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Belgiorno Franco Antonio , Teatro, “Teatro”, Teatro, - Il Giano, pp. 66, Modica 2005, ISBN 978- 88-89211-16-8.
Don Venerando, leggero sulle gambe e col naso che gli faceva prurito, bestemmiò per la fine che aveva fatto un sacco di farina nella grande e umida cucina assaltata dai topi.
Sputò in quella specie di poltiglia bianca non più utilizzabile, e si riscaldò le mani ad un fornello, ancora tiepido della cenere del mattino. La città era grigia, con certe forme di case che sembravano figure enigmatiche. Il vento le aveva coperte di frasche trasportate durante la notte, e pendevano come segnali misteriosi davanti alle porte.
-Porco paese – disse tra sé – qui non succede mai un cavolo di nulla.
Per confortarsi, già che quella sera aveva detto innumerevoli volte le orazioni, capendo di non avere molta volontà, tirò fuori dalla tasca della vestaglia la lettera che il cugino gli aveva fatto pervenire da Palermo tre giorni prima. Il foglio stava piegato in quattro accanto al fazzoletto, e un poco si era sporcato degli umori del naso. Inforcò il pince-nez, già che la luce delle candele era quasi uguale al buio, e lesse:
“Cuginone caro, possiedo solo un palazzo, e non ho nemmeno la forza di lasciarlo per andare a cercare un altro clima. In inverno mi aggiro per le stanze con molta gravità di passi, e il salone è così freddo che sembra la Cripta dei Capuleti. Ma qualche sera me ne vado a Teatro, e mi mangio con gli occhi le ballerine che poi arrivano, dopo lo spettacolo, in casa di mie amicizie. Alcune sono napoletane, ma hanno una parlata francese indecifrabile che le rende desiderabili. Perchè non vieni a trovarmi, e lasci le tue montagne? Passeremo delle notti calde e indimenticabili.”
Don Venerando lo invidiò, se erano vere quelle parole scritte da colui che portava il suo stesso cognome.
Si avviò per la stanza da letto, come un re che va in esilio, e si accorse dell’umidità che aveva invaso le pareti, disegnando carte geografiche improbabili. E fra di esse, appesi come grappoli di uva secca, i ritratti di alcuni parenti stretti, lontani nel tempo, con visi ormai intangibili nella stessa memoria. Avevano condotto la loro esistenza fra via Ritiro e le chiese dove andavano a purgarsi dei peccati. Che facce tristi, smorte! Erano di uomini che erano corsi tutta la loro vita dietro alle serve, mettendole incinte e fornendo carne umana per il reclusorio. Facce perdute, di cui non si sarebbe mai più ricordato nessuno sulla terra.
Stavano accendendo i lampioni, una luce fioca che faceva pensare ad una discesa in Purgatorio.
-Ave Maria, ci vorrebbe un Teatro, piena di grazia, in questo puzzolente paese.
***
“Illustre Intendente della città di Modica.
Pur sapendo lo scrivente, quanto Ella habbia impegni per il bene della gloriosa nostra terra e per l’onore di S.M. il Re Dio guardi, e dandomi conta eziandio di quanto lo disturbino i recenti fatti del delinquente Ganibardo seguito dalla sua schiuma di maffiosi, e ancora ringraziandola per avermi fatto fare le decorazioni del Teatro che del Monarca, Dio guardi, porta il nome sempiterno e illustre, mi permetto di rivolgerle questa mia missiva finchè il debito di quindici Tarì, già incolonnato nei libri mastri della sua Intendenza per due anni, possa avere finalmente la sua evasione, per beneficio del lavoro fatto dal sottoscritto, col sudore del suo fronte.
Di vostra Signoria Illustrissima Umilissimo Servo, don Lorenzo Zaccaria, pittore.
***
“Mio padre – gridò il sindaco con la sciarpa tricolore attorno al suo corpicino malfatto – l’Intendente di questa città, come ognuno di voi è a conoscenza, fu il primo ad innalzare la bandiera col tricolore e a proporre al benemerito Consiglio di dedicare questo Teatro, dove stasera ci troviamo, all’eroe dei due mondi, all’uomo impavido e senza macchia, in altre parole, a Garibaldi”
A bassa voce, ma la cui eco errò per tutto il Teatro, uno disse che i pidocchi delle teste dei ricchi andavano a finire sempre su quelle dei poveri. Cornutazzo, disse ancora, perché tutti sapevano che spasimava per una spiritosa che se l’erano presa in cento, e avrebbero potuto scrivere l’elenco dei suoi amanti in ordine alfabetico.
Un altro gridò come un ossesso, aggrovigliando la sua voce a quella degli altri che prendendo coraggio, avevano perso oramai ogni controllo. Disse che l’Intendente, un anno prima, aveva organizzato un piccolo drappello di sorci per dare la caccia al Mostro Garibaldi. E aggiunse, ridendo: ”Quattro morti di fame, con le divise borboniche prestate dall’Intendente di Noto, cornuto pure lui”. Tutti fecero finta di non aver sentito. Con violenza, volarono sulle teste della massa, resti di focacce di ricotta e bordi di pastizzi di broccoli; alcuni pezzi si depositarono sul palcoscenico.
Una pernacchia, prolungata e provocatoria, migliorò il divertimento dell’assemblea.
“E quindi, in armonia universale con le Muse e gli Eroi – continuò il Sindaco - e per diletto di voi tutti presenti, sia dedicato questo luogo sacro alle arti, a Garibaldi. Un Teatro come oggi tutto il mondo ce lo invidia, e fu sognato da quel nobile don Venerando, perduto adesso nel viaggio per l’eternità, che fu amico della lirica (serve stanche e tisiche), del ballo (bordelli di Noto e Catania) e delle romanze (cosce in calzamaglia).”
Pochi applausi, anche perché quelle ultime parole non le aveva udite più nessuno. Un paio di ruffiani scodinzolarono, esagerando i loro gesti che indicavano combutte e appuntamenti. Si allontanarono per conferire con le signore dei palchi. Il chiasso crebbe, e fece persino caldo. Le signore soffrirono e s’offrirono.