuoi dire, kantianamente, uscire dallo stato di minorità intellettuale e guadagnare l'assoluta indipendenza della ragione.
A coloro che si ritengono alternativi e rimangono intrappolati nelle sabbie mobili di un sistema corrotto e putrefatto, lasciamo volentieri il compito di proporre rimedi e soluzioni. Noi qualunquisti ci teniamo l'antagonismo e la libertà, con la consapevolezza che coloro che si ritengono buoni, puri e alternativi rimarranno impigliati nella ragnatela di questo sistema degradato, e con la certezza che prima o poi il pessimismo della ragione e l'ottimismo della volontà prevarranno, e allora, forse, raccoglieremo i frutti della nostra battaglia.