2008
- Conferenza del prof. Gianni Bellina al Centro Servizi Culturali di Ragusa. “Uso civile e religioso delle campane” (Dialogo, gennaio 2008)
- I rintocchi della memoria: le campane (Insieme, 16/01/2008)
- Scatti di Natale in salsa jazz (Insieme, 16/01/2008)
- Le Ferrovie iblee, tra storia e territorio (Dialogo, febbraio 2008)
- Duilio Cambellotti, artista-artigiano” da molteplici talenti (Insieme, 01/02/2008)
- Il sistema L.O.G.E.S. a Ragusa (Insieme, 01/02/2008)
- Feste e tradizioni popolari attraverso le carte d’archivio (Insieme, 15/02/2008)
- Quando l’Archivio racconta (Insieme, 15/02/2008)
- Il sindacato bancari si interroga: quale rapporto con il lavoro e con l’azienda (Dialogo, marzo 2008)
- Il Centro Studi “F. Rossitto” pensa al futuro culturale dei giovani (Insieme, 03/03/2008)
- Salute e malattia: alla ricerca dell’equilibrio perduto. Conferenza su Medicina bioenergetica alla libreria “Saltatempo” (Insieme, 19/03/2008)
- Un pensiero triste che si balla: il Tango (Dialogo, aprile 2008)
- Il giallo della benzina solida (Insieme, 03/04/2008)
- “…i festivi trionfi e le comuni allegrezze”. Inaugurata all’Archivio di Stato di Ragusa una mostra documentaria (Insieme, 16/04/2008)
- La Sicilia e la Comiso di Gesualdo Bufalino (Dialogo, maggio 2008)
- Filippo Pennavaria benefattore di Ragusa: luci e ombre (Insieme, 05/05/2008)
- “I Fuoriscena” di Claudia Gafà al teatro Donnafugata di Ragusa-Ibla (Insieme, 05/05/2008)
- Fabio Romano, un artista che vive per la pittura e nella pittura (Insieme, 16/05/2008)
- 1948-2008 Buon compleanno alla Costituzione italiana (Insieme, 30/05/2008)
- Quando la poesia fa vibrare il cuore (Insieme, 30/05/2008)
- L’Archeologia tra Terra e Mare (Insieme, 30/05/2008)
- Emmanuel Mounier: pensatore e profeta di un nuovo socialismo (Dialogo, giugno 2008)
- “Il mulino Purgatorio di Sopra e il quartiere dello Spirito Santo a Ragusa” (Insieme, 17/06/2008)
- Incontro con l’Autore. Alla Camera di Commercio di Ragusa Lectio Magistralis di Giorgio Bàrberi Squarotti (Insieme, 17/06/2008)
- L’Arte oltre le mura del carcere (Insieme, 17/06/2008)
- “Ragusa Festosa” (Insieme, 30/06/2008)
- Un incontro lungo 25 anni. (Insieme, 21/07/2008)
- Pesca-Turismo: un tuffo nei sapori iblei (Insieme, 16/09/2008)
- “Giornate dell’Arte” e promozione culturale (Dialogo, ottobre 2008);
- “Un giorno”… da ricordare (Insieme, 01/10/2008);
- Il Museo Archeologico di Ragusa e le Giornate Europee del Patrimonio (Insieme, 17/10/2008);
- Profumi e sapori della cucina iblea sbarcano in America (Insieme, 17/10/2008);
- Giovanni Semerano: l’archeologo della parola (Insieme, 31/10/2008);
- Italia: quale futuro oltre la crisi? (Insieme, 31/10/2008);
- La storia della chiesa di S. Bartolomeo Apostolo di Giarratana attraverso gli atti notarili (Dialogo, novembre 2008);
- “Processo e morte di Socrate” al Teatro Donnafugata di Ragusa Ibla (Insieme, 17/11/2008);
- “Notte bianca” all’Archivio di Stato di Ragusa (Insieme, 17/11/2008);
- Emergenza sismica: prove tecniche di simulazione (Insieme, 17/11/2008);
- La “Ragusa Festosa” di Vincenzo Giompaolo (Dialogo, dicembre 2008);
- “Dall’Atlante agli Appennini”, Maria Attanasio rivisita il racconto di De Amicis (Insieme, 20/12/2008);
- “Ludens”: centro gravitazionale ibleo di danza e sport (Insieme, 01/12/2008)
- Quel presepe di una volta… (Insieme, 22/12/2008)
GENNAIO 2008
Conferenza del prof. Gianni Bellina al Centro Servizi Culturali di Ragusa
“Uso civile e religioso delle Campane”
Le campane sono strumenti per un linguaggio che annuncia alla collettività avvenimenti da condividere nella buona e nella cattiva sorte. Il loro suono diventa significativo, ma anche indicativo ed enunciativo, allorquando si articola nell’ambito di una determinata cultura. La conoscenza storica delle campane ubicate in un territorio contribuisce alla loro riqualificazione sociale ma anche a studiare la genesi di una lingua nonché gli strumenti per esprimerla.
A proporre tale problematica, in maniera articolata e brillante, è stato il prof. Gianni Bellina, esperto di gnomonica e già docente presso l’Istituto Scolastico “P. Vetri” di Ragusa, attraverso l’incontro culturale recentemente tenutosi presso la sala convegni del Centro Servizi Culturali di Ragusa ed avente per titolo “Uso civile e religioso delle Campane”. L’interessante iniziativa, promossa dallo stesso Centro Servizi, in collaborazione con l’AS.PE.I. (Associazione Pedagogica Italiana) e l’Associazione Culturale Docenti “Gian Battista Hodierna”, ha dato modo di approfondire il tema delle campane non solo nel contesto dei beni culturali della Chiesa, ma anche in quello storico, sociale e spirituale. I lavori sono stati introdotti dal prof. Giovanni Firrito (Presidente dell’AS.PE.I), che ha letto due belle pagine tratte dal volume di Nino Cirnigliaro, “All’ombra delle cupole”. Lo stesso prof. Nino Cirnigliaro (Presidente del Centro Servizi Culturali) ha concluso l’incontro parlando brevemente della presenza delle campane nella narrativa verghiana.
Per quanto abituale sia il suono delle campane, solitamente poco si sa della loro storia e quanto abbiano rappresentato per le generazioni passate. L’arte di costruire degli strumenti in metallo (bronzo, ferro), per ricavarne un suono mediante percussione, si perde nella notte dei tempi. I cinesi la conoscono molti secoli prima di Cristo. Sotto l’impero romano sono in uso i “tintinnabula”, ovvero una sorta di campanelli che servono per dare dei segnali, come l’apertura dei mercati e delle terme, il passaggio di un corteo sacro. Si racconta che, nel 420 dopo Cristo, il vescovo di Nola, San Paolino, utilizzasse per primo dei grandi vasi di bronzo a scopi liturgici e che, per propagarne il suono, li avesse fatti collocare in cima a una torre che guardava “alle quattro parti del mondo”. Era nato così il primo campanile, mentre il nome “campana” deriverebbe da Campania, regione, dove si trova la città di Nola. Un’altra ipotesi, invece, fa derivare il nome da “aera campana” o “vasa campana”, nome latino per il bronzo (costituito per il 78% di rame rosso e 22% di stagno bianco), materiale usato per fondere strumenti resistenti e sonori. Le campane hanno una così vasta applicazione che si diffondono rapidamente per la loro capacità di comunicare, anche a distanze notevoli, messaggi opportunamente codificati. A cominciare dal VI secolo molti edifici sacri e civili sono dotati di torri o supporti che, comunque, consentissero di portare in alto, verso l’aria libera, una o più campane. Le campane diventano così lo strumento ordinario e straordinario per avvisare la collettività. Alle funzioni di richiamo si aggiungono, ben presto, “virtù esorcistiche, magiche e protettive”. Queste credenze sono messe in risalto con appositi riti e raffigurazioni simboliche apposte sul corpo dello strumento con relativa dedicazione, che caratterizzano le peculiarità o “specializzazioni” di ciascuna delle campane in dotazione ad una stessa chiesa, aventi compiti specifici contro gli agenti atmosferici (temporale, grandine), naturali (fuoco) o soprannaturali (diavoli). Una delle credenze più strane riguarda l’uso di particolari rintocchi (detti “a martello”) della “campana grande” volti a scongiurare ed allontanare i temporali, soprattutto quelli estivi che minacciano i raccolti. Ciò deriva dalla convinzione che i suoni: “...rompevano l’aria, sviavano la tempesta, eliminavano la grandine e trasformavano il temporale in acqua buona”. Tutto ciò sembra irrazionale, ma ad avvalorare questa antica credenza contribuisce il risultato di una recente ricerca svolta nell’ambito della biodinamica. Sembra, infatti, essere confermata l’influenza delle vibrazioni sonore sulle strutture fluide o liquide come l’acqua, la linfa vegetale e il sangue umano. E’ emerso che le potenti vibrazioni emesse dalle campane interagiscono con la circolazione dei liquidi, riportando equilibrio in situazioni di caos. Da un effetto simile, esercitato sulla nostra circolazione sanguigna e linfatica, deriverebbe, in parte, il senso di gioia ed euforia che si prova quando suonano a storno le campane. Il suono delle campane è per eccellenza pubblico ma anche sacrale. Sacralità ancestrale, apotropaica, pagana, cristiana, civile si intrecciano e si integrano in un richiamo che rievoca atmosfere arcane e familiari, tanto nella loro festosità quanto nel loro lato funesto. E’ necessario, dunque, accostarsi e studiare tali segni per recuperarne storia e significato. L’incontro culturale nonché l’avventura conoscitiva, brillantemente proposta dal prof. Bellina, dà spessore alla quotidianità evidenziandone non solo le caratteristiche culturali, ma soprattutto facendo riemergere tasselli di micro-storia che rappresentano il patrimonio dimenticato della memoria di una collettività.
Scatti di Natale in salsa jazz
Fotografia, musica, cuore. Una serata all’insegna del presepe, simbolo per eccellenza del Santo Natale, ma anche della tradizione e del fervore religioso attraverso una carrellata di statuette di terracotta, pastori, greggi, re magi e “sacra famiglia” immortalati da sapienti scatti fotografici che colgono appieno l’atmosfera natalizia piena di colori e di umili sentimenti come la gente semplice di una volta. Se tutto questo è accompagnato sulle ali di note musicali, appropriatamente arrangiate, l’arte visiva, di cui è espressione l’arte fotografica, ben si sposa con quella musicale nel fervore del momento creativo. La fotografia rende presente un evento già immortalato, le note musicali lo “vivificano” ed il cuore lo riscalda. Questi gli ingredienti che hanno caratterizzato un’intera serata dedicata all’evento visivo-musicale, recentemente tenutosi a Ragusa presso il teatro dei Salesiani, avente per tema “Scatti di Natale in jazz”. L’iniziativa - promossa ed organizzata dalla Associazione culturale “Sicily in one” nell’ambito del progetto volto a far conoscere la cultura del territorio siciliano ed in particolar modo della provincia iblea, in sinergica cooperazione con il Comune di Ragusa (Assessorato ai Servizi Sociali e alla Cultura), Gruppo Scouts “Ragusa 1” e l’AGESCI (Associazione Guide e Scouts Cattolici Italiani) che conta nell’Isola oltre sedicimila aderenti - ha dato modo di apprezzare la travolgente musica jazz in abbinamento con immagini tratte dall’archivio fotografico di Vincenzo Giompaolo, accanito fotoamatore, studioso delle tradizioni popolari siciliane da oltre sei lustri nonché autore di pregevoli pubblicazioni (tra cui il CD-Rom “Natale in Sicilia”, HGO Edizioni, Ragusa, 2004).
“Scatti di Natale in jazz” è uno spettacolo nato per caso, da un incontro fortuito tra Vincenzo Giompaolo ed Enrico Lacognata. Si tratta di un intreccio di immagini, rappresentate da oltre 400 scatti a colori e bianconero, unitamente a brani musicali natalizi. Le foto proiettate, mostrando momenti del Natale ibleo (ma anche di tante altre zone siciliane), realizzate tra il 1974 ed il 2006 da Vincenzo Giompaolo, rappresentano un excursus foto-etno-antropologico che abbraccia un arco di tempo di ben 32 anni. La parte musicale è stata curata dal ragusano Enrico Lacognata, pianista-arrangiatore, con la collaborazione del suo “jazz quartet”. Il quartetto, composto da E. Lacognata (pianoforte), A. Raniolo (sax), R. Barni (contrabbasso) e M. Arrabito (batteria), si è esibito suonando alcuni dei brani natalizi più celebri arrangiati in stile “jazz”, genere musicale che muove i primi passi dalle influenze musicali afro-americane agli inizi del XX secolo. Da un punto di vista tecnico il jazz moderno è contraddistinto dall’uso estensivo dell’improvvisazione, di blue notes, di poliritmie e di progressioni armoniche insolite. In particolare, la pulsazione ritmica jazzistica, elastica e, a volte, scandita in maniera ineguale, chiamata swing, ha dato all’intera serata un tocco di vibrante coinvolgimento tra il pubblico che non ha mancato di elargire, giustamente, calorosi ed affabili applausi ai musicisti. L’interpretazione jazzistica non solo ha posto un grande accento sull’espressività dei brani proposti ma anche valorizzato la comunicazione visiva delle scene natalizie sapientemente immortalate dal click fotografico di Vincenzo Giompaolo. “La serata ci ha dato la possibilità di dare una mano agli intenti educativi che si prefigge l’AGESCI” – ha sottolineato Sebastiano La Mesa (presidente di “Sicily is one”) – “cioè quello di contribuire, nel tempo libero e nelle attività extrascolastiche, alla formazione dei giovanissimi boy scout. La sinergia nata tra il maestro Lacognata e Vincenzo Giompaolo, studioso di tematiche etnografiche, ha dato modo di presentare al grande pubblico un connubio particolare, quello cioè delle immagini abbinate ad uno stile musicale che, ad una riflessione superficiale, potrebbe sembrare avulso dal territorio ibleo ma che, invece, risulta vicino al sentimento religioso di ciascuno in quanto l’interpretazione jazzistica pone un grande accento all’espressività, caratteristica che ci accomuna”. “E’ stata un’occasione sicuramente unica” – ha puntualizzato Vincenzo Giompaolo – “per proporre una carrellata iconografica non solo del Natale in territorio ibleo ma anche della celebrazione popolare dell’Epifania che in tanti luoghi siciliani viene seguita con irripetibile fervore religioso”.
I rintocchi della memoria: le campane
Al Centro Servizi Culturali di Ragusa dialogo culturale di Gianni Bellina
Le campane, ma anche i campanili, sono tra i segni più caratteristici per individuare i sacri edifici. Pur non trattandosi di elementi essenziali alla struttura del luogo cultuale sono tuttavia distintivi tanto da disegnare il paesaggio architettonico, sia urbano che rurale. Se il campanile è un segno tradizionalmente caratteristico, la campana è segno ritualmente importante che rappresenta un richiamo per il fedele e annuncio per chi non crede. Il suono di una campana rappresenta un “segno linguistico” il cui significato va oltre il riscontro fisico facilmente e quantitativamente misurabile attraverso le vibrazioni acustiche. In epoca cristiana tali suoni hanno variato il quotidiano in evento spirituale: i rintocchi delle campane scandiscono l’ininterrotto cammino di fede nell’avvicendarsi delle varie generazioni. Si tratta di segni “significanti” il cui “significato” interessa l’intera collettività. Il suono delle campane è per eccellenza pubblico ma anche sacrale. Sacralità ancestrale, apotropaica, pagana, cristiana, civile si intrecciano e si integrano in un richiamo che rievoca atmosfere arcane e familiari, tanto nella loro festosità quanto nel loro lato funesto. E’ necessario, dunque, accostarsi e studiare tali segni per recuperarne storia e significato.
Sulla base di tali istanze si muove l’incontro culturale proposto dal prof. Gianni Bellina, esperto di gnomonica e già docente presso l’Istituto Scolastico “P. Vetri” di Ragusa, avente per tema “Uso civile e religioso delle Campane” e recentemente tenutosi presso la sala convegni del Centro Servizi Culturali di Ragusa. L’interessante iniziativa, promossa dallo stesso Centro Servizi, in sinergica cooperazione con l’AS.PE.I. (Associazione Pedagogica Italiana) e l’Associazione Culturale Docenti “Gian Battista Hodierna”, ha dato modo di approfondire il tema delle campane non solo nel contesto dei beni culturali della Chiesa, ma anche in quello storico, sociale e spirituale. I lavori sono stati introdotti dal prof. Giovanni Firrito (Presidente dell’AS.PE.I), che ha letto due belle pagine tratte dal volume “All’ombra delle cupole” del prof. Nino Cirnigliaro. Lo stesso Nino Cirnigliaro (Presidente del Centro Servizi Culturali) ha concluso l’incontro parlando brevemente della presenza delle campane nella narrativa verghiana.
Le campane con il loro suono attivano un’esperienza estetica sacrale. La loro vibrazione acustica “coinvolge il senso dell’udito e rimanda l’intelligenza al sacro”. Prendendo a prestito un’espressione del Concilio Ecumenico Vaticano II (Costituzione apostolica sulla Sacra Liturgia, “Sacrosanctum concilium”, 04/12/1963, n. 122, in EV 1,24) si può affermare che, nel complesso, esse attuano il criterio ecclesiastico secondo cui le cose dedicate al culto debbono essere “veramente degne, decorose e belle, segni e simboli delle realtà soprannaturali”. Nell’uso monastico e conventuale la campana è “voce di Dio”. Nella vita consacrata la campana - la cui tonalità dipende dalle sue dimensioni mentre la qualità sonora dai procedimenti segreti che le famiglie dei costruttori si tramandano – scandisce l’intera giornata nelle varie fasi delle orazioni. Il diverso suono annuncia la varietà degli eventi celebrati (lo scampanio gioioso indica un evento festoso, mentre quello mesto e lento l’agonia e morte di un fedele; dal numero dei rintocchi si può distinguere anche il sesso del defunto), ma anche pericoli (incendi e calamità). Non mancano altri messaggi civili attraverso le campane (l’avviso del coprifuoco o l’allarme per i pericoli) e, non ultimo, il compito di trasmettere a distanza l’ora. Questi segnali, fino ad un recente passato, uniformano il comportamento della cittadinanza che si sveglia, va la lavoro, apre bottega, rientra e mette a letto le stanche membra al suono delle campane. Al valore segnico indicatorio delle campane si coniuga quello deprecatorio. Molto usata, specie nel medioevo, è l’invocazione “protege prece pia quos convoco, Sancta Maria”. Oltre il valore linguistico delle campane, dovuto alla tipologia dei suoni, vi è correlato anche un valore enunciativo che si rivela attraverso iscrizioni e immagini fuse nella campana stessa. La campana dell’antica chiesa di San Giorgio (Ragusa Ibla), fusa nel novembre del 1566, recava in alto due scritte, giranti attorno ad essa e poste su due linee distinte. Nella seconda linea, dopo una piccola aquila, si poteva leggere: “Recte et bene sonate” e, in greco, “Santo Dio, Santo Forte, Santo Immortale, abbi pietà di noi”. Un’altra iscrizione campanaria di tipo indicatorio, risalente al XV secolo, è la seguente: “Laudo Deum verum, plebem voco, congrego clerum… defunctos ploro, nymbos fugo, festaque honoro” (“Lodo il Vero Dio, chiamo il popolo, aduno il clero, piango i defunti, allontano le tempeste e onoro le feste”).
Riscoprire le campane nella loro funzionalità e materialità significa studiare non solo la genesi di una lingua ma anche gli strumenti per esprimerla. L’avventura conoscitiva, brillantemente proposta dal prof. Bellina, dà spessore alla quotidianità evidenziandone non solo le caratteristiche culturali, ma soprattutto facendo riemergere particolari storico-sociali che rappresentano il patrimonio dimenticato di una collettività.
Giuseppe Nativo
FEBBRAIO 2008
Le ferrovie iblee, tra storia e territorio
Non si può attraversare la parte sud-orientale di questo lembo di Sicilia senza essere ammaliati dalla bellezza paesaggistica. Per ammirarne appieno gli affascinanti scenari in tutta la loro imponenza, un punto cardinale dopo l’altro, nelle tante giornate di sole che inondano l’isola, il turista potrebbe utilizzare il mezzo che, come negli anni ’80 del XIX secolo, percorra un tracciato curvilineo, ora arrampicandosi sulle vallate iblee, ora ruotandovi attorno, utilizzando vecchi percorsi: la locomotiva a vapore.
Tratte ferroviarie iblee, tra storia e territorio, sono le tematiche discettate nel corso del convegno “Ragusa in treno”, recentemente tenutosi presso l’aula consiliare del Palazzo di Città alla presenza di un folto ed attento pubblico. A relazionare, dopo i saluti dei vertici politico-istituzionali del Comune, sono stati chiamati Daniele Pavone (ricercatore e pubblicista nel settore della valorizzazione dei beni culturali), Piero Muscolino (docente di Trasporti all’Università IULM di Milano, già Dirigente Generale delle FF.SS.) e Roberto Montelucci (Funzionario dei Trasporti su rotaia e già consulente Commissione Interministeriale tratto ferrovia Firenze-Roma).
Attraversando il territorio ibleo ci si accorge che il sistema viario è quasi “accompagnato” da una linea ferrata a volte in pendenza, rispetto all’asse stradale, altre in salita, che con il suo sinuoso tragitto, rispettando le asperità naturali del terreno, raggiunge i punti più lontani della provincia toccando, in un “abbraccio affettuoso”, diversi comuni dell’hinterland. Ci si imbatte, pertanto, in non pochi caselli ferroviari con relativi fabbricati che, non di rado, sono fatiscenti o dismessi da tempo. Si è, in buona sostanza, di fronte ad una linea ferroviaria facente parte di un progetto iniziato nella seconda metà del XIX secolo, finalizzato alla realizzazione di un articolato sistema di collegamenti ferroviari volto a migliorare lo sviluppo dei territori afferenti alla parte sud-orientale della Sicilia. L’approvazione, a luglio del 1879, della legge n. 5002, detta anche “Baccarini” dal nome dell’allora Ministro dei Lavori Pubblici, che favorisce nuove costruzioni ferroviarie in territorio italiano (suddividendole in 4 categorie – linee normali e a “scartamento ridotto” – in base alla loro importanza e contributo statale versato per la costruzione e gestione), dà la possibilità di fornire alla città di Ragusa un sistema ferroviario, talora con “alcune realizzazioni dalla notevolissima arditezza progettuale”, che attraversa un territorio oggi di alto interesse culturale anche per gli splendidi scorci paesaggistici di cui si può cogliere l’essenza percorrendo il tratto ragusano della Siracusa-Licata. La città di Ragusa è servita da due linee ferroviarie: la Siracusa-Licata e la cessata Siracusa-Vizzini-Ragusa, entrambe frutto del sopra citato progetto che fornisce alla Sicilia sud-orientale un complesso sistema di collegamenti su rotaia. La prima ad essere completata è la Siracusa-Licata (inaugurata tra il 1886 ed il 1893) che rappresenta per molto tempo una infrastruttura molto importante per la Città. Il completamento della Lentini Diramazione-Caltagirone (quest’ultima attivata sino a Gela solo alla fine degli anni ’70 del secolo scorso) nonché l’affermarsi del trasporto su autoveicoli gommati contribuiscono ad un notevole e costante ridimensionamento della tratta Siracusa-Licata, dovuta anche alla lunghezza del percorso e, quindi, non competitivo rispetto al sistema stradale. La Siracusa-Vizzini-Ragusa nasce dall’esigenza di raggiungere con la linea ferrata diverse località ricadenti in territorio aretuseo e ragusano (Floridia, Palazzolo Acreide, Chiaramonte Gulfi, etc.), non servite dalla Siracusa-Licata. Il 21 giugno 1911 alcune personalità dell’epoca costituiscono a Roma la SAFS (Società Anonima per le Ferrovie Secondarie della Sicilia) che, con Regio Decreto n. 697 del 15 febbraio 1912, assume la concessione per la costruzione e l’esercizio della Ferrovia. Inizia così la progettazione e realizzazione della Siracusa-Vizzini-Ragusa (inaugurata tra il 1915 ed il 1923) che presenta un caratteristico tracciato a Y il cui fulcro è rappresentato dalla stazione di Bivio Giarratana (Rg): la linea proveniente da Siracusa, dopo aver attraversato la splendida Valle dell’Anapo, molto ricca per patrimonio naturalistico ed archeologico, si dirama in due tronchi, di cui uno arriva fino a Vizzini (passando da Monterosso Almo e Buccheri), presso la stazione FS di Vizzini Scalo, mentre l’altro, dopo aver servito Chiaramonte Gulfi, giunge nel capoluogo ibleo, servendola con due stazioni, di cui una di campagna, denominata Annunziata, e l’altra centrale, confinante con quella FS. Tale linea, che è stata una delle due sole ferrovie in concessione della Sicilia (l’altra è la Ferrovia Circumetnea), è costruita a “scartamento ridotto” di 950 mm (per “scartamento ferroviario” si intende la distanza intercorrente tra i lembi interni delle due rotaie misurata a 14 mm sotto il piano di rotolamento; la larghezza in genere utilizzata è di 1435 mm; le linee che utilizzano uno “scartamento” di misura inferiore, sono dette a “scartamento ridotto”) che permette di effettuare un buon tracciato percorribile in zone tortuose (caratteristiche del territorio ibleo), sebbene riduca parecchio la velocità della locomotiva. La lunghezza della linea è di 124, 35 km (di cui circa 97 km per la tratta Siracusa-Bivio Giarratana-Ragusa a cui si aggiungono i 27 km della tratta Bivio Giarratana-Vizzini scalo). Il servizio è garantito da un parco macchine di 10 locomotive a vapore, realizzate appositamente a Breda e numerate da 01 a 10, a ciascuna delle quali è inoltre attribuito il nome di una località servita dalla Ferrovia (per cui l’unità 06 è denominata “Giarratana”, la 07 “Chiaramonte”, la 08 “Ragusa”, e così via). A seguito della realizzazione di un tronco a servizio del Porto di Siracusa, per il trasporto dell’asfalto proveniente dalla miniere di Ragusa, la tratta raggiunge un periodo di notevole importanza. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, per una serie di decisioni manageriali non lungimiranti, la SAFS interrompe il servizio sui due tronchi da Bivio Giarratana per Ragusa e Vizzini (18 febbraio 1949), decidendo poi per la chiusura definitiva (30 giugno 1956), seguita poi dal totale smantellamento. Oggi di questa ferrovia, che ripercorre una delle rotte di penetrazione percorse sin dai tempi della colonizzazione greca, rimangono non poche tracce che assumono notevole importanza in quanto collocate in un “insostituibile corridoio di collegamento fra alcuni dei principali siti di interesse archeologico”. Da qui l’esigenza di sviluppare le potenzialità turistiche della ex tratta Siracusa-Vizzini-Ragusa (peraltro già note negli anni ’30 del Novecento) “attraverso la tutela e valorizzazione di questa parte importante della recente storia iblea”.
Mostra di opere progettate per la Chiesa ragusana dal 1955 al 1959
Duilio Cambellotti, “artista-artigiano” dai molteplici talenti
“Presentare Duilio Cambellotti ai cittadini di Ragusa sarebbe fuor di luogo, direi inopportuno. Ragusa ha il vanto, come poche città d’Italia e la stessa Roma, di possedere numerose opere del Maestro, e tutte egregie… Pittore, scultore, incisore, orafo, medaglista, scenografo, illustratore di libri, Duilio Cambellotti fu un virtuoso di tutte le arti, grande al pari dei più grandi del Rinascimento…”. Ciò è quanto scrive, nel 1960, Saverio Fiducia qualche tempo dopo la scomparsa di Cambellotti, di cui presentava nel capoluogo ibleo una bella mostra. Ad oltre quarant’anni dalla scomparsa l’artista torna a far parlare di sé attraverso un’iniziativa promossa dall’Amministrazione Comunale su proposta dell’Assessore alla Cultura, Francesco Barone. Si tratta della mostra di disegni preparatori, studi e bozzetti esecutivi che costituiscono il corpus delle opere progettate da Cambellotti per la Chiesa ragusana in un ambito temporale che va dal 1955 al 1959. Luogo espositivo scelto è la vetusta chiesa di S. Antonino (Ragusa-Ibla) che dal 5 al 27 gennaio ha ospitato anche altre opere provenienti dall’archivio dell’artista e riguardanti la nutrita ed instancabile sua produzione. “Le opere progettate per la Chiesa ragusana negli anni ’50 del secolo scorso” – spiega il curatore della mostra, Arturo Dinatale – “rappresentano il ritorno del grande artista romano nella nostra città, a più di vent’anni dal ciclo pittorico da lui compiuto nei fastosi saloni del Palazzo del Governo”. Nei primi anni ’30 del Novecento inizia, in ambito ragusano, il solco artistico tracciato dal Cambellotti attraverso l’esecuzione delle decorazioni murali del nuovo Palazzo della Prefettura (si tratta dei tre ambienti di maggiore spicco: il Salone d’Onore, la Sala del Camino e la Sala da Pranzo, dove, oltre ai temi ricorrenti del regime, sono rappresentati i prodotti della terra unitamente alle attività del territorio ibleo), nell’ambito della quale si instaura una fruttuosa sinergia – amichevole e di “committenza” pittorica - con Antonino Cannì, apprezzato artista ragusano.
Dopo circa quattro lustri, il Cambellotti viene chiamato a predisporre la realizzazione di numerosi progetti per la Chiesa ragusana. Si tratta di un breve ma intenso periodo, quello tra il 1955 e il ’59, in cui il Maestro disegna, curando sin nei minimi particolari, i bozzetti riguardanti i soggetti e le scene da realizzare per le vetrate della chiesa dell’Ecce Homo di cui solo tre, dei quindici elaborati, sono posti in opera ed inaugurati nel giugno del 1956 (il “Coronato di spine”, sulla facciata della chiesa; la “Natività” e la “Pentecoste” sui lati opposti del transetto). In quello stesso ciclo di produzione artistica è realizzato, in occasione della istituenda Diocesi, il prezioso “Pastorale della Diocesi di Ragusa” (di cui sono esposte alcune foto). Una committenza importante che Cambellotti, su incarico dell’allora Vescovo Mons. Pennisi, porta a termine nel 1957. In tale opera, di argento a fusione in parte dorato, con smalti e gemme, si può notare lo straordinario contributo artistico di Cambellotti caratterizzato da una raffinatezza senza eguali.
Il percorso espositivo è anche arricchito da preziosi ed interessanti disegni di opere poi non realizzate, quali, ad esempio, il bellissimo pulpito dall’Artista concepito per la Cattedrale di San Giovanni Battista, sede della cattedra del Vescovo, del quale si può ammirare il bozzetto in gesso.
Tutta la vasta e complessa produzione di Cambellotti (1876-1960) è caratterizzata da una “rinnovata interpretazione delle forme nate per un uso quotidiano e pervasa da un linguaggio artistico ispirato all’inesauribile repertorio offerto dal mondo della Natura”. Molteplici sono i contatti che l’Artista ha modo di intrattenere con numerosi esponenti del panorama artistico italiano a cavallo tra la fine dell’800 e i primi del ’900 (Balla, Boccioni, D’Annunzio, etc.). La paziente acquisizione di tecniche di lavoro (come l’intaglio del legno, la scultura, la vetrata, la xilografia, la fusione bronzea, etc.) testimoniano “la ricerca dell’espressione artistica attraverso svariati mezzi, partendo dallo studio del reale, via via sintetizzato”.
La mostra, dunque, vuole “raccontare il percorso” dell’avventura artistica di Cambellotti, “rendendo omaggio ad uno dei più grandi artisti italiani del XX secolo che ha saputo cogliere in pieno i colori e lo spirito di Ragusa”.
“L’iniziativa” – scrive l’Assessore alla Cultura, Francesco Barone, nella puntuale ed articolata presentazione dell’evento – “resa possibile da Marco Cambellotti, nipote del grande Maestro, costituisce un motivo di straordinario interesse in una città che si impone all’attenzione nazionale ed internazionale come centro di eccellenza culturale sia per le molteplici attività sia per i beni patrimonio dell’UNESCO”.
Attraversamento sperimentale per i non vedenti
Il sistema L.O.G.E.S. a Ragusa
La problematica che ruota attorno l’abbattimento delle cosiddette “barriere architettoniche” ha posto, a far data dagli anni ’70, non poche riflessioni sulla emanazione ed applicazione di disposizioni legislative a tutela dei portatori di handicap. La “barriera architettonica” è qualunque elemento costruttivo o ostacolo che impedisca, limiti o renda difficoltosi i movimenti, o la fruizione di servizi, da parte di chiunque, in particolare di coloro i quali si trovino con una limitata capacità motoria o sensoriale. Esempi classici di “barriera architettonica” sono: scalini, porte strette, spazi ridotti, pendenze eccessive; ma esistono anche casi di barriere meno evidenti, come parapetti “pieni” che impediscono la visibilità a una persona in carrozzella o di bassa statura. Vi sono anche elementi di ostacolo ai non vedenti quali i semafori privi di segnalatore acustico, oppure oggetti che sporgono in alto e verso cui si può andare a sbattere in quanto non rilevabili con l’uso del bastone bianco. La necessità di garantire al maggior numero di persone il diritto alla libertà di movimento ha portato alla elaborazione e definizione di parametri comuni da indicare a livello normativo. Il problema sociale costituito dalla presenza di “barriere architettoniche” nei luoghi urbani (spazi pubblici) è certamente ben presente a tutte le amministrazioni pubbliche e, più in generale, può dirsi ormai assimilato dalla pubblica opinione. La stessa legislazione di settore ha posto in essere specifiche normative che mettono a disposizione strumenti operativi a carattere programmatorio e pianificatorio. La realizzazione di sistemi atti a favorire la motilità, attraverso il riconoscimento dei luoghi e delle fonti di pericolo da parte dei disabili visivi, rappresenta un obbligo di legge, così come ribadito all’art. 1 del D.P.R. 24 luglio 1996 n. 503, che specifica meglio quanto già enunciato nella “Legge-quadro sull’handicap” del 5 febbraio 1992 n. 104, relativamente alla eliminazione delle barriere architettoniche.
Su tale delicata e cocente problematica il Comune di Ragusa ha recentemente posto la massima attenzione realizzando il primo attraversamento pedonale per non vedenti in prossimità dell’impianto semaforico del Ponte F. Pennavaria (Via Roma, nei pressi di Piazza Libertà). I lavori sono stati caratterizzati da due fasi: la prima con la posa in opera dello speciale materiale, utilizzato in via sperimentale, avvenuta a luglio scorso; la seconda con l’intervento conclusivo dei lavori, avvenuto lo scorso 16 gennaio. In quest’ultima fase i tecnici comunali hanno realizzato le “intercettazioni” sui marciapiedi, i segnali di pericolo valicabile a bordo dei marciapiedi stessi e, nella parte inferiore, le indicazioni di servizio caratterizzate da appositi codici che si basano su una nuova tecnica sperimentale, il sistema L.O.G.E.S. (Linea di Orientamento Guida e Sicurezza). Messo a punto da Casalgrande Padana su licenza esclusiva, il sistema L.O.G.E.S. è un linguaggio speciale impresso su piastrelle in grado di garantire una maggiore autonomia e sicurezza ai disabili visivi nei loro spostamenti. Gli elementi modulari che compongono la pavimentazione, dotati di scanalature appositamente studiate per forma, spaziatura e altezza del rilievo, permettono ai non-vedenti di seguire un certo percorso attraverso il senso tattile plantare e manuale (il bastone bianco), l’udito e il contrasto di luminosità (per gli ipovedenti). Il sistema di guida “artificiale” L.O.G.E.S. - che consente di individuare con facilità linee di arresto, pericoli, scavi, ostacoli insormontabili - si affianca ed è complementare rispetto al sistema di guide “naturali” rappresentate da quelle particolari conformazioni dei luoghi (muri, marciapiedi, cordoli, siepi, aiuole, echi sonori, etc.) che consentono al disabile visivo di orientarsi e di proseguire la sua marcia senza bisogno di altre indicazioni. I menzionati elementi modulari della pavimentazione sono articolati in codici informativi suddivisi in: “codici base” e “codici complementari”. I “codici base”, da cui traggono origine quelli “complementari”, sono quei codici informativi impressi sulle piastrelle che hanno il compito di fornire l’indicazione di “direzione rettilinea” (scanalature parallele al senso di marcia) o quella di “arresto-pericolo” (piastrelle con calotte sferiche disposte a reticolo diagonale, avvertibili sotto i piedi in modo da rendere scomoda una prolungata permanenza sopra di esse).
Tale sistema, in Italia, è già stato adottato dalle Ferrovie dello Stato, dalle Poste Italiane e dal Comune di Roma. Ragusa rappresenta, pertanto, la seconda città che ha introdotto tale innovazione, sia pure sperimentale, al servizio di tutti coloro i quali sono diversamente abili.
Feste e tradizioni popolari attraverso le carte d’archivio
“Scoprire le origini di feste ancor oggi vive e le radici delle nostre tradizioni può aiutarci a vivere più consapevolmente il presente, comprendendo riti e costumi delle classi colte e di quelle popolari”. E’ questo l’incipit della presentazione relativa alla “Agenda”, una pubblicazione realizzata ogni anno dalla Direzione Generale per gli Archivi in sinergica cooperazione col MIBAC (Ministero per i Beni e le Attività Culturali). L’Agenda per l’anno 2008, con le sue 126 illustrazioni rivenienti da un’accurata selezione operata all’interno dei fondi documentari conservati presso gli Archivi di Stato, è dedicata ad alcuni aspetti del patrimonio “immateriale” del nostro Paese. Feste civili e religiose, usanze popolari, sebbene siano momenti particolari di aggregazione che hanno come filo conduttore il sentimento genuino che sgorga dall’animo umano in qualunque situazione e momento, spesso diventano “consuetudini” di cui talvolta non si conosce la storia. I documenti che testimoniano di feste popolari, folklore, tradizioni e saperi, raccontando la storia di un territorio o di una comunità, ne rappresentano le caratteristiche essenziali della sua identità. Diventano, inoltre, primario supporto ai fini della conservazione, diffusione e valorizzazione di un patrimonio che in Italia è molto ricco.
E’ sulla base di tali istanze che l’Archivio di Stato di Ragusa, attraverso l’impegno profuso dalla direttrice, dottoressa Anna Maria Iozzia, e dai suoi collaboratori, ha contribuito alla stesura della “Agenda 2008” fornendo all’Organo centrale archivistico, dopo un’attenta ricerca, per la relativa pubblicazione, materiale cartaceo attestante il fervore ibleo nel corso di eventi civili e religiosi che hanno contraddistinto il territorio afferente alla provincia di Ragusa. Si tratta di quattro documenti, significativi non solo da un punto di visto storico ma anche da quello iconografico, tutti provenienti dalla stessa struttura archivistica iblea: “fotografia della processione in occasione della istituzione della diocesi di Ragusa” (AS Ragusa, fondo Prefettura, Gabinetto, 18/08/1950); stralcio documento della “determinazione del comitato di Modica per i festeggiamenti in occasione dell’ingresso del generale Giuseppe Garibaldi a Palermo” (in cui si legge che “oltre alla illuminazione del paese per tre giorni, ai fuochi artificiali e ad uno spettacolo musicale gratuito, l’evento si sarebbe celebrato anche in chiesa, col canto dell’Inno ambrosiano”; Sez. AS Modica, Archivio privato De Leva, Corrispondenza, 30/05/1860); “volantino a stampa con l’immagine della Immacolata Concezione, in cui si chiede un’elemosina per togliere dal peccato, almeno in questa solennità, le donne di malaffare e radunarle nella Casa di Nostra Signora degli Abbandonati per tentare di redimerle” (AS Ragusa, Archivio privato Statella, s.d.); fotografia scattata nel corso della XI Festa dell’uva a Santa Croce Camerina (AS Ragusa, Prefettura, Gabinetto, 29/09/1940). Quest’ultima, fra le feste paesane promosse dal regime in quegli anni, è lanciata come la “battaglia dell’uva” allo scopo di incentivarne il consumo. Nella foto d’epoca sono immortalati alcuni gerarchi con bambini che distribuiscono uva alle scolaresche del paese.
Momenti di storia, dunque, che meritano di essere ricordati in quanto tasselli del passato che servono a comprendere più profondamente il presente. “Oltre alla comunicazione istituzionale, volta a fornire una informazione esauriente e percepibile rispondente alle esigenze di utenti diversi” – spiega la dottoressa Iozzia – “attraverso la nostra Agenda si vuole dare anche una comunicazione sul prodotto culturale che mira a diffondere nonché promuovere capillarmente la conoscenza di un patrimonio documentario così ricco, anche da un punto di vista iconografico, come quello della nostra Sicilia. Per tali motivi l’Agenda si presenta come una sorta di vademecum, un promemoria facile da consultare”.
Pubblicati alcuni documenti dell’antica Chiesa Madre S. Giorgio di Ragusa Ibla
Quando l’Archivio racconta
“E’ un momento memorabile perchè è da anni che stiamo lavorando affinché l’ingente patrimonio culturale della parrocchia sia messo a disposizione della collettività. Con questo primo quaderno iniziamo un cammino importante che mette in luce la memoria storica dell’antica Ragusa”. Questo l’incipit del discorso introduttivo affidato a don Pietro Floridia (parroco della Chiesa Madre di San Giorgio in Ragusa-Ibla) in occasione di un’importante iniziativa culturale recentemente promossa ed organizzata dal Circolo di Conversazione di Ibla. Si tratta della presentazione del 1° Quaderno dell’Archivio storico parrocchiale della Chiesa di San Giorgio che ha avuto un esito a stampa dopo una certosina ed annosa ricerca cui si sono dedicati, con impegno non comune, tre studiosi di storia locale che hanno messo a disposizione le loro competenze maturate sul campo per portare alla giusta attenzione un complesso materiale archivistico: l’ing. Giuseppe Arezzo, la dr.ssa Clorinda Arezzo (esperta in Conservazione dei Beni Culturali), l’arch. Maria Sortino ed il dott. Gaetano Veninata (neolaureato in Giurisprudenza). Il gruppo di studio, insediatosi nei locali attigui alla canonica, da destinare a sede dell’archivio storico della Chiesa Madre di S. Giorgio, dopo i relativi lavori di restauro grazie ai fondi della legge speciale per Ibla, ha iniziato l’attività di ricerca con la sistemazione del vasto complesso materiale documentario. Tale archivio riveste non poca rilevanza considerato che la citata Chiesa ha svolto, per oltre cinque secoli, il ruolo di sede vicariale ricoprendo una posizione cardine dal punto di vista “amministrativo, decisionale e comunque di guida dell’intera collettività ragusana”. “Oggi, a distanza di tre anni dall’inizio dei lavori, entrare nel locali dell’Archivio” – specifica l’ing. Giuseppe Arezzo (Presidente del Circolo di Conversazione), nel corso della relazione inaugurale – “continua ad essere motivo di entusiasmo, a testimonianza del formidabile interesse che i carteggi ed i loro contenuti trasmettono”. La documentazione ad oggi inventariata dal menzionato gruppo di lavoro copre un arco temporale che va dagli anni ’20 del XVI secolo ai primi anni del Novecento ed è costituita da: “testimonianze circa i fatti criminali in cui furono coinvolti ecclesiastici ed i chierici, anche coniugati”; “riveli degli ecclesiastici”; “autorizzazioni annuali delle processioni”; “decreti di carcerazioni e scarcerazioni per le persone soggette alla giurisdizione ecclesiastica”; “autorizzazioni per negozi dei beni ecclesiastici”; e tanta altra documentazione che merita una ricerca più ampia per sviscerare ciò che la storia non ha detto. Quattro sono i documenti inediti pubblicati nel 1° Quaderno dell’Archivio storico parrocchiale. Il primo riguarda il “Furto avvenuto a piazza degli Archi nel giorno del terribile terremoto del 1693, fatti conseguenti e problematica connessa alla divisione della Città avvenuta nel 1695” (a cura di Giuseppe Arezzo); il secondo esamina “Il Rivelo dei frumenti degli ecclesiastici di Ragusa nel 1646” (di Gaetano Veninata); il terzo riguarda le “Indagini d’archivio sulla chiesa di San Filippo Neri a Ragusa Ibla” (di Clorinda Arezzo); il quarto prende in considerazione il “Diario manoscritto di un viaggio da Ragusa a Napoli nel 1850” (a cura di G. e C. Arezzo e G. Veninata).
A presentare il volume del 1° Quaderno dell’Archivio storico parrocchiale - dopo i saluti dei vertici politico-istituzionali della città di Ragusa unitamente alle autorità laiche ed ecclesiastiche - è stato il prof. Giuseppe Barone, docente di Storia contemporanea presso l’Università di Catania. L’illustre relatore, nel suo articolato e puntuale excursus, ha illustrato la centralità assunta sin dal medioevo dalla Contea nella quale l’universitas (cioè la “città”) di Ragusa trova un posto di rilevanza per la fiorente economia del XV e XVI secolo, stimolata dalla produzione di frumento, esportato in Spagna dove risiedono i Conti, dall’allevamento di bestiame unitamente alle attività imprenditoriali svolte dalla borghesia locale. In territorio ibleo, a far tempo dal XIV secolo, si rileva una pluralità etnica dovuta soprattutto alla presenza di comunità ebraiche che con la loro industriosità apportano una ricchezza economica non indifferente attraverso anche gli scambi commerciali ed operazioni finanziarie con mercanti non siciliani. L’economia subisce poi un vero e proprio tracollo a seguito della cacciata degli ebrei (decreto di espulsione del 1492). E’ il periodo della frenetica attività inquisitoriale operata sotto l’egida del Santo Uffizio spagnolo (XVI e XVIII sec.). E’ anche il periodo della nuova classe borghese emergente che, con l’istituto giuridico degli “enfiteusi” (concessione di terre dietro pagamento di un determinato “canone” annuo), apporta grande sviluppo all’agricoltura. Nonostante le arretratezze e ristrettezze dovute alle continue carestie ed epidemie, si nota comunque una certa “vivacità” in tutti i campi della struttura sociale: da quello culturale a quello commerciale, da quello politico a quello giuridico. Tutto ciò fornisce al territorio ibleo delle connotazioni uniche nel suo genere. In tale contesto ben si inserisce la pubblicazione degli antichi documenti dell’Archivio storico della Chiesa Madre di San Giorgio di Ragusa-Ibla il cui studio può certamente far luce su aspetti e problematiche finora sconosciute o poco approfondite.
Giuseppe Nativo
MARZO 2008
Tenutasi a Ragusa la Conferenza di Organizzazione della Fisac Cgil
Il sindacato bancari si interroga: quale rapporto con il lavoro e con l’Azienda
Evoluzione o Involuzione della condizione lavorativa del bancario oggi? E’questo l’interrogativo principe che la FISAC (Federazione Italiana Sindacale Assicurazioni Credito) CGIL di Ragusa, in sinergia con la Segreteria Nazionale, si pone in relazione alle mutate condizioni del mondo del lavoro, con particolare riferimento al settore bancario, alle trasformazioni delle Imprese ed alle necessità di efficacia che devono caratterizzare una incisiva e permanente attività sindacale.
Oggi si parla molto dei bancari e lo si fa in termini diversi rispetto al passato. Per meglio comprendere l’attuale condizione di lavoro del bancario nonché il tipo di professionalità richiesta è necessario considerare le modifiche che, nel corso degli anni, sono state imposte dall’evoluzione storica del mercato. Negli anni Sessanta del secolo scorso il sistema bancario, semplificando, svolge il ruolo di intermediario nel comparto dei pagamenti e la clientela allo sportello è altamente selezionata. Negli anni Settanta, l’esteso cambiamento sociale in atto nell’azienda Italia porta le banche ad offrire un servizio più diffuso, sia alle imprese sia alle famiglie, che si traduce in assunzioni di massa verso la fine di quel decennio. Muta, di conseguenza, la geografia interna alla categoria: i nuovi assunti, figli di quel clima sociale e politico, sanno di avere condizioni di lavoro ed economiche migliori rispetto ad altri settori nonché di poter contare sulla stabilità del posto di lavoro. Questa percezione del ruolo del bancario ha una sua importanza perché chi è entrato nel settore in quel periodo, con quelle caratteristiche, ancora oggi vi lavora ma in un contesto completamente cambiato. Gli anni Ottanta non si dimostrano dirompenti, contengono però i sintomi di quel che accadrà in seguito. La riorganizzazione tecnologica e operativa, l’accentramento e l’automatizzazione di alcune lavorazioni contabili ed amministrative, l’imponente apertura di nuovi sportelli, il nuovo obiettivo di “aggredire” nuovi fette di mercato unitamente ad un più energico orientamento verso nuovi “target” di clientela, portano all’introduzione delle prime figure di addetto alla clientela (l’antesignano del futuro addetto alla vendita), cui vengono offerti percorsi accelerati di carriera. Negli anni Novanta va in scena la trasformazione ancora oggi in corso. È il decennio delle privatizzazioni delle maggiori banche italiane, del ridimensionamento degli istituti di diritto pubblico, delle aggregazioni rivolte verso la formazione di grandi poli bancari che, ben presto, si trovano a fronteggiare un mercato molto “vivace” e fortemente correlato alle sue feroci logiche di concorrenza. In conseguenza di ciò si ha un mutamento di obiettivo: il bancario non è più considerato per la sua funzione o ruolo svolto, bensì per la sua redditività. Prende piede la quantità e non la qualità degli utili generati. Trovano applicazione tutte le logiche del profitto immediato comprese le politiche di “vendita forzata” alla clientela di prodotti che non sempre sono in grado di coniugare l’ovvia ricerca di guadagno delle banche con le esigenze diversificate sul piano del rischio dei risparmiatori. In buona sostanza, nel giro di pochi anni per il bancario cambia più o meno tutto: non più lavoro di routine ma, per una buona parte della categoria, attività di vendita anche di prodotti assicurativi; spostamento di masse di lavoratori e lavoratrici da attività di cassa e/o di ufficio interno ad attività di vendita e consulenza; perdita di identità dovuta alle fusioni tra banche diverse per cultura aziendale, mercati di riferimento e dimensioni; processi di mobilità territoriale molto spesso affrontati in assenza di regole.
E’ sulla base di tali cocenti problematiche che la FISAC ha stilato un documento programmatico oggetto di un seguitissimo incontro tenutosi recentemente a Ragusa, presso la Camera del Lavoro della CGIL. Tema dei lavori, a livello comprensoriale, è stato la prossima “Conferenza di Organizzazione” che vedrà la FISAC “riflettere sulla propria struttura organizzativa” in rapporto ai processi di trasformazione delle imprese finanziarie ed alla necessità di un’efficace azione sindacale che tenga conto delle mutate esigenze. Alla relazione iniziale, volutamente snella per dare spazio al dibattito, ma corposa, affidata a Giorgio Casa (Segretario Generale FISAC CGIL Comprensorio di Ragusa e componente la Segreteria Regionale), ha fatto seguito l’intervento di Tommaso Fonte (Segretario Generale CGIL Ragusa). Dopo l’ampio dibattito, incardinatosi tra i componenti del Direttivo provinciale ed articolato su tematiche molto interessanti tanto da un punto di vista sociale quanto sindacale, sono seguiti gli interventi di Francesca Artista (Segretaria Regionale FISAC CGIL Sicilia) e di Graziella Rogolino (Segretario Nazionale FISAC CGIL), alla quale è stata affidata la relazione conclusiva dei lavori. Artista e Rogolino, entrambe esponenti di spicco dell’Organizzazione, hanno posto l’accento sull’importanza assunta, in questi ultimi anni, dalla “contrattazione dei processi di ristrutturazione” che la FISAC è chiamata ad affrontare attraverso un processo graduale di rinnovamento degli organismi territoriali, posto anche in termini di cambiamento generazionale. Tutto ciò deve però essere suffragato da un rafforzamento del ruolo degli operatori sindacali stante i mutati e allarmanti processi a cui è quotidianamente sottoposto il settore dei bancari, non ultimo quello relativo al “crescente accentramento delle decisioni all’interno dei Gruppi bancari ed assicurativi, conseguente ai processi di concentrazione delle aziende stesse, che porta ad un preoccupante deterioramento dei livelli di democrazia e di rappresentanza sindacale”.
Su questo quadro complessivo, che merita ulteriori approfondimenti, di particolare spessore, dunque, si sono rivelati gli interventi di Graziella Rogolino e Francesca Artista. Quest’ultima ha posto in evidenza la necessità di rinnovamento culturale e di definitiva scelta verso nuovi modelli organizzativi per comprendere e supportare le “identità in transizione”, quali quelle dei bancari, rifuggendo ogni nostalgia di un passato “di cui certamente andar fieri”, come ha pure sottolineato la Rogolino, ma al tempo stesso da utilizzare come punto di partenza verso il nuovo ruolo organizzativo ed istituzionale del Sindacato.
Il Centro Studi “F. Rossitto” pensa al futuro culturale dei giovani
L’Assemblea dei soci vara l’attività programmatica del triennio 2008-2010
Quest’anno il Centro Studi “F. Rossitto” compie 27 anni di età. Nato nel lontano 1981 per cercare di soddisfare le esigenze culturali del capoluogo ibleo, il Centro diviene ben presto punto di contatto di variegate e molteplici collaborazioni ad alto livello socio-culturale nonché elemento catalizzatore e di riferimento di sinergie che si instaurano nell’ambito di non poche iniziative promosse ed organizzate con altre associazioni o istituzioni culturali, con i comuni e la provincia, la Regione Siciliana, il Ministero dei Beni culturali ed ambientali, le istituzioni universitarie, l’Associazione Teatro Utopia e il Centro Servizi Culturali. Riconosciuta tanto in ambito regionale (06/11/1989) quanto in quello nazionale (9/12/1997), la struttura, oggi ubicata nei locali di Via Ducezio, scandisce la vita culturale del capoluogo (e non solo). La sala convegni fornisce la possibilità di organizzare eventi culturali anche di tipo espositivo mentre l’annessa biblioteca risulta dotata, oltre che di una cospicua Emeroteca (che è disponibile agli insegnanti, studenti e a tutti i cittadini per ricerche e consultazioni), di numerosissimi volumi (la catalogazione delle opere supera di gran lunga le 10.000 unità) raccolti nelle sezioni di Storia contemporanea (con una sottosezione dedicata alla Sicilia ed alla provincia di Ragusa), Letteratura, Pedagogia e Didattica, Scienza, Economia, Etnologia. Nel luglio del 1999, la biblioteca è inserita nel circuito del Servizio Bibliotecario Nazionale e Regionale con possibilità di usufruire del “prestito inter-bibliotecario”. Nel corso di quasi sei lustri di attività numerosissime sono le pubblicazioni edite dal Centro, tra cui una propria rivista trimestrale di cultura e politica, strumento di formazione e di ricerca per la promozione culturale e sociale del territorio ibleo. Nell’agosto del 2003 il Centro Studi “F. Rossitto” è inserito nella tabella degli Istituti culturali di particolare rilievo. Si tratta di un ambito riconoscimento che arriva a coronamento di un percorso che il Centro ha compiuto, nel corso dei suoi anni di attività, sulla scorta di una programmazione attenta e scrupolosa.
Oggi il Centro Studi è una realtà fortemente rinsaldata nel territorio ibleo. Mostre, convegni, incontri, dibattiti e presentazioni editoriali hanno fatto conoscere al grande pubblico l’instancabile cammino letterario di molti scrittori nonché le opere d’arte di non pochi artisti creando numerose collaborazioni culturali con enti e associazioni non solamente locali. L’attività elaborata per il triennio 2008-2009-2010 è stata oggetto di attenzione alla recente Assemblea annuale dei Soci tenutasi presso l’Antica Badia Relais Hotel di Ragusa. La stupenda cornice del palazzo settecentesco, sito in pieno centro storico, ha fatto da sfondo ai lavori assembleari che si sono svolti alla presenza dei numerosissimi soci nonché di un folto ed attento pubblico. Dopo gli adempimenti formali, i lavori sono iniziati con la puntuale ed articolata relazione affidata alla perizia del presidente del Centro, on. Giorgio Chessari, nel corso della quale è stata illustrata l’attività svolta nel triennio 2005-2007. Attività che, distribuite nell’arco del triennio, possono forse sfumare nel ricordo, ma elencate dal presidente, una dopo l’altra, e solo le più importanti, si sono rivelate numerose e particolarmente rilevanti per interesse e spessore culturale. Recentemente il Centro si è arricchito di memoria storica e letteraria attraverso alcune cospicue donazioni. Quest’ultime riguardano il comparto della storia locale, relativamente ad una serie di libri che fanno parte della collezione del prof. Giuseppe Raniolo, attento ed accanito studioso dell’antica Contea, nonché il settore letterario rappresentato dalla raccolta di corrispondenza (epistolario 1967-2006) intrattenuta dal poeta Giovanni Occhipinti, figlio degli iblei, con i grandi della letteratura nazionale ed internazionale.
Disimpegnati gli adempimenti relativi al bilancio, il cui elaborato computistico è stato sintetizzato dal dott. Migliorisi, consulente per la contabilità, si è esaminata l’attività programmatica per il triennio 2008-2010 posta anche in relazione all’esigenza di realizzare una nuova sede al fine di fornire uno spazio più adeguato alle ormai molteplici esigenze del Centro stesso. E’ toccato al vicepresidente del Centro Studi, l’attore e regista teatrale Giorgio Sparacino, illustrare, in sinergica cooperazione con l’ing. Franco Poidomani che curerà l’elaborazione tecnica della nuova sede, il progetto del nuovo Centro “polifunzionale per la cultura, la scienza, l’arte, il lavoro e la pace” intitolato a Feliciano Rossitto. Si pensa ad una costruzione “modulare” che abbia come caratteristica principale quella della poli-funzionalità, allo scopo di far fronte alle numerosissime richieste in campo socio-culturale che quotidianamente pervengono al Centro. Sulla base di queste incalzanti esigenze è stata predisposta una “ipotesi progettuale” che tiene conto della realizzazione di una struttura da dislocare su un’area di circa 5.600 mq, di cui circa 1.600 edificati ed altri 4.000 lasciati a verde, viabilità interna, parcheggi e strutture a cielo aperto. Nell’ipotesi progettuale è compreso un apposito spazio da destinarsi ad un “centro euro-mediterraneo intersindacale”.
Numerose le proposte avanzate, nel corso del dibattito assembleare, dai soci e dai simpatizzanti appositamente intervenuti, non ultima quella evidenziata dal prof. Giovanni Occhipinti riguardante una sezione letteraria da cui muoverà la produzione di una nuova rivista che prevede la collaborazione di scrittori operanti anche in campo internazionale. E’ previsto anche l’insediamento di apposite sezioni o gruppi di studio nell’ambito della filosofia, economia e storia che si affiancheranno a quelli già presenti (comparto organizzativo, musicale e giuridico). “Il Centro, in buona sostanza, deve considerarsi” – puntualizza Pippo Antoci, che si occupa del settore organizzativo – “uno strumento anche in termini sociali per avvicinare i giovani alle politiche culturali”. Spazio, dunque, a blog e tavole rotonde che possano far riflettere su alcune cocenti tematiche della società moderna.
Salute e malattia: alla ricerca dell’equilibrio perduto
Conferenza su Medicina bioenergetica alla libreria “Saltatempo”
La malattia, intesa come uno stato patologico o alterazione dell’organismo o di un suo organo dal punto di vista anatomico o funzionale, ha, da sempre, rappresentato per l’essere umano una preoccupante realtà. Sin dalla sua comparsa l’uomo è chiamato ad assumere un ruolo attivo nella salvaguardia della sua salute. Presso la civiltà occidentale alla malattia si contrappone una “risposta” terapeutica, attraverso la medicina farmaceutica, che trova la sua prima espressione scientifica in una delle correnti della medicina ippocratica. Molta attenzione è posta ai sintomi fisici del malato. La malattia, che assume una sua propria essenza, autonoma ed indipendente dal soggetto che la soffre, è inserita in un dualismo ben definito che separa l’anima dal corpo: la prima è di competenza della metafisica, la seconda, della fisica. Con la nascita dell’anatomopatologia, approccio medico basato sulle “lesioni organiche”, è rafforzata la visione secondo la quale ad ogni alterazione funzionale ne corrisponde una organica. Diversamente, i cosiddetti modelli olistici, diffusi specialmente in Oriente, concepiscono la malattia come l’effetto della disarmonia fra il microcosmo e il macrocosmo, e il processo di guarigione è visto come un riequilibrarsi cosmico. Moderne concezioni mediche dei paesi occidentali si avvicinano a tale concezione traendo spunto da una semplice considerazione che tiene conto della “energia vitale” insita in ogni essere vivente e rappresentata dai rapporti chimico-elettrici tra le singole molecole costituenti ciascuna cellula. All’interno di ogni singola cellula vi sono ammassi di atomi con una loro specifica attività elettrica o elettromagnetica. Tutto il corpo umano è un ammasso di atomi di carbonio che vibrano all’unisono. La fisica e, soprattutto, la “Medicina bio-energetica” provano a spiegare come è possibile decodificare lo stato di salute di un essere vivente proprio attraverso la valutazione delle eventuali alterazioni dei campi elettrici emessi dal corpo.
E’ su tali delicate ed interessanti problematiche che presso la sala riunioni annessa alla libreria “Saltatempo” di Ragusa - nell’ambito delle iniziative volte a far conoscere al grande pubblico particolari tematiche culturali che spaziano nel campo dello scibile (narrativa, poesia, scrittura, teatro, filmografia, tradizione popolare, medicina, etc.) – si è recentemente tenuta una conferenza avente per oggetto la “Medicina quantica, un modo approfondito per osservare l’essere umano”. A condurre la complessa ed articolata relazione è stato chiamato il dott. Giuseppe Maugeri, medico chirurgo di Catania, diplomatosi in “Omeopatia Omotossicologica e discipline integrate (fitoterapia, agopuntura, riflessologia)” presso l’A.I.O.T. (“Associazione Medica Italiana di Omotossicologia”), studioso di “Medicina quantistica” e relativo sistema diagnostico “QXCI” che utilizza nella propria pratica ambulatoriale. La “Medicina quantica” o “bio-energetica” è una disciplina che “studia gli equilibri e le dinamiche delle energie trasmesse o prodotte da cellule, tessuti e organi”, esplorando “profondamente l’anatomia energetica del corpo umano” cioè quella energia vitale che è elemento essenziale di trasmissione e coesione dal quale dipende la vita. L’energia vitale nasce con l’essere vivente preservandone i delicati equilibri che costituiscono lo stato di salute. Tale pensiero si avvicina moltissimo agli insegnamenti della M.T.C. (“Medicina Tradizionale Cinese”), che si fanno risalire ad oltre 5000 anni, secondo cui il benessere è il risultato dell’equilibrio psicologico, fisiologico, spirituale e, soprattutto, energetico. Qualunque sintomo, fisico o psichico, non rappresenta un’affezione localizzata, bensì il sintomo di uno “squilibrio totalitario dell’organismo”: un’armonica circolazione dell’energia vitale che pervade il corpo corrisponde ad uno stato di perfetta salute, mentre un suo squilibrio favorisce l’insorgere della malattia. Oggi, con la moderna tecnologia basata su un sistema sofisticato di strumentazioni (sistema “QXCI”), in grado di produrre e misurare variazioni “quantiche” di energia (secondo il fisico Plank, 1830, un “quanto” di energia equivale a 10-23 Watt/cm), integrata dalla millenaria esperienza della M.T.C., si è in grado di interagire, attraverso micro radiofrequenze, con queste energie sottili modificando e correggendo i flussi energetici al fine di ripristinare l’equilibrio e la salute. Il corpo umano risponde così positivamente a questi stimoli che recenti studi, su risultati ottenuti in proposito, inducono ad affermare che l’effetto terapeutico è estremamente efficace, preciso, indolore, non invasivo e, soprattutto, privo di qualsiasi effetto secondario. Straordinari si rilevano pure i positivi risultati nelle cure organiche, sistemiche, ormonali, del dolore, nelle allergie nonché nelle intolleranze alimentari. Più specificatamente si può portare ad esempio l’effetto di una terapia “quantica” sui punti di agopuntura dei cosiddetti “meridiani cinesi” (“canali energetici” che attraversano tutto il corpo) corrispondenti a un organo. Il sistema QXCI, strumento elettro-diagnostico-terapeutico computerizzato, è in grado di individuare la frequenza del meridiano indagato, ricercarne il punto esatto, trattarlo attraverso l’individuazione dello squilibrio, fornendo o togliendo al momento l’energia necessaria. L’organo corrispondente, ripristinato così il suo equilibrio energetico, ritrova poi la forza di attivare i suoi naturali meccanismi fisiologici di difesa per vincere, a livello biochimico, la sofferenza o la malattia.
Giuseppe Nativo
APRILE 2008
Un pensiero triste che si balla: il Tango
Conferenza musicale di Gino Carbonaro al Centro Servizi Culturali di Ragusa
Che cos’è la musica? E’ l’Arte di esprimere gli intimi sentimenti attraverso suoni modulati. E’ gioia, dolore, poesia ma anche riflessione interiore dell’animo. E’ il respiro della mente che tocca le sensibili corde del cuore. Se a tutto ciò si aggiunge passione, movimento, ballo di coppia dalle sequenze ritmiche, rapide, focose e tumultuose, si ottiene una “danza dell’abbraccio” che si realizza in parte attraverso l’improvvisazione ed in parte mediante passi codificati. Tutto ciò è il Tango, il tango argentino: una cultura a sé stante che oltrepassa i confini della terra che lo ha generato. Esso affronta questioni esistenziali legate alla condizione umana essendo intriso di solitudine e malinconia nonché di nostalgia, nemica e, nel contempo, consolatrice. Ma perché tutto ciò? E cos’è il Tango?
A spiegarlo con perizia tecnica del professionista in campo musicale, utilizzando quella sincera e genuina affabulazione propria del ricercatore e scrittore, è stato il prof. Gino Carbonaro nel corso di una “conferenza musicale” recentemente tenutasi presso il Centro Servizi Culturali di Ragusa ed avente per tema “Il Tango e la sua storia”. Ad organizzare l’evento culturale è stata l’Associazione “Maria Taglioni”, in stretta sinergia con lo stesso Centro Servizi, da anni impegnata nel campo della promozione, diffusione ed insegnamento della danza sia a livello dilettantistico che professionale.
L’originalità del tema affrontato dal maestro Gino Carbonaro, simpaticamente ed affettuosamente presentato dal giornalista e poeta Emanuele Schembari (Vice Presidente del Centro Servizi Culturali), si è rivelata nel modo di intercalare alla complessa ed articolata discettazione alcuni pezzi musicali (Tango e sue varianti) suonati con la sua inseparabile fisarmonica.
Sebbene vi siano molte ipotesi susseguitesi negli anni, si sa che il Tango nasce tra Beunos Aires e Montevideo, sul Rio della Plata, intorno agli anni ’80 del XIX secolo. Appare all’improvviso come una sorta di linguaggio comune della gente di Buenos Aires costituita da un cospicuo numero di immigrati di origine italiana, spagnola, tedesca, russa, famiglie numerose che abitano fianco a fianco nei grandi conventillos (vecchie case con ampio cortile interno, caratteristico dell’architettura spagnola e sudamericana, su cui si affacciano numerose stanze) nei cui cortili le note ed i passi rappresentano il trait d’union per molte persone rispetto a quanto non possa contribuire quel castigliano sgrammaticato che ciascuno si sforza di parlare. Nell’arrabal, quartiere di periferia, si realizza l’incontro fra la gente del porto e quella delle campagne. La gente della pampa porta la payada, un’antica forma di poesia popolare caratteristica delle feste di paese: il payador improvvisa dei versi endecasillabi, seguiti da un caratteristico stacco di chitarra. Intorno agli anni ’70 dell’800 la payada si evolve e ad essa si unisce il ballo. Quest’ultimo, detto “habanera”, ovvero danza spagnola diffusasi a Cuba e portata dai marinai fino alle due sponde del Rio della Plata, si diffonde ma velocemente si trasforma, assumendo l’andamento caratteristico e insolito di una camminata in cui l’uomo avanza e la donna indietreggia. Nasce così la milonga (milonguear significa passare la notte alternando canto e ballo). Dal porto di Buenos Aires arriva anche il “candombe”, danza caratteristica dei neri (che avevano abitato un piccolo borgo nella parte vecchia prima di scomparire decimati dalla febbre gialla), in cui le coppie ballano separate ma molto vicine, abbandonandosi a sensuali movimenti pelvici. Sono gli ingredienti che si intrecciano e fondono in quello che sarà il Tango. I primi tanghi, privi di autori riconosciuti, sono mere compilazioni di melodie folcloristiche, talvolta corredate da testi di tono gioioso e licenzioso. Il Tango come danza prende vita nelle strade, nei locali di periferia e nei postriboli delle capitali rioplatensi, dove si incontra la popolazione di immigrati giunti nel nuovo continente negli ultimi decenni del XIX secolo. Il ballo si diffonde inizialmente tra gli uomini. E’ infatti considerato immorale se ballato in pubblico da coppie miste, anche per l’evidente allusione all’atto sessuale: la coppia danza infatti abbracciata, generalmente guancia a guancia, molto unita nella parte superiore del corpo, mentre la parte inferiore esegue una serie di passi e figure in cui spesso le gambe e i bacini finiscono con l’essere a stretto contatto. Per tale motivo è oggetto di interdizione ecclesiastica. Caratteristica del Tango-danza è la combinazione di passi e figure eseguite da una coppia di ballerini che danno vita a una coreografia fortemente ispirata dalla musica. Il primo Tango d’autore, “El Entrerriano” è composto da Rosendo Mendizábal nel 1896. Le prime formazioni orchestrali di Tango sono costituite da piccole orchestre di tre o quattro strumenti facilmente trasportabili; il trio flauto, arpa e violino è ben presto sostituito dal trio bandoneón, chitarra e violino. Agli inizi del XX secolo il pianoforte si sostituisce alla chitarra, inaugurando così la formazione strumentale classica dell’orchestra da Tango. Tra i maggiori autori del primo periodo del Tango, convenzionalmente denominato Guardia Vieja (“vecchia guardia”) e compreso indicativamente tra il 1900 e il 1920, si ricordano Angel Villoldo, Roberto Firpo e Francisco Canaro. Nato come musica da ballo, il Tango si arricchisce ben presto di testi destinati a diventare parte indissolubile della forma musicale che ne è all’origine. Giocosi e picareschi agli esordi, negli anni ’20 e ’30 del Novecento, i testi dei tanghi iniziano a ruotare attorno ad argomenti molto cari agli immigrati quali la famiglia, la figura mitizzata della madre, la faticosa realtà dell’emigrato, la nostalgia per la patria e l’amore lontani, il tutto senza tralasciare la vita dissoluta e lasciva dei cabaret. Il Tango è anche una danza della notte che nelle sue epoche successive – quando si diffonde anche nel vecchio continente - incorpora le tecniche e gli ideali artistici del balletto classico e moderno, le forme della musica europea, il vocabolario del “lunfardo” (linguaggio in parte inventato ed in parte legato alla lingua parlata dell’immigrante, originariamente usato come gergo dalla gente della malavita). Il Tango mantiene un vincolo obliquo con la realtà: permette di sfuggirla e, nel contempo, se ne costituisce riflesso spietato. In buona sostanza, per dirla con una celebre riflessione di Enrique Santo Discepolo (un napoletano amante dell’opera, del teatro e della musica che arriva in Argentina verso la fine del ‘900 quando ancora non ha vent’anni, divenuto poi Direttore dell’Orchestra municipale di Buenos Aires), il Tango è “un pensiero triste che si balla”.
Il giallo della benzina solida
Presentato alla libreria Saltatempo il romanzo-inchiesta di Salvatore Cosentino
Una piccola formula chimica che ha tutte le carte in regola per rappresentare un grande passo per l’umanità. Un siciliano, specializzato in ingegneria chimica, autore di una scoperta scientifica tanto portentosa da rivoluzionare l’economia petrolifera. Una vicenda dalle connotazioni a dir poco strabilianti. Una trama da dipanare come “un racconto a ruota libera, imprevedibile e discontinuo sino alla fine”. Una storia reale che “comincia dalla fine dei fatti narrati, per quella preponderanza logica che la realtà, certe volte, ha sulla fantasia”. Un giornalista, anche lui siciliano, che per oltre un trentennio, rovistando negli archivi di Stato italiani, francesi e tedeschi, segue le tracce dell’ingegnere per mettere insieme, tassello dopo tassello, fatti su cui aleggia l’ombra del silenzio. Un silenzio che ubriaca la verità ammantandola di una tenebrosa coltre di indifferenza, sotto cui sono soffocati mille e poi mille “perchè”. Oscure presenze, servizi segreti e intrighi internazionali, tentano di spegnere quella sete di conoscenza a cui, caparbiamente, si aggrappa l’instancabile giornalista come l’erba ribelle che perfora il cemento. Questi ingredienti non sono quelli affascinanti di un film del grande Hitchcock, ma elementi reali e tangibili di una vicenda che sa di inverosimile ma che lascia l’amaro in bocca e tante domande. E’ con tanti “perché” che inizia il percorso narrativo di un romanzo-inchiesta che vuole andare sino in fondo. E’ un viaggio nella vita, nella storia di un nostro conterraneo di Piazza Armerina (En), l’ing. Gaetano Fuardo (1878 – 1962), dei suoi sacrifici, dolori e, forse, gioie. E’ un’indagine che cerca di approfondire e affrontare le quotidiane questioni legate alla sua scoperta ma anche alla sua esperienza umana intrisa di solitudine, malinconia nonché di nostalgia, nemica e, nello stesso tempo, consolatrice. E’ con una raffica di “perché” che il lettore viene investito dalle prime pagine del libro di Salvatore Cosentino, giornalista e scrittore di Mirabella Imbaccari (Ct), che traccia il solco dell’intera vicenda avente per tema “Il giallo della Benzina Solida” (Bonfirraro Editore, pp. 224). Una storia vera narrata con la genuina affabulazione di noi siciliani.
E’ proprio “un siciliano che guarda un altro siciliano”, come ha puntualizzato il dott. Carmelo Arezzo (Segretario Generale della Camera di Commercio di Ragusa, giornalista e critico), a cui è stata affidata la presentazione del menzionato volume, nel corso della recente iniziativa culturale tenutasi presso la sala conferenze della libreria “Saltatempo”, promossa ed organizzata dalla stessa. “Si tratta di un libro dalla lettura appassionante, estremamente ricca di suggestioni e di suggerimenti per riflessioni successive” – ha continuato Arezzo – “che poteva scrivere solo Salvatore Cosentino, perché è uno scrittore prezioso che ha sempre fatto della sua attività di scrittura, parallela peraltro a quella professionale (svolge l’attività di “speziale” come ama definirsi), un percorso impegnativo. Cosentino ha fatto sempre lo scrittore fuori dal coro. Molte di queste sue caratteristiche non le troviamo nel risvolto di copertina ma dentro il libro quando parla di un’altra persona che è l’alter ego di Cosentino, il quale parlando di altri parla di se stesso”. Si tratta di un testo “coraggioso” non solo per le problematiche di cocente attualità ma anche per il tortuoso labirinto, quello ricostruito dall’Autore, che non intende piegarsi alle “verità ufficiali”. Verità opache che impediscono la divulgazione della strabiliante scoperta dell’ing. Fuardo, autore di quella formula “magica” atta a produrre la “benzina solida” ottenuta con un processo di gelatinizzazione e, dunque, da commercializzare in scatola come i detersivi. Si tratta di un prodotto, così è scritto sulla quarta di copertina, che “galleggia in acqua come il sughero (e quindi non inquina i mari); evita gli incendi sugli aerei e su ogni altro mezzo che utilizza i carburanti; manda in pensione le petroliere e i distributori stradali” riducendo almeno del 50% il costo dei prodotti petroliferi. E’ un’indagine che coinvolge fino al midollo osseo l’Autore che, sin dal 1973, segue le tracce dello sfortunato ingegnere. Rimasto orfano da ragazzino e dopo aver superato brillantemente gli studi intrapresi al Politecnico di Torino, Fuardo si laurea in ingegneria chimica. Trasferitosi a Milano, mette a punto la sua invenzione che lo porta a lavorare per il governo francese contro cui, successivamente, incardinerà una controversia legale, che vincerà solo dopo la sua morte. Dopo aver collaborato per l’Inghilterra di Churchill e la Germania di Hitler, dove il Fuhrer gli mette a disposizione una fabbrica per la produzione di benzina solida molto importante per gli usi bellici, poi distrutta dai servizi segreti britannici, rientra in Italia per morire in miseria. Ma non è tutto. Il propellente in forma solida è stato utilizzato dalla Francia nella guerra d’Indocina, dove è trasportato per via aerea (dal dicembre 1953 al marzo 1954) allo scopo di rifornire dal cielo il presidio francese. Persino lo stesso Eisenhower si occupa della “benzina solida” ma è costretto a chiudere gli impianti, subito dopo averli aperti, a seguito di forti pressioni occulte. In buona sostanza, il Fuardo è stato schiacciato dalla sua stessa scoperta dimenticata o fatta dimenticare ma per la quale Cosentino, documenti alla mano e pubblicati in appendice, vuole fare giustizia narrativa attraverso la pubblicazione di una vicenda che passerà alla storia per aver sollevato tanti “perché” pesanti come macigni o, perchè no, come petroliere.
“… i festivi trionfi e le comuni allegrezze…”
Inaugurata all’Archivio di Stato di Ragusa mostra documentaria
Anche quest’anno il Ministero per i Beni e le Attività Culturali (MIBAC) ha organizzato la “Settimana della Cultura” che, giunta ormai alla decima edizione, si è svolta su scala nazionale dal 25 al 31 marzo scorso. Per sette giorni, la cultura italiana è stata “in vetrina”, con oltre 1.800 tra eventi, mostre, convegni, visite guidate ed aperture straordinarie, facendo partecipi Istituzioni pubbliche e private, Enti locali ed Associazioni. Nel corso di questa settimana i cittadini hanno avuto la possibilità di riappropriarsi dell’arte, della cultura, del patrimonio, seguendo le tracce della storia del Paese. E’ nell’ambito di tali iniziative che la Direzione Generale per gli Archivi si è fatta promotrice di analoga iniziativa con il coinvolgimento dell’amministrazione archivistica, attraverso le varie strutture dislocate su tutto il territorio italiano, proponendo manifestazioni aventi come slogan “Una festa per tutti… attraverso le fonti documentarie”. Dalla storia risorgimentale al periodo delle due guerre, dalla vita di corte a quella familiare, dalle tradizioni popolari alla letteratura, il documento diventa quasi “portavoce”, filo conduttore per eccellenza di un racconto che ripercorre ogni ambito della vita di ogni città. Il documento, insomma, diventa protagonista di un percorso culturale che trae linfa vitale dall’immenso patrimonio documentario conservato presso gli Archivi di Stato, sedi meno note al grande pubblico. Si rendono, pertanto, disponibili luoghi destinati solitamente allo studio ed alla documentazione che, per l’occasione, si trasformano in spazi che accolgono manifestazioni ed eventi culturali fruibili da tutti nel tempo libero.
Tra i tanti temi affrontati con le annesse iniziative (se ne contano oltre 150) che hanno interessato gli istituti periferici, quello scelto dall’Archivio di Stato di Ragusa, dal titolo “… i festivi trionfi e le comuni allegrezze…”, riguarda la documentazione che ruota attorno alle feste, folklore, costume e tradizioni popolari. La mostra, allestita nei locali dell’ente archivistico ibleo, risulta suddivisa in due sezioni: “Feste religiose” e “Feste laiche”. “L’obiettivo è, innanzi tutto, quello di rendere più forte e radicata una coscienza che metta al centro la cultura come volano d’identità collettiva, risorsa da sviluppare e da utilizzare come strumento per la formazione delle nuove generazioni”, ha così puntualizzato la dottoressa Anna Maria Iozzia (direttore dell’Archivio di Stato di Ragusa), nel corso della serata inaugurale, alla presenza del Vescovo di Ragusa (S. E. mons. Paolo Urso), del Presidente dell’Amministrazione Provinciale (ing. Franco Antoci), Viceprefetto (dr. Claudio Sammartino), Assessore alla Cultura del Comune di Ragusa (geom. Francesco Barone). La mostra resterà aperta dal 27 marzo al 30 aprile (lun.-sabato ore 9,00-12,00; mart.-ven. anche nelle ore pomeridiane 15.00-17,30). “L’esposizione documentaria” – spiega la dr.ssa Iozzia – “si propone di cogliere le variegate sfaccettature delle festività, sia di quelle a cadenza annuale sia di quelle legate ad eventi momentanei e contingenti. Le feste, intese come momento di rinnovamento spirituale o di gioiosa aggregazione sociale, caratterizzate da suggestive scenografie con scintillio di luci e colori, sono testimoniate dalla cospicua mole di carte d’archivio dalle quali possono essere attinte non poche notizie sugli usi e costumi di ciascuna epoca”. I documenti esposti, tratti da diversi fondi archivistici, coprono un arco temporale che va dal XV secolo agli anni ’70 del Novecento e spaziano, oltre che in ambito provinciale, a livello regionale, nazionale ed europeo.
Il percorso espositivo inizia con la sezione riguardante le “Feste religiose”, ricchissime di carteggi di cui i più antichi risalgono alla seconda metà del ‘400. Atti notarili, lettere, registri, manoscritti che registrano la descrizione di antiche usanze in occasione di ricorrenze liturgiche portano il visitatore indietro nel tempo, verso un passato ormai dimenticato ed occultato dalle pieghe del tempo. Tra i più antichi: anno domini 1692, 16 di agosto, per la festa dell’Assunzione in S. Maria delle Scale di Ragusa, il maestro Paolo Falcuni di Comiso si obbliga a suonare, per tre anni, “trometti e bifari” dietro un compenso annuale di onza 1 e tarì 9 (Arch. di Stato-Sezione di Modica, notaio Carlo Falce, Ragusa, n. 370/43, c. 59 r-v); nell’ottobre del 1731, in occasione della festa dell’Immacolata nell’antico Convento di S. Francesco di Ragusa, con atto in notaio Odierna, il sac. Carmelo Castelletti, procuratore del menzionato convento, si assicura la prestazione del maestro Nunzio Campo che, ricevuta la somma di tarì 22 e grana 10, si impegna a portare “le carte per l’apparato della chiesa di detto Ven. convento per la festa della Concezione” (Arch. di Stato-Sezione di Modica, notaio Arcangelo Odierna, Ragusa, n. 385/30, cc. 54v-55r).
La sezione relativa alle “Feste laiche” comprende tutte quelle manifestazioni promosse ed organizzate in occasioni di ricorrenze civili, tra le quali: l’Ordine n. 5 del tenente colonnello comandante del presidio di Ragusa, Bramante Francesco, per la visita in Via Roma delle truppe dei giovani fascisti e delle organizzazioni del Regime in occasione della festa dello Statuto da tenersi il 7 giugno 1936 (Arch. di Stato di Ragusa, Prefettura di Ragusa, Gabinetto, b. 2526); il telegramma, datato 31 dicembre 1947, del prefetto di Ragusa, Ugo Mondio, con cui si riferisce alla Presidenza del Consiglio dei ministri lo svolgimento della cerimonia celebrativa della Costituzione, svoltasi in quella mattinata, alla quale hanno preso parte le autorità civili, politiche e militari della provincia nonché tutti i sindaci a ciascuno dei quali è stato consegnato il numero speciale della Gazzetta Ufficiale contenente il testo della Costituzione (Arch. di Stato di Ragusa, Prefettura, Gabinetto, b. 2048).
Elemento comune di tutte le ricorrenze, tanto laiche quanto religiose, è il fervore che traspare dalla descrizione puntuale ed articolata di tutti gli adempimenti connessi per la buona riuscita di ogni iniziativa. Ricorrenze che rappresentano le tappe storiche di una comunità civile inserita nel contesto sociale di un territorio.
Giuseppe Nativo
MAGGIO 2008
La Sicilia e la Comiso di Gesualdo Bufalino
Seguitissima relazione del prof. Cirnigliaro al Centro Servizi Culturali di Ragusa
“…Vero è che le Sicilie sono tante, non finiremo mai di contarle. Vi è la Sicilia verde del carrubo, quella bianca delle saline… quella bionda del miele, quella purpurea della lava…”. Queste le parole di Gesualdo Bufalino per descrivere la sua Sicilia, la Sicilia di ciascun siciliano, il cui profumo di zagara o di zolfo varca i confini della Terra fino a toccare il cuore di tutti e, soprattutto, di chi ha lasciato la sua Isola per lavoro. Una Sicilia soleggiata che è compagna di vita, tristezza, dolore ma anche gioia. Gioia di vivere in una terra tanto martoriata dagli eventi storici quanto apprezzata da poeti e scrittori. “Vivere” – diceva Bufalino – “equivale ad agire in modo che ogni azione possa trasformarsi in ricordo” e, nei suoi ricordi, la sua città natale, Comiso, ha sempre un posto di riguardo. Un figura, dunque, degna di attenzione – rivelatasi uno dei più singolari talenti letterari del ‘900 italiano - su cui si è soffermato il prof. Nino Cirnigliaro, dopo l’introduzione affidata al prof. Firrito, in una sua articolata e chiara discettazione recentemente tenutasi presso i locali del Centro Servizi Culturali di Ragusa, in sinergia con il C.I.F. (Centro Italiano Femminile), As.Pe.I. (Associazione Pedagogica Italiana), Associazione Culturale Docenti “G.B.Hodierna”, A.I.M. (Associazione Italiani Maestri Cattolici) ed il Comune di Ragusa.
“Affabulatore incontenibile… Erudito e sbrigativo. Razionale ed esoterico”, così è descritto Bufalino in un articolo apparso su “Repubblica” il 10 giugno 2006 in occasione del decennale della sua scomparsa a seguito di un incidente stradale in terra casmenea. Nella sua assolata Comiso - dove era nato nel 1920 - da lui soprannominata “Cruise Town” (dal nome dei missili custoditi, nei primi anni ’80, negli hangar blindati della base militare statunitense alla periferia del paese) - riesce a sottrarsi alla contaminazione della modernità e ad eludere l’effimero delle mode. Non a caso conia il termine “isolitudine”, ovvero la solitudine doppia nell’Isola. Egli è un siciliano schivo, spensieratamente errante nella giungla della letteratura dove la sua fame di sapere ha trovato ristoro attraverso i frutti di quegli alberi vigorosi cresciuti all’ombra dei Verga, dei Pirandello. Poi di Proust, Mann, Joyce; e prima di loro dei classici greci e latini. Lo scrittore comisano può considerarsi il risultato migliore di quella cultura di provincia alimentata da un cospicuo numero di professori, “intellettuali della Magna Grecia”, destinata a non mettere mai fuori la testa dal circuito paesano. Uscendo dall’anonimato, Bufalino raggiunge la meritata popolarità all’età di 61 anni. Quasi per caso e per quell’ineffabile destino che traccia linee discontinue della vita. Egli, per la sua forte passione verso la letteratura, che asseconda sin dalla giovane età, si può definire come lo scultore di parole. E’ questa una definizione che si addice all’autore di “Diceria dell’Untore”, con cui si aggiudica, nel 1981, il “Premio Campiello” e non pochi consensi da parte della critica. Nel romanzo prendono vita, trasfigurate letterariamente, le esperienze e le emozioni provate dallo scrittore nel corso di un suo ricovero in un sanatorio della Conca d’Oro nell’immediato dopoguerra. Un inno alla gioia scandito dal ritmo fuggente della morte. E la morte, peraltro presente in maniera insistente nelle sue opere e nei suoi pensieri, è la compagna di viaggio di Bufalino. “I mie libri”- riferisce lo scrittore in un’intervista – “non sono altro che giochi paraletterali ai quali mi abbandono perché servono a distrarmi dal pensiero della fine…”. Nella coscienza siciliana è forte il senso della morte e della vita. La giovinezza attraversa il solco di una luce abbagliante che poi col tempo sbiadisce. La componente Magna Grecia è, in fondo, una delle più vivaci della subcultura isolana. E greco è anche il senso della morte che appare come un “miracolo alla rovescia, una infrazione alla norma della vita. Più la luce è intensa, più è un peccato la morte”. Anche la memoria, che diventa “luogo della consolazione”, è una sorta di stanza “magica” dove ciascuno “trucca la realtà a uso e consumo delle sue aspirazioni”. “Io mi vado sempre più convincendo” – puntualizza Bufalino – “che la memoria è soprattutto una capacità di travisamento, d’illusione. Noi non ricordiamo quello che abbiamo vissuto, ma lo inventiamo”. Non a caso il sottotitolo di “Argo il cieco” (1984) è i “Sogni della memoria”.
Pure la “insularità” è vissuta dallo scrittore con quella consapevolezza di amare la sua terra e, soprattutto, la sua Comiso: “Probabilmente è vero, ma a me piace credere che solo a Comiso ogni cosa si componga e respiri, per naturale destino, in un’aria di perpetua e volubile e lieta invenzione e improvvisazione scenica”. Tutto ciò dà l’idea della peculiarità della città casmenea che si adagia dolcemente sulla Piana dell’Ippari, con il suo saliscendi di vie che si intrecciano tra la pianura e i monti mentre i campanili delle chiese si ergono fieri su piazze, fonti, mosaici e palazzi.
La scrittura di Bufalino è densa di trasposizioni metaforiche, caratterizzata da una sapiente scelta dell’aggettivazione, come afferma lui stesso: “…E dopotutto il registro alto, lo scialo degli aggettivi, l’oltranza dei colori, mi pareva, e pare, il modo che ci resta per contrastare l’ossificazione del mondo in oggetti senza qualità e per restituire ai nostri occhi ormai miopi il sangue forte delle presenze e dei sentimenti”.
Filippo Pennavaria benefattore di Ragusa: luci e ombre
Pubblicato un interessante saggio del professore Luciano Nicastro
“…fare i conti con la propria storia ed in particolare con quella degli ultimi cento anni della città non è solo un dovere della ragione ‘storica’ ma anche una necessità politico-culturale…”. Sono queste le riflessioni che emergono dirompenti dalle pagine del recente saggio dato alle stampe dal professore Luciano Nicastro – autore di numerosissime pubblicazioni tra libri, studi e ricerche in filosofia e sociologia politica - sulla delicata tematica “Filippo Pennavaria e Ragusa - prima e durante il fascismo” (La Biblioteca di Babele Edizioni, Modica 2008, pp. 64). E’ un fatto ormai risaputo che la storia della città di Ragusa sia legata alla figura del senatore Filippo Pennavaria (1891 - 1980), figlio degli iblei. Sottosegretario di Stato nel Governo Mussolini, interviene affinché Ragusa sia elevata a capoluogo di Provincia e ciò con una ricaduta economica rilevante che cambia il volto urbanistico della città a partire dal 1927, momento in cui inizia la sua rinascita istituzionale, politica e sociale che diventa motivo di orgoglio per tutta la cittadinanza. Per tale motivo Pennavaria è “sentito dai ragusani e dai massari come l’espressione più alta della città sino al punto che le tante opere di modernizzazione” attuate assumono la sua paternità e non quella del regime fascista di cui fu “espressione organica e convinta”. Ma fu vera gloria? A porre in risalto luci e ombre, con riflessioni rivenienti dalla lettura di documenti archivistici, è il professore Luciano Nicastro, docente di Sociologia delle Migrazioni e di Sociologia dell’educazione alla LUMSA di Caltanissetta, che vuole “aprire le finestre sulle lezioni della storia” introducendo il lettore – con uno stile scorrevole e “in una forma godibilissima” come puntualizza Carmelo Modica nella prefazione – in quei “quaderni della memoria” dove sono inseriti gli uomini illustri “visti in un contesto significativo e coerente”. Obiettivo principe è quello di innescare, nell’intreccio ricerca/documentazione/didattica, domande sui complessi meccanismi di lettura del presente, “per tracciare le coordinate della Ragusa futura”, attraverso escursioni nel passato sorrette da documentazione accessibile e, soprattutto, da un’ottima esposizione delle vicende storiche epurate da “pregiudizi, stereotipi e vecchi campanilismi su cui si attarda ancora una certa cultura locale”. E’ dal contesto storico e sociale che inizia il “viaggio” di Nicastro il quale, traendo spunto dal “problema più generale del rapporto tra Chiesa e fascismo in tutte le sue espressioni e connotazioni”, esamina la figura del concittadino Filippo Pennavaria in relazione al ruolo “controverso” dallo stesso svolto sul piano politico e religioso inserito nel più ampio progetto che vede la “tumultuosa rinascita di Ragusa elevata a capoluogo di una nuova provincia a danno di centri di più antica tradizione culturale, religiosa e politica come Modica”. Lo fa introducendo il quadro storico d’insieme prima dell’avvento del fascismo che vede la Sicilia inserita in un profondo cambiamento sul piano organizzativo sia pastorale che sociale. Anche a Ragusa si sente tale ventata promossa da tanti giovani cattolici ma anche da non pochi sacerdoti. Il rapporto tra la Chiesa ragusana e fascismo locale, sia nella fase nascente che in quella del regime dittatoriale vero e proprio, sembra essere attraversato da fasi alterne. Nel primo periodo (1922-’26) frange laiche ed ecclesiastiche “si servono dell’on. Pennavaria, capo del fascismo ibleo, per ottenere non la provincia ma la creazione della diocesi di Ragusa”. Già nel 1913, l’affermazione del Pennavaria è salutata “come una condizione particolarmente favorevole”. L’elevazione, nel 1927, della città di Ragusa a capoluogo di provincia e sede di sottoprefettura, ad opera di Pennavaria, ripropone l’antica aspirazione dei sacerdoti e cattolici ragusani di diventare Diocesi autonoma da Siracusa (la questione è ripresa dal giornale “Sentinella fascista” in un articolo pubblicato il 21/02/1926), a cui è ab antiquo incardinata. Nicastro va oltre i fatti di cronaca indagando a fondo su documenti archivistici che, sebbene testimonino “una continuità di impegno di Filippo Pennavaria” nella sua “azione politica e diplomatica”, prestano il fianco a numerosi interrogativi circa la mancata elevazione di Ragusa a sede di Diocesi (attuatasi negli anni ’50) insinuando il dubbio se ciò sia dovuto ad “una difficoltà oggettiva o una scelta politica” o a “difficoltà” frapposte dalla città aretusea. Dal 1926 il rapporto Chiesa-Fascismo inizia a deteriorarsi diventando conflittuale “sino ad esplodere anche a Ragusa in una vera e propria incompatibilità”. Il fenomeno delle “violenze squadristiche”, verificatesi negli anni precedenti, si acuiscono dando origine a molteplici episodi di tracotanza e di provocazione anche nei confronti del mondo cattolico locale il cui seme di promozione sociale e religiosa si realizza nelle figure delle beate Maria Schininà e Maria Candida dell’Eucaristia. E’ anche il periodo della “offensiva antisocialista” che, secondo le direttive del Regime, deve “completare l’opera di ripulitura della feccia rossa” in terra iblea. Corre l’obbligo tenere presente che le divergenze fra le opposte fazioni politiche fomenta la violenza come metodo di lotta o come stato di necessità per la “difesa morale e politica” di ciascuna corrente. E’ proprio in tale contesto che sorge la necessità di riconsiderare la figura di Pennavaria su cui l’Autore cerca di “aprire lo scrigno della nostra memoria” per andare “oltre il rivestimento e cogliere il nucleo della verità”. Una verità, forse, scomoda, quella enucleata da Nicastro, che vede Pennavaria come uomo politico “intelligente ed abile” a cui però “non si può attribuire il merito della creazione di una provincia” in quanto già fortemente voluta dal regime fascista “in funzione antisocialista e per controllare meglio le frange sediziose del popolo del sud est della Sicilia”. Tale riflessione stride fortemente con quella corrente che vede il Pennavaria come “grande benefattore” della sua Ragusa.
“I Fuoriscena” di Claudia Gafà al Teatro Donnafugata di Ragusa-Ibla
Un lungo, scrosciante e caloroso applauso ha suggellato la conclusione della recente serata teatrale dedicata alla mise en space della professoressa Claudia Gafà dal titolo “I Fuoriscena (il barbone che abita in noi)”. Si tratta di un evento, inserito nell’ambito della stagione teatrale 2007/2008, svoltosi nella splendida cornice del Teatro Donnafugata, piccolo gioiello di architettura settecentesca nel cuore del centro storico dell’antica Ragusa. L’iniziativa, proposta ed organizzata dal “Gruppo Teatro Danza Ludens” di Ragusa, è stata seguita da un numeroso ed attento pubblico che ha apprezzato l’ideazione coreografica predisposta con perizia dalla Gafà, responsabile del coordinamento e direzione artistica della rappresentazione scenica che ha visto una magistrale interpretazione gestuale e musicale dei giovani interpreti.
Il “Teatro Danza” nasce nel capoluogo ibleo nel 1987 sotto l’egida della Gafà, docente con maturata esperienza nell’insegnamento di “educazione fisica” nelle scuole medie di secondo grado, la quale introduce un apposito laboratorio teatrale seguito da tanti giovani talenti che, assecondando la loro passione per il teatro, seguono anche lezioni di danza. Il teatro-danza non è solo parola e immagine ma anche emozione che deve confluire in un’equilibrata padronanza del gesto e del movimento come espressioni di sensazioni e di impulsi emotivi. Il teatro è anche una dimensione in cui gli umori dell’anima sono immersi in un rapporto armonico che si colloca tra verità e menzogna, tra realtà e fantasia.
Tema principe della serata è stata la problematica che ruota attorno a quelle persone emarginate da una società ricca di valori vuoti nella loro intima essenza, ovvero quella fascia sociale guardata da tutti con preoccupazione: i barboni, che soffrono quotidianamente una condizione di disagio, i “Fuoriscena” come li ha voluti chiamare Claudia. I “Fuoriscena” sono persone senza dimora e che, giornalmente, provano sulla loro pelle la carezza del freddo pungente, il selciato sotto la schiena, l’umidità, l’incertezza che piova da un momento all’altro, la paura di svegliarsi derubati. “Sono persone rifiutate dagli altri o che rifiutano gli altri” – puntualizza la professoressa Gafà, raggiunta nei camerini dopo lo spettacolo – “persone che non sanno stare sulla scena della vita. Non sono né belli, né ricchi, né bravi. Si agitano con rabbia, dolore, stupore. Combinano guai, fanno del male, si fanno del male. Per la nostra società sono un problema: depressione, ansia, follia, impotenza, violenza”. E sono proprio queste le caratteristiche che la Gafà ha voluto mettere in evidenza sul palcoscenico. Nasce così una interpretazione gestuale del vissuto affidata ai danzatori del “Gruppo Teatro Danza Ludens” che si sono calati nei panni dei “senza tetto” costretti a spendere la vita nel disagio e cercando lo stratagemma per arrivare a fine giornata. I barboni sono anche appellati “invisibili”, pur trovandosi quasi ad ogni angolo della strada. Eppure, a guardarli da vicino, non sono dissimili dai passanti anche loro immersi nella loro quotidiana e frenetica follia urbana. Nella rappresentazione scenica il dramma dei “Fuoriscena” è rappresentato attraverso la danza che diventa ricordo, pensiero lontano che abita il corpo e che non affiora più con le parole. Tra reale ed irreale si dipana la coreografia scandita dal ritmo incalzante dei brani che fanno da commento musicale alla vicenda scenica. Piccoli gesti-suono si inseguono, si muovono, danzano, vivono. Gesti che fanno affiorare ricordi o che catapultano in una non realtà. Sta proprio in tutto ciò la sensibilità artistica della Gafà che è riuscita a far vibrare l’animo artistico dei suoi bravi danzatori attraverso le trasformazioni di un corpo in equilibrio tra l’essere soggetto ed oggetto della danza.
Fabio Romano, un artista che vive per la pittura e nella pittura
Interessante mostra personale alla “Galleria degli Archi” a Comiso
Ci si trova spesso di fronte a metafore che divengono una forma di fuga dalla vita quotidiana, ma nel contempo riportano al pensiero. Un quadro deve far pensare, deve indurre a riflettere e non semplicemente accogliere con la sua veridicità. Cosa si cerca nelle mostre d’arte? Sicuramente un riposo o uno svago della mente, ma soprattutto si cerca un rapporto con l’artista che, attraverso le sue opere, deve saper parlare, dire, esprimere qualcosa che non si trova nell’intimo di ciascuno con facilità. Un quadro deve rappresentare l’equilibrio tra la forza espressiva e l’intensità concettuale di un artista. Queste caratteristiche emergono dirompenti attraverso le opere pittoriche del giovanissimo Fabio Romano che recentemente ha tenuto una mostra personale, presso i locali della “Galleria degli Archi” a Comiso, avente per tema “Il movimento della vita”. Nato nel 1988 nella città casmenea, Fabio asseconda la sua passione per la pittura frequentando il locale Istituto d’Arte che lo proietta a Roma, dove attualmente frequenta l’Accademia di Belle Arti. All’età di sedici anni mostra il suo prezioso talento in una collettiva, organizzata dalla “Galleria degli Archi”, in onore dei Fratelli Taviani. Le sue potenzialità espressive sono notate da Angelo Buscema e Salvo Barone che lo indirizzano e guidano “verso la perfetta fusione tra l’impostazione classica del quadro, la tradizione magistrale del disegno figurativo e l’iconografia pittorica contemporanea”. Giovanissimo con “Scribarte” di Gino Baglieri è presente all’Arte Fiera di Forlì. Dal 2004 al 2007 partecipa a diverse mostre collettive tenutesi presso il Castello di Donnafugata e la “Galleria degli Archi”, tra cui l’ultima nel 2007 “Cento artisti intorno al giardino”. La sua prima personale, da poco conclusasi, lo vede ancora una volta protagonista nella galleria d’arte diretta da Salvatore Schembari.
“Fabio Romano è uno dei coraggiosi che hanno deciso di vivere per la pittura e nella pittura”, così lo descrive il professore Andrea Guastella (critico d’arte) nella prefazione al catalogo “Il movimento della vita”. Una raffigurazione sintetica ma nel contempo fortemente intrisa del significato espressivo dell’opera di Fabio che “sta emergendo con forza, guardando alternativamente ai classici della pittura moderna e ai contemporanei come Giovanni La Cognata, Salvo Barone e Jenny Saville”. Il percorso espositivo è stato contraddistinto dalla presenza di grandi tele dedicate ai paesaggi urbani di Comiso, ma anche di altri dipinti che ritraggono volti e nudi di giovani coetanei dell’artista. Il carattere stilistico, ma anche espressivo, di Fabio induce il visitatore a soffermarsi sui suoi dipinti. Egli, “interessato com’è alla materialità della pittura”, predilige “una superficie cromatica densa e strutturata” dentro la quale i personaggi si trovano quasi avviluppati. Il repertorio iconico di cui si serve l’artista casmeneo - dal paesaggio urbano della sua città natale all’intimo spazio di una stanza, al ritratto di giovani coetanei - tratteggia un processo naturale per chi dà all’arte il significato di rappresentare la realtà che osserva. Sul versante visivo Romano va oltre inserendo un quid che colpisce l’immaginazione, che prende emotivamente. “Profili cupi”, “mani grigie e ossute” prendono quasi corpo dalla “monotonia impassibile dei fondi”, quest’ultimi “aspetti della medesima, rugosa realtà”. Una realtà che, a volte, avanza coprendo una sagoma (“Io, l’altra”, 2007, olio su tela), che si compenetra nel personaggio fino a mostrarlo gravido di inquietudine (“Mal di luna”, 2004, olio su tela) o che cerca di distaccarsi dalla stessa figura verso una realtà altra (“Io, l’altra”, 2008, olio su tela). Una realtà “dipinta senza compiacimento, a tratti con violenza” che si nota, quasi con irruenza, nel dipinto raffigurante un individuo “privo di protezione, in attimi in cui chiunque preferirebbe stare solo con se stesso” (“l’uomo in toilette”, 2007, olio su tela). Anche il paesaggio urbano assume una caratteristica ben definita: è visto dall’alto, un po’ a mezza altezza, quasi ad ostentare un desiderio di staccarsi dalla quotidianità in cui si vive immersi senza però allontanarsi troppo. Lo sforzo di Romano è quello di fissare nei suoi quadri “il movimento della vita” in maniera tale “che gli oggetti si animino quando uno sconosciuto, magari fra cent’anni, poserà lo sguardo su di loro”.
1948-2008 Buon compleanno alla Costituzione italiana
Festeggiamenti alla Prefettura con mostra documentaria
dell’Archivio di Stato di Ragusa
“Assemblea Costituente ha ieri approvato Costituzione Repubblica Italiana fausto avvenimento che ha dato popolo italiano suo ordinamento democratico dovrà degnamente essere celebrato si est disposto che speciale numero gazzetta ufficiale che pubblica provvedimento verrà direttamente trasmessa SS. LL. che ne cureranno consegna sindaci et altri autorità provincia in apposita riunione da tenersi giorno 31 dicembre… f.to Presidente Consiglio De Gasperi” (telegramma, datato 23/12/1947, con cui si comunica ai prefetti che l’Assemblea Costituente ha approvato il giorno precedente la Costituzione della Repubblica, dando incarico agli stessi di consegnare alle autorità della provincia il numero speciale della G. U. contenente il testo della Costituzione; fonte: Archivio di Stato di Ragusa, Prefettura, Gabinetto, b. 2048).
“Richiamasi particolare attenzione SS. LL. sulla norma… stabilente che testo Costituzione stessa dovrà essere esposto nella sala comunale per tutto anno 1948 in modo che ogni cittadino possa prenderne cognizione. F.to Prefetto Mondio” (telegramma, datato 29/12/1947, del Prefetto di Ragusa, Ugo Mondio, indirizzato ai sindaci della provincia di Ragusa; fonte: Archivio di Stato di Ragusa, Prefettura, Gabinetto, b. 2048).
“La Costituzione che entra in vigore domani 1° gennaio 1948 viene consegnata oggi nel suo testo ufficiale… Promulgata dal primo Presidente della Repubblica inizia – per una fatale e significativa coincidenza - a cento anni di distanza dalla rivoluzione nazionale del 1848 – uno degli atti più solenni della vita del Popolo Italiano!” (discorso pronunciato il 31/12/1947 dal Prefetto di Ragusa, Ugo Mondio, durante la cerimonia di consegna della Costituzione ai sindaci della Provincia; notizia ripresa e pubblicata su “La Sicilia del Popolo” in un articolo del 06/01/1948; fonte: Archivio di Stato di Ragusa, Prefettura, Gabinetto, b. 2048).
Questi rappresentano alcuni dei più significativi documenti che segnano le prime tappe del lungo percorso intrapreso dalla Costituzione. “Legge fondamentale della Repubblica italiana”, la Costituzione – approvata il 22 dicembre 1947 dall’Assemblea Costituente, eletta in occasione del referendum sulla forma istituzionale dello Stato fra repubblica e monarchia del 2 giugno 1946 – entra in vigore l’1 gennaio 1948. Proprio quest’anno la Costituzione compie il suo 60° anno di età. Pur mantenendosi “giovane”, si tratta di un testo che si presenta ancora oggi “chiaro e moderno” e “che va direttamente al cuore dei problemi” (come già dichiarato da Romano Prodi il 25/10/2007 alla presentazione delle iniziative del governo previste per il corrente anno).
Si tratta di un anniversario che – come ha affermato il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel suo messaggio di fine anno – deve essere un’occasione “per rivederne alcune regole relative all’ordinamento della Repubblica” ed ulteriore stimolo per ancorarsi “ai suoi principi” ed “ai suoi valori morali”.
Da qui l’avvio di una serie di manifestazioni volte a celebrare il 60° anniversario della Costituzione che ha visto anche la città di Ragusa impegnata sul fronte celebrativo. La Prefettura di Ragusa ha dato l’avvio ad un variegato programma di iniziative, volte a conferire un’ampia e doverosa rilevanza all’importante commemorazione. Il 13 maggio scorso, nei Saloni di rappresentanza del Palazzo del Governo, il prof. Luigi Arcidiacono – docente di Diritto Costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Catania – ha tenuto un intervento, diretto a tutte le autorità civili e militari presenti alla cerimonia, avente per tema “A sessant’anni dalla Costituzione Repubblicana: profili di attualità e aspettative di riforme”. A conclusione dell’articolata ed ampia prolusione si è proceduto, in presenza del Prefetto e del Presidente della Provincia di Ragusa, alla consegna simbolica della Costituzione a tutti i sindaci dei comuni iblei nonché alla inaugurazione della mostra documentaria che – allestita negli stessi Saloni di rappresentanza, a cura dell’Archivio di Stato di Ragusa – attraverso documenti storici, fotografie e articoli di stampa del tempo, ha consentito di ripercorrere i primi momenti dell’entrata in vigore della Costituzione. Tale periodo è stato oggetto di rivisitazione attraverso il convegno-dibattito sul tema “La Costituzione della Repubblica Italiana: sessant’anni ma non li dimostra” tenutosi, a cura della prof.ssa Ciancio, docente ordinario di Diritto Costituzionale della Facoltà di Giurisprudenza di Ragusa, il 28 maggio presso l’Auditorium della Camera di Commercio.
Alle iniziative abbinate al tema della commemorazione si aggiunge il concorso di idee “I giovani e la Costituzione” riservato agli studenti, di ogni ordine e grado, che con la realizzazione di lavori di vario genere, hnno la possibilità di concorrere alla vincita di Borse di studio offerte da sponsors locali e la cui consegna è prevista in Prefettura nel corso delle manifestazioni celebrative per la Festa della Repubblica.
Quando la poesia fa vibrare il cuore
Al Centro Servizi Culturali la XXII edizione
del Premio di Poesia Giovanile “Mario Gori”
Che cos’è la poesia? E’ un narrare ritmato del cuore in cui prevalgono cadenze, ripetizioni, immagini che vanno ad “alterare” i significati immediati delle parole conferendo, però, significati interiori. E’ introspezione dell’anima che diventa immagine, colore, emozione. La poesia è anche una forma creativa di comunicazione e, in quanto tale, investe tutte le generazioni. La poesia, infatti, non ha età e, dunque, è sempre giovane. E’ sulla base di tali istanze che il Centro Servizi Culturali di Ragusa promuove da anni un concorso di poesia volto a scoprire nuovi giovani poeti. Anche per quest’anno si è appena concluso il Premio di Poesia Giovanile “Mario Gori”, giunto ormai alla XXIIa edizione, organizzato dallo stesso Centro Servizi in collaborazione con il Comune di Ragusa, Gruppo “Mario Gori” e Banca Agricola Popolare. Divenuto negli anni un appuntamento ormai fisso nell’ambito della critica, il concorso vede la partecipazione di numerosi giovani. Articolato in due Sezioni (sezione “A”, riservata ai concorrenti dai 19 ai 30 anni; sezione “B” ai giovani da 13 a 18 anni) il concorso incoraggia le giovani leve ad assecondare la loro passione per il versante poetico. Nella sala convegni del Centro Servizi, alla presenza di un folto ed attento pubblico, si è, pertanto, dato il via alla premiazione degli elaborati esaminati e scelti da una qualificata giuria formata da Giovanni Occhipinti (Presidente), Gaetano Accardi, Nino Cirnigliaro, Salvatore Fava, Emanuele Schembari (Segretario), Edda Varani Ancione.
Per la Sezione “A” il primo premio è andato al ragusano Fabrizio Sozzi, 30 anni, con la poesia “Togli le scarpe”, con la seguente motivazione: “Per la limpida maturità del verso, sempre misurato seppur pronto allo slancio evocativo. Per l’equilibrata alternanza tra modernità e richiami ad una lingua poetica che oscilla tra innovazione e tradizione. Notevole la cura fonetica… Moderato e funzionale l’impiego dell’apparato retorico”. Il secondo posto è andato a Cristian Firrincieli, 26 anni, di Ragusa, con la lirica “Orizzonti”. Questa la motivazione: “Sulla scia della lezione ermetica la poesia si spoglia dell’andamento narrativo, rinuncia al valore descrittivo del verbo e assume il carattere intenso della parola che si fa immagine…”. Al terzo posto si è classificato il chiaramontano Giovanni Garretto, 26 anni, con la poesia dal titolo “Radici aeree”, con la motivazione “Per la qualità e l’originalità delle immagini… in cui uomo e natura si trasfigurano nel reciproco abbraccio”. Segnalati a pari merito: S. Alfano (29 anni, di Modica, con “L’isola”), G.B. Bufalino (23 anni, di Ragusa, “Teatri dell’io), E. Cappello (28 anni, di Ragusa, con “Sud”), R. Cotroneo (28 anni, di Ragusa, “L’eterna notte”), A. Di pasquale (22 anni, di Chiaramonte Gulfi, “Mi preparo ed esco”).
La vincitrice del primo Premio della Sezione “B” è la comisana Vanessa Modica, 15 anni, con la poesia “Prendi un sorriso” che ha suscitato gli applausi con la seguente motivazione: “Nella immediatezza lessicale e metrica si intravede una universale sensibilità nei confronti di chi soffre, esplicitando in maniera diretta e spontanea il ruolo del poeta che sa sentire e sa dare voce all’anima dolente del mondo”. I finalisti, tutti segnalati a pari merito, sono: G. Bellomia (14 anni, di Ragusa, “Il canto di mio nonno”), B. Bellio (15 anni, con “Frammenti di cuore”), F. Cultraro (16 anni, di Acate, “Io sono il tutto e il niente”), S. Pepi (17 anni, di Vittoria, “Nero su bianco”), A. Rizza con “Io alla mia età”.
L’Archeologia tra Terra e Mare
Il Centro Studi “F. Rossitto” promuove due giornate di studio
Due le sessioni di studio. Sedici le relazioni su tematiche specifiche. Otto le Soprintendenze ai Beni Culturali (Ragusa, Siracusa, Catania, Enna, Caltanissetta, Agrigento, Trapani, Messina) che hanno dato la loro adesione unitamente a cinque Accademici dei Licei (i professori Pugliese Carratelli, Pelagatti, Rizza, Tusa, Di Vita). Cinque le Università interessate. Quattro gli Enti che hanno lavorato in sinergia per promuovere l’intera manifestazione. Questi i numeri che ruotano attorno alle due intense giornate che hanno caratterizzato il convegno “L’Archeologia tra Terra e Mare”, promosso ed organizzato dal Centro Studi “F. Rossitto” - in collaborazione con l’Assessorato Regionale Beni Culturali e Pubblica Istruzione, Centro Subacqueo Ibleo Blu Diving e l’UISP di Ragusa - tenutosi il 12 e 13 maggio scorso presso l’Aula Magna della Facoltà di Scienze Agrarie dell’Università di Catania-Sede di Ragusa Ibla. “Si tratta di un’occasione unica” – ha spiegato il Presidente del Centro Studi, on. Giorgio Chessari – “per illustrare le ricerche e le nuove prospettive di indagine sul versante dell’Archeologia avuto riguardo alle problematiche relative alla conservazione e fruizione dei reperti che vengono alla luce non solo dagli scavi di terra ma anche dal mare. Tutto ciò grazie all’impegno, ultra decennale, da parte di valenti studiosi da anni dediti alla ricerca di un prezioso patrimonio che viene dal passato”. Suddivisa in due sessioni, la manifestazione culturale trae spunto dal quarantesimo anniversario della fondazione della rivista “Sicilia Archeologica” cui collaborano numerosi professionisti, tra cui il prof. Vincenzo Tusa, oggi 87enne, promotore della citata Rivista, edita dall’A.P.T. di Trapani, nata nel 1968, della quale è Direttore responsabile. Proprio quest’anno, in occasione di tale ricorrenza, il Centro Studi “F. Rossitto” di Ragusa – nell’ambito delle attività culturali volte a far conoscere la Sicilia nel suo intimo – si è fatto portavoce di problematiche che toccano i variegati campi specialistici dell’Archeologia di terra e di mare. Per l’occasione sono stati chiamati a relazionare numerosi ricercatori la cui valenza è riconosciuta in campo nazionale ed internazionale. Le sessioni pomeridiane, dopo i saluti dei vertici politico istituzionali della città di Ragusa, sono state caratterizzate dalle relazioni introduttive curate dal Presidente del Centro Studi “F. Rossitto” di Ragusa (on. G. Chessari), dal Presidente del Centro Subacqueo Ibleo Blu Diving (M. Buggea) e dal Presidente Archeoclub d’Italia sede di Ragusa (V. Piazzese), cui è seguita l’articolazione degli interventi programmati. Ospite d’eccezione è stato il professore Vincenzo Tusa, Accademico dei Lincei, Soprintendente emerito dei Beni Culturali e Ambientali, Professore emerito dell’Università di Palermo, ma anche socio e membro di non pochi Organismi, specializzati in diverse discipline, tra i quali l’Istituto Archeologico Germanico, Istituto di Studi Etruschi e Italici, Istituto di Preistoria e Protostoria (Firenze), Accademia di Scienze Lettere e Arti (Palermo), Comitato Direttivo della Società Siciliana di Storia Patria.
La prima sessione del convegno è stata dedicata proprio alla figura dell’archeologo Vincenzo Tusa, personalità di spicco dell’Archeologia del secondo Novecento, non solo per aver contribuito all’incremento degli scavi archeologici in luoghi importantissimi della Sicilia, ma anche per aver promosso ed avviato la costituzione di non pochi parchi archeologici (tra i quali: Selinunte, Segesta, Marsala, Pantelleria, Ustica, Imera, Cave di Cusa, Iato, Marineo), come peraltro attestato dalle testimonianze-relazioni dei professori Di Vita (già Direttore della Scuola Archeologica Italiana di Atene e Rettore dell’Università di Macerata), De Miro (già Soprintendente Beni Archeologici della Sicilia Centro Meridionale - Ordinario di Archeologia Classica dell’Università di Messina), Mormino (Soprintendente Beni Culturali di Palermo), Panvini (Soprintendente Beni Culturali di Caltanisetta). Il quarantennale di “Sicilia Archeologica” è stato trattato dal prof. Distefano, instancabile archeologo ragusano, con un excursus sugli articoli relativi alla zona iblea pubblicati, nel tempo, dalla rivista, mentre la prof.ssa Cutroni Tusa (Università di Palermo) ha disquisito sul contributo della ricerca archeologica, nelle province di Palermo e Trapani, per la conoscenza dell’antica monetazione nella Sicilia occidentale.
La seconda sessione è stata dedicata alla complessa tematica riguardante “I nuovi ritrovamenti dell’Archeologia subacquea lungo la costa iblea: tutela, recupero o conservazione in sito. Ipotesi di fruizione turistica”. Le varie tematiche, discettate nei diversi interventi programmati, hanno posto in luce molteplici problematiche. La sicurezza durante le immersioni è stato l’argomento trattato dal prof. Maestrelli (Presidente Nazionale Lega per le attività subacquee). Il patrimonio sommerso, ricco di ritrovamenti il cui studio può apportare un notevole contributo alla conoscenza del passato, nonché i nuovi orizzonti dell’archeologia subacquea in Sicilia, sono stati oggetto di variegate trattazioni (Palmisano, Falco, Scerra, Bruno). Sono state proiettate immagini inedite riguardanti il ritrovamento di anfore, ma anche di relitti di imbarcazioni naufragate. Ne ha parlato il prof. Sebastiano Tusa (figlio), responsabile del Centro regionale per l’archeologia subacquea, tracciando un quadro di insieme molto articolato ed interessante (dai molti relitti delle isole Lipari al sito preistorico di Pignataro, dal relitto normanno di S. Vito Lo Capo, in provincia di Trapani, alle ricerche su porti ed approdi). Tali ritrovamenti confermano ciò che emerge dai documenti archivistici che attestano notizie circa le antiche rotte seguite nei secoli scorsi dalle imbarcazioni (tale problematica è stata brillantemente affrontata dal prof. Distefano, “Relitti e naufragi a Camarina. Ipotesi di alcune rotte”).
Le conclusioni sono state affidate al prof. Sebastiano Tusa, dalla variegata e molteplice attività tra cui quella di Soprintendente del Mare per la Regione Sicilia, Docente a contratto di Archeologia Subacquea presso il Corso di Laurea in Archeologia Navale dell’Università di Bologna (sede staccata di Trapani), esperto di Paletnologia nonché Docente a contratto di Metodi e Tecniche della Ricerca Archeologica presso il Corso di Laurea in Architettura dell’Università di Palermo.
Giuseppe Nativo
GIUGNO 2008
Emmanuel Mounier: pensatore e profeta di un nuovo socialismo
Presentati gli atti del Convegno nazionale tenutosi a Ragusa
Su iniziativa di Luciano Nicastro (Docente all’Università LUMSA di Roma, Sede di Caltanissetta), coordinatore scientifico dell’incontro, i professori N. Bombaci, S. Sorrentino, G. Limone, C. Caltagirone, P. Emanuele, A. Micali, F. Totaro, S. Vento, A. Danese, S. Mandolini e lo stesso Luciano Nicastro hanno dedicato due giornate di studio al Convegno nazionale sul pensiero politico di Emmanuel Mounier, nel centenario della nascita, svoltosi l’11 e il 12 marzo 2005 nell’Aula Magna della Facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Catania, sede di Ragusa. Argomento principe su cui è ruotata l’intera tematica discettata nel corso del simposio – unico nel suo genere nel capoluogo ibleo - è stato “Il sentiero di Emmanuel Mounier. Politica, Democrazia e Socialismo al servizio della persona umana”. Oggi, come due anni fa, il Centro Studi “F. Rossitto” di Ragusa, nell’ambito delle molteplice attività divulgative del pensiero scientifico e filosofico, si fa patrocinatore della pubblicazione degli atti del citato convegno che tanta risonanza ha avuto nel mondo accademico. “Solo un autentico studioso e uomo di fede, cristiano e socialista, come Luciano Nicastro poteva avere il coraggio di promuovere, nel primo decennio del terzo millennio, una riflessione politica sulla democrazia e sul socialismo” – scrive l’on Giorgio Chessari (Presidente del Centro Studi) nella prefazione al volume – “…evidentemente egli ritiene che la riflessione sul pensiero di Mounier, costituitosi nel quadro degli sconvolgimenti prodotti dalla grande crisi economica e sociale degli anni 1929/’33, offra ancora indicazioni di palpitante attualità per il rinnovamento della convivenza sociale nel senso del superamento delle astratte contrapposizioni tra le istanze della persona e quelle della comunità”. La presentazione degli atti, contenuti nella pregevole pubblicazione “Annali 15 – anno 2007”, edita dal Centro Studi “F. Rossitto”, è stata affidata a Giuseppe Tumino, Docente di Storia e Filosofia al Liceo Classico “Umberto I°” di Ragusa dove si è recentemente tenuto l’incontro culturale, seguito da un attento pubblico rappresentato anche dagli studenti liceali, presieduto dal Presidente del Centro Studi (on. Giorgio Chessari), moderato da G.B. Veninata (Direttore Responsabile di “Pagine dal Sud”), alla presenza dei professori Luciano Nicastro e Vincenzo Giannone (Preside del Liceo Classico di Ragusa). Il professore Tumino, nella sua ampia, chiara ed articolata presentazione degli atti, ha analizzato i singoli saggi, toccandone i punti salienti, che hanno formato oggetto di non pochi interventi da parte degli astanti. “E. Mounier” – ha puntualizzato Nicastro – “è ritornato di grande attualità a cinquant’anni dalla morte come uno dei più fecondi maestri del pensiero personalista per affrontare le nuove sfide della crisi culturale e politica della nuova società della conoscenza, della comunicazione e dell’alienazione”.
Mounier nasce nel 1905, a Grenoble, cittadina francese nella regione Rodano-Alpi, da una famiglia di modeste condizioni e con “nonni contadini e montanari che gli avevano insegnato il realismo e la coerenza della vita”. Gli studi filosofici lo portano a seguire le lezioni di Jacques Chevalier che gli aprono “una dimensione nuova e profonda di prospettive e di ricerca sul solido ancoraggio della filosofia cristiana”. Svolge attività caritativa e mistica nell’ACJF (movimento giovanile di Azione Cattolica), nella Conferenza di San Vincenzo de Paoli e nella miseria dei quartieri popolari della sua città. Nel 1932 fonda la rivista cattolica francese “Esprit” che rappresenta “il luogo di elaborazione culturale di una nuova ipotesi di civiltà per l’Europa e per il mondo” dopo la grande crisi del ’29 e allo scombussolamento esistenziale e politico che ne segue. Partecipa alla Resistenza Francese, attraverso il movimento “Combat”, attivo contro il nazismo, facendo esperienza del carcere in mano ai tedeschi. Per Mounier “l’impegno della persona nasce dalla fraternità, dal suo modus amoris… Se la persona è l’incarnazione di una trascendenza (“una presenza in me” diceva Mounier), la sua vocazione non può non essere ‘homo homini frater’, una via di misericordia e di pensiero combattente”.
Attorno alla sua rivista riesce a raggruppare una compagine di intellettuali cristiani e laici per contrastare il totalitarismo nazista e fascista nonché il capitalismo come sistema economico, che riduce l’uomo “a mani e mascelle”. Per la sua operatività può considerarsi “un cristiano nel tempo, cioè il contrario di un cristiano che scende a patti con il suo tempo…”, come scrive A. Béguin. Di Emmanuel Mounier rimane non solo la sua grande produzione intellettuale, etica e di cultura politica, contraddistinta da non poche pubblicazioni, ma soprattutto la “fede nella persona e nella comunità ed un metodo di vita, di pensiero e di azione profetica e politica per ricostruire dalle fondamenta la democrazia e una nuova civiltà dalle radici cristiane più credibili ed esemplari, non compromesse con il disordine costituito politico, economico e sociale”.
“Il mulino Purgatorio di sopra e il quartiere dello Spirito Santo a Ragusa”
Presentato al Centro Servizi Culturali il volume di Giovanni e Gianfilippo Cintolo
Una delle numerose chiesette che arricchiscono il tessuto sociale e l’impianto urbanistico della vetusta Ragusa pre-terremoto, di cui si ha notizia fin dagli anni ’90 del XVI secolo, è la chiesa dello Spirito Santo nei cui pressi emette i primi vagiti lo scienziato, astronomo e matematico G. Battista Hodierna. Il “tenimento di case” che si trova dietro la chiesa insieme con “altro tenimento… a confine con la stessa…” rappresenta il quartiere dello Spirito Santo sviluppatosi nei due versanti della vallata Santa Domenica attorno agli orti di fondovalle ed al canale di deflusso delle acque delle sorgenti Grotta dell’Acqua, Santa Domenica, Sant’Alberto, Puzzo. Si tratta di uno scorcio urbano in buona parte andato perduto sia per i capovolgimenti subiti dal tremendo evento sismico occorso nel lontano 1693 sia per gli stravolgimenti dovuti al tempo e all’uomo stesso. La cava di Santa Domenica e quella di San Leonardo sono due profondi e pittoreschi valloni del tavolato ibleo su cui si affaccia la Ragusa di sempre. Andare a ricercare l’ambiente sociale e produttivo di queste zone, unitamente agli aspetti storico-urbanistici, è certamente impresa alquanto ardua in quanto, allo studioso che intraprende tale ricerca, si prospettano una serie di problematiche, prima fra tutte lo studio della topografia di Ragusa-Ibla a partire dal XVII secolo.
E’ sulla base di tali istanze che nasce l’interessante e certosina ricerca svolta dagli arch. Giovanni e Gianfilippo Cintolo che gli stessi hanno concretizzato attraverso la pubblicazione del saggio “Il mulino Purgatorio di sopra e il quartiere dello Spirito Santo a Ragusa” (Libroitaliano World, Ragusa, pp. 184). Tale volume, recentemente, è stato oggetto di un incontro culturale tenutosi nei locali del Centro Servizi Culturali che, in sinergia con il Comune di Ragusa, ha patrocinato la consegna alle stampe di tutto il materiale elaborato dai menzionati studiosi. Si tratta di un pregevole libro, frutto della viscerale passione dei due architetti, padre e figlio, che tiene conto non solo dell’apporto di tante carte d’archivio (comprese le mappe che coprono un arco temporale oscillante tra il 1692 ed il 1944) ma anche di non pochi dati estrapolati dalla ricchissima bibliografia e da numerosi contributi, storici e tecnici, prontamente forniti da numerosi appassionati e ricercatori tra i quali l’on. G. Chessari, dott.ssa E. C. Platamone, dott. G. Morana, dott. M. Pepi e, non ultimo, l’archeologo prof. G. Distefano, direttore Servizio Beni Archeologici Soprintendenza di Ragusa. A quest’ultimo è stata affidata – dopo l’introduzione del prof. Nino Cirnigliaro - la presentazione della citata pubblicazione che presenta una radiografia di un quartiere dell’antica Ragusa caratterizzata dalla “forma piscis”, secondo la descrizione contenuta in una mappa allegata al “Manoscritto Anonimo del ‘600”.
Mediante i riferimenti urbanistici delle mappe secentesche e lo studio socio-demografico del quartiere dello Spirito Santo, gli Autori conducono quasi per mano il lettore verso un’epoca dal sapore antico e sicuramente dimenticata. Un viaggio a ritroso nel tempo alla scoperta dell’antica arte molitoria attraverso lo studio di uno dei tanti mulini ubicati lungo i corsi d’acqua che in passato scorrevano nelle strette vallate dell’altopiano ibleo alimentati dalle non poche sorgenti di faglia: il cosiddetto “Mulino Purgatorio di Sopra”, su cui gli Autori fanno piena luce. Si tratta di un mulino ad acqua, oggetto di recente restauro, ubicato nei pressi della chiesa Anime Sante del Purgatorio, lungo la discesa “Fiumicello” (nell’omonimo quartiere, dove era allocato anche l’altro mulino detto “Purgatorio di Sotto” andato completamente distrutto), presente in zona insieme ad altri (come quello di S. Barbara, Arancelli e Cupole) funzionanti tutti i giorni, eccetto la domenica utilizzata per la manutenzione ordinaria degli ingranaggi dello stesso mulino. Si apprende così l’arte “prestigiosa” della macinazione, la ricaduta economica sul quartiere ma anche i momenti della molitura, l’impiego degli attrezzi, i locali del mulino dove virtualmente sembra di entrare. Gli Autori vanno oltre la descrizione, sia pure dettagliata e scientifica, del mulino che risulta essere una vera e propria “architettura pre-industriale”, allargando il panorama storico urbanistico anche all’aspetto topografico di Ibla, agli ingressi della città, alle costruzioni tardo-medievali dalle varigate connotazioni e quasi incastonate in un paesaggio che somiglia ad un presepe vivente. La pubblicazione di Giovanni e Gianfilippo Cintolo non può, pertanto, passare inosservata in quanto si tratta di “un’opera originale, oltre modo documentata e preziosa miniera di notizie” - come peraltro evidenziato, in prefazione al libro, dal prof. Cirnigliaro e dal dott. Schembari (rispettivamente Presidente e Vicepresidente del Centro Servizi Culturali di Ragusa) – che sicuramente rappresenta un punto di riferimento ma anche di partenza per ulteriori approfondimenti sulla storia urbanistica e socio-demografica dell’antica città.
Incontro con l’Autore
Alla Camera di Commercio di Ragusa Lectio Magistralis
di Giorgio Bàrberi Squarotti
“Lo presentai a Ragusa 31 anni fa. Allora parlavo della decennale amicizia con il prof. Squarotti. Dunque, sono 41 anni che noi dialoghiamo: lui da Torino ed io da Ragusa… Altre volte abbiamo avuto modo di incontrarci in occasione di vari convegni. Lo abbiamo avuto come punto di riferimento e come maestro… Se oggi è qui con noi lo dobbiamo alla sensibilità, all’interesse ed alla volontà del Centro Studi Feliciano Rossitto, del Centro Servizi Culturali e del Teatro Club Salvy D’Albergo…”. Inizia così l’articolata relazione introduttiva del prof. Giovanni Occhipinti (poeta e scrittore) alla serata dedicata all’incontro con Giorgio Bàrberi Squarotti, a cui sono intervenuti il prof. Nunzio Zago (docente di Letteratura italiana all’Università di Catania) che ha discettato su “Il Maestro di letteratura”, dott. Carmelo Arezzo (scrittore e critico letterario) con “Nord e Sud: sintonia di versi”, dott. Emanuele Schembari (giornalista e poeta) con la relazione “Il Poeta, il Critico, il Maestro”. Una serata con e per la letteratura seguita da un attentissimo pubblico, che ha gremito l’Auditorium della Camera di Commercio di Ragusa, accorso numeroso non solo per ascoltare i corposi interventi programmati ma anche per “gustare” la Lectio Magistralis tenuta da Bàrberi Squarotti su “Il fanciullo divino e diverse fanciulle: Pascoli, d’Annunzio, Saba, Sbarbaro”.
L’intera iniziativa rientra nell’ambito dell’ampio e variegato progetto del Centro Studi “F. Rossitto” volto a far conoscere, non solo agli appassionati ma anche al grande pubblico, i grandi Maestri (scrittori, poeti e critici) che hanno tracciato un solco indelebile nel campo della letteratura italiana ed estera del secondo Novecento.
Ma chi è Squarotti? Giorgio Bàrberi Squarotti è certamente uno dei maggiori saggisti e critici letterari viventi, profondo conoscitore della letteratura italiana e, in particolare, della poesia del Novecento, sulla quale ha scritto moltissimo. Nasce a Torino nel 1929. Già allievo del compianto Giovanni Getto (grande critico letterario), nei primi anni ’50 si laurea con una tesi sull’opera letteraria di Giordano Bruno. Dal 1967 è professore di Letteratura italiana presso l’Università di Torino. I suoi lavori sono spesso dedicati agli autori liguri. Nel 1971 scrive la prima ampia ed approfondita monografia su Camillo Sbarbaro (1888-1967, poeta e scrittore), a prova del suo forte legame che risale ai primi anni ‘60, quando è componente della giuria del premio Rapallo-Prove di Nino Palumbo e della redazione dell’omonima rivista. E’ proprio sulla rivista “Prove” che Bàrberi Squarotti pubblica, già a partire dal 1960, alcune sue poesie, rivelando così un altro versante della sua attività letteraria, ossia quello di poeta, che lo vede autore di non pochi libri di versi. La sua prima raccolta di versi si intitola “La voce roca”. Dopo “Astrazione e realtà” (1960) pubblica un gran numero di opere riguardanti figure e tempi della letteratura italiana, da Dante a Marino, da Petrarca ad Ariosto, da Boccaccio a D’Annunzio, da Tasso a Montale, a Pavese e ad altri contemporanei. Dopo la scomparsa di Salvatore Battaglia (1904-1971, filologo, linguista e critico letterario) è nominato responsabile scientifico del monumentale “Grande dizionario della lingua italiana” (pubblicato da UTET). Si forma in quella fucina di attività letterarie che è la rivista “Sigma” (nata nel 1964) diretta da Sergio Pautasso. E’ condirettore della rivista letteraria “Cronorama”, dopo la direzione con il dott. Emanuele Schembari (dal 1973 al 1975), e, prossimamente, condirettore, insieme al prof. Nunzio Zago, della istituenda rivista “Trasmigrazioni” che sarà edita dal Centro Studi “F. Rossitto”.
La poesia di Barberi Squarotti “si rivela forte, di figure mitiche, divine, angeliche, demoniche, di morti, di vivi”, come ha sottolineato Occhipinti, elementi, questi, di cui il poeta si serve per costruire “ininterrotte allegorie”. E’ una poesia che “narra ciò che essa sola conosce”. E’ alimentata dalle molteplici conoscenze del poeta e, dunque, ricca di significato. La notevole intensità del suo verso, “lungo e fiumeggiante”, “trascina nel suo alveo immagini e ricompone e definisce situazioni sempre alle prese con gli inganni della storia, sviliti, svuotati dalla forza dell’ironia”.
Momento clou della serata è stata la Lectio Magistralis tenuta da Giorgio Bàrberi Squarotti attraverso la quale è stato affrontato il suggestivo tema riguardante le figure de “Il fanciullo divino e diverse fanciulle” nella poesia di Pascoli, d’Annunzio, Saba e Sbarbaro, autori in cui la tematica del “fanciullo” si fa metafora del canto.
L’Arte oltre le mura del carcere
L’arte è l’espressione del proprio intimo e per questo è strettamente connessa alle emozioni. L’arte dà sfogo alla creatività dell’anima ed è per questo che è libera. L’arte è anche un mezzo di comunicazione che va ad esternare quella intuizione artistica materializzata nel suo significato etico, estetico e spirituale. L’arte riempie quell’assordante silenzio in cui sono immersi coloro i quali si trovano rinchiusi in una cella carceraria. Il carcere può essere assimilato ad un laboratorio sociale, un condensato di potenziali conflittualità da gestire e trasformare in esperienze positive. Lo sforzo da attuare è quello di riconsiderare i detenuti e offrire loro l’opportunità di rimettersi in gioco. Utilizzando la cultura e l’arte, quali strumenti di integrazione, la Città di Ragusa ha avviato da tempo una serie di progetti che aiutano i detenuti a sviluppare nuove competenze nonché a sentirsi parte utile e attiva sia della realtà in cui si trovano inseriti che della società. Tali attività, peraltro già previste ed attuate presso le varie strutture carcerarie attraverso gli educatori, sono accompagnate da occasioni di “pubblica restituzione” come, ad esempio, incontri con il territorio e mostre in stretta sinergia anche con istituti scolastici. Questi momenti permettono ai detenuti di sentirsi “cellula viva e parte integrante” della società, contribuendo a sensibilizzare la società esterna affinché si renda parte attiva nella creazione di una adeguata rete territoriale a supporto della realtà carceraria. E’ sulla base di tali istanze che il Circolo Didattico “Palazzello” ha promosso ed organizzato – nei propri locali dal 28 maggio a fine mese - una mostra-mercato, avente per oggetto la “Libertà nell’arte”, relativamente a manufatti realizzati dalle detenute della Casa Circondariale di Ragusa e dai detenuti della Casa Circondariale di Modica. Si tratta di arte decoupage che gli ospiti delle citate strutture hanno concretizzato dietro l’egida della professoressa Maria Grazia Zago, promotrice del progetto e docente presso il sopra menzionato Istituto scolastico. Specialista in tecniche espressive di decoupage e pittura la professoressa Zago si è distinta per l’impegno assunto di erogare un corso specifico ai detenuti. La particolarità del progetto culturale sta non solo per aver insegnato con perizia tali tecniche a non pochi detenuti, i quali hanno raggiunto un buon livello nel campo artistico, ma anche per lo scopo umanitario dell’intera iniziativa legata alla raccolta di fondi pro Associazione Padre Amato (missionario di Monterosso Almo) per i bambini del Congo. Proprio a Padre Sebastiano Amato gli ospiti delle Case Circondariali di Ragusa e Modica hanno dedicato il frutto del loro impegno artistico esprimendo la loro solidarietà anche attraverso accorati messaggi.
Il decoupage è una tecnica decorativa il cui nome deriva dal francese “decouper”. Dietro questa parola, che tradotta significa semplicemente ritaglio, c’è l’infinito mondo delle immagini di carta e la piena libertà di usarle per decorare qualsiasi oggetto. I detenuti, però, sono andati oltre dedicandosi al decoupage pittorico utilizzando variegati materiali (tegole, piatti, vasi in cotto pre-trattati con carta abrasiva, vetro, legno magistralmente scolpito). L’arte del decoupage, che oggi è tra gli hobby più in voga, è un’arte antichissima che affascina e conquista. “E’ proprio in questo che sta la chiave di volta” – puntualizza la professoressa Zago – “per coinvolgere ma, soprattutto, per affinare le proprie capacità espressive. Sin dal primo momento gli ospiti delle due Case Circondariali (Ragusa e Modica) mi hanno seguito e brillantemente coadiuvato dando il meglio di loro stessi. E’ un modo per estrinsecare la loro creatività ma anche un modo per divertirsi e, nel contempo, rilassarsi”.
L’iniziativa si è conclusa il 31 maggio scorso riscuotendo non poco interesse. Si è trattato di una mostra che va oltre il significato degli oggetti esposti e che vuole essere l’occasione per sensibilizzare gli alunni, gli studenti, l’intera cittadinanza, su variegati problemi, quali la formazione della popolazione carceraria, ma anche pretesto per rendere visibile ai cittadini una delle tante attività che ruotano attorno le strutture carcerarie i cui obiettivi sono rivolti anche all’attenuazione del disagio dovuto alla detenzione.
“Ragusa Festosa”
Quel sapore popolare e genuino della tradizione in un libro di Vincenzo Giompaolo
Le feste, il folklore e le tradizioni popolari sono tra le più significative espressioni del patrimonio immateriale che appartiene alla collettività. Scoprire le antiche radici di celebrazioni ancora oggi vive e le origini lontane delle tradizioni, coglierne i segni di quella forza spirituale che crea, conserva, tramanda e rinnova la vita sociale di una collettività, immortalarne il senso, i colori attraverso un click, può aiutare a capire il passato. A questa esigenza risponde l’ultimo volume di Vincenzo Giompaolo, “Ragusa Festosa” (Associazione Culturale “Sicily is one”, Utopia Edizioni, pp. 168), in cui sono racchiuse un centinaio di immagini dal sapore popolare e genuino. Accanito studioso di etnografia e tradizioni popolari siciliane, ha raccolto, nella sua ultra trentennale attività, un cospicuo numero di stampe grazie alla sua inseparabile macchina fotografica. Giunto ormai alla sua sesta pubblicazione, Giompaolo ha voluto raccogliere in questo libro le foto più significative riguardanti le feste popolari del capoluogo ibleo e territorio limitrofo accompagnandole con un breve testo descrittivo. E’ una sorta di testimonianza visiva e testuale in cui motivi autenticamente religiosi si mescolano, talvolta, con elementi e reminiscenze pagane. Si tratta di riti collettivi che coinvolgono l’intera comunità, offrendo momenti di aggregazione e affermazione della propria identità culturale, in una molteplicità di suoni, di gesti e voci immersi in suggestive scenografie con scintillio di luci e colori.
Le consuetudini popolari festive, profane o religiose, segnano fasi dell’anno che si ripresentano ciclicamente come schematizza il vecchio adagio “Sant’Antoniu gran friddura, San Lorenzu gran calura, l’unu e l’autru pocu dura”. Le feste sono anche punti di riferimento perché fissano sul calendario date che corrispondono all’ordine e alla natura dei lavori agricoli da compiere. Affermarlo può sembrare scontato, ma la festa non è quotidianità. I suoi atti si pongono su piani diversi che, nel contempo, si intrecciano e si compenetrano nella dimensione soprannaturale consolidandosi nel rapporto dell’uomo con la natura. E’ il caso, ad esempio, della ricorrenza di “Santu Spriuni” (San Spiridione di Trimithonte), vescovo e martire del III° secolo, la cui devozione è ancora molto forte e che vede non pochi fedeli recarsi al Santuario del Carmine di Ragusa, il 14 dicembre, per rendere omaggio al santo, noto per le sue qualità taumaturgiche (secondo la tradizione difende da malanni vari) e soprattutto per rassicurare dalle paure mediante la lettura del prologo del Vangelo di San Giovanni. Tale data rappresenta, per la cultura contadina, un momento di rilevante importanza poiché hanno inizio i cosiddetti “cariennili”: cioè quei dodici giorni che precedono la notte di Natale, ciascuno rappresentante un mese del futuro anno, nel corso dei quali il succedersi delle relative condizioni climatiche costituiscono un valido supporto per le previsioni meteorologiche riguardanti la successiva annata agraria.
La festa ha anche un sapore agreste come quella di Santa Rosalia le cui celebrazioni (la prima domenica di settembre) ruotano attorno all’omonimo piccolo santuario rurale, ai confini comunali, accanto ad un’angusta e quasi inaccessibile grotta, segno atavico di un leggendario passaggio della “Santuzza”, da cui si snoda una processione lungo caratteristici viottoli e strade di campagna mentre “l’atmosfera festaiola è pur anche arricchita dall’odore dell’arrosto degli insaccati, dal vocio dei bimbi… dalla musica della banda, dal suono della campana…”, il tutto incorniciato da una genuina euforia della gente che dà vita a semplici giochi come “a cursa che sacchi” (la corsa con i sacchi) o “i pignateddi” (le pentoline). Le note musicali del “friscaliettu” riempiono, di antica gioia, il cuore di coppie danzanti non più giovani.
Giuseppe Nativo
LUGLIO 2008
Un incontro lungo 25 anni
Attività di teatro-danza al “Centro Ludens” di Ragusa
Mani che sorridono. Occhi che si incrociano. Muscoli che fremono, impazienti. E’ questa l’aria che si respira dietro le quinte. Un guizzo e si è già in pedana dinanzi ad un pubblico che gratifica con applausi spontanei. Ritmo, suono, ballo. Espressività del corpo che diventa parola e, nel contempo, recitazione, interpretazione, creatività e spontaneità. Tutto questo è “Teatro-Danza” e tutto ciò risponde al nome di “Centro Ludens” di Ragusa sotto l’egida della professoressa Claudia Gafà, che recentemente ha festeggiato il XXV° anniversario (1983-2008) di attività della sua palestra-laboratorio attraverso una kermesse serale, dal titolo “25° incontro Ludens”, che ha coinvolto tutto il gruppo docenti unitamente agli allievi. Un quarto di secolo speso per la danza e per la gestualità, affinando anche tecniche teatrali correlate a tutto ciò che è movimento ritmico del corpo. E’ questo che contraddistingue la professoressa Gafà da quando, in quel lontano 1983, inizia a dedicarsi, anima e corpo, a tutto ciò che è danza e, dunque, ricerca di una perfetta gestione del corpo accompagnata da tecniche respiratorie, correlate allo sviluppo di quel self-control che rende diverso l’attore-danzatore dal normale uomo della strada.
Stare con gli allievi, sentire i loro respiri, percepire i loro umori, vivere intensamente con loro, renderli un unico corpus con il palco è stata da sempre la sua passione. Una passione viscerale per il teatro e per la danza accresciuta giorno dopo giorno dalla voglia di ricerca, di approfondimento, nel suo insegnare e, soprattutto, nel suo sondare e sviluppare i talenti dei suoi non pochi allievi. Proprio loro sono stati i protagonisti assoluti, unitamente alle bravi insegnanti, della serata dedicata al 25° anno di attività della “Ludens”. Suddivisi in gruppi, in base all’età ed alla tipologia di insegnamento ricevuto, gli allievi si sono posti al centro dell’attenzione, per circa due ore, proponendo danze e ritmi che hanno coinvolto non poco il numeroso pubblico presente alla serata.
La redazione di Insieme si è intrattenuta con la professoressa Gafà intavolando una piacevolissima conversazione al termine della kermesse.
-Un quarto di secolo trascorso alla ricerca di innovazioni per fare in modo che anche a Ragusa potessero esservi delle opportunità…
Si tratta di un bel traguardo raggiunto con il contributo di tutti, collaboratori ed allievi. Mi sento anche fortunata in quanto Ragusa, pur essendo una provincia “piccola”, mi ha dato l’opportunità di dedicarmi al Teatro-Danza. Insomma a ciò in cui credo. Non so se in altre realtà, magari più grandi, avrei avuto la possibilità di dedicarmi ai miei ragazzi.
Qual è l’approccio con i suoi ragazzi?
E’ un approccio semplice che tiene conto, innanzi tutto, dell’attitudine di ciascuno e, poi, del loro modo di sentire il palcoscenico. Prima di sviluppare una scenografia di teatro-danza è necessario sentire quello che c’è nel loro animo per poi costruire, giorno dopo giorno, insieme a loro, le varie tecniche tenendo sempre presente il movimento del corpo ovvero l’espressività che diventa anche parola.
-La struttura in cui lei opera nonché l’ambiente esterno ricco di verde, dove l’occhio si posa sui colli iblei arricchiti da alberi saraceni, aiuta il corpo e la mente per la sua attività?
Come in tutte le discipline il cui fulcro principale è il corpo, anche per il teatro-danza è necessaria una buona ossigenazione in relazione all’attività fisica svolta. Ho realizzato questo impianto per cercare di dare il meglio e, soprattutto, per far in modo di far uscire quella spiccata creatività che c’è in ognuno di noi e che magari non viene fuori per vari motivi. Il processo creativo è comunicazione ma anche libertà di lasciare che il nostro corpo entri in contatto armonioso con quell’equilibrio rappresentato dal pensiero, azione e coscienza di esistere.
Giuseppe Nativo
SETTEMBRE 2008
Pesca-turismo: un tuffo nei sapori iblei
L’offerta turistica è di primaria rilevanza per un territorio, qual è quello ibleo, caratterizzato da beni architettonici inseriti come patrimonio dell’umanità. Se a ciò si aggiunge un pizzico di savoir faire, congiuntamente all’idea di promuovere nuovi sistemi economici che possano dare una spinta allo sviluppo del settore ittico, il gioco è fatto. Si tratta di un’iniziativa che mira alla riconversione della pesca artigianale in quella che viene definita “pesca-turismo”, ovvero un modo nuovo per diversificare l’offerta turistica cercando di incrementare l’attività economica dei pescatori. L’iniziativa nasce in territorio ibleo, con il coinvolgimento dei comuni della fascia costiera, nell’ambito del progetto “Azzurro Mediterraneo” promosso in partnership dalla Provincia Regionale di Ragusa, ente capofila, dalla “Sogevi” di Vittoria, da “Ada Comunicazione” e dall’Assessorato Regionale alla Cooperazione, dipartimento Pesca.
In alcune zone dell’isola la “pesca-turismo” è già una realtà. Ma che cos’è e, soprattutto, cosa riguarda tale iniziativa? E’ un nuovo modo di fare vacanza: il turista sta accanto alla gente del mare attraverso escursioni a bordo dei pescherecci locali, per cercare di cogliere l’intima essenza di un’attività ultra-millenaria, partecipando alle battute di pesca, ascoltando storie e miti, insomma facendo nuove amicizie. Un vero e proprio tuffo nei profumi e nei sapori genuini e popolari assaporando il pescato, alimento principe della gastronomia siciliana dei borghi marinari. Grazie a tale iniziativa i turisti avranno la possibilità di apprezzare le ricette iblee a base di pesce direttamente a casa dei pescatori (quest’ultimi si potranno avvalere di una normativa, a metà tra gli impianti di agriturismo e quelli di bad and breakfast, allo scopo di ristrutturare le proprie abitazioni e renderle più accoglienti per i turisti).
Itinerari, dunque, del gusto tra mare, terra e barocco ibleo con il piacevole intento di coniugare l’eco-gastronomia ed il piacere di un buon alimento, con stimoli sicuramente culturali. Per far conoscere e promuovere tale iniziativa sono stati organizzati dal Comune di Ragusa una serie di eventi “itineranti” che, a partire dall’ultima settimana di luglio, hanno caratterizzato l’estate iblea. Diversi i comuni interessati che, lungo la fascia costiera, hanno coinvolto i turisti ed i villeggianti in un tour contraddistinto da degustazioni, mostre ed esposizioni per raccontare l’uomo e la sua sfida quotidiana, quella con il mare contraddistinta dall’eterno connubio amore-odio. Si tratta di una sorta di “villaggi-itineranti” che dal 25 al 27 luglio sono approdati a Marina di Ragusa, rinomata località balneare del capoluogo ibleo, con variegate iniziative - quali l’apertura dell’accattivante mostra fotografica “L’uomo e il mare” ed un’interessante estemporanea d’arte - accompagnate da spazi dedicati alla degustazione di piatti a base di prodotti ittici locali avente per tema “Momenti di gola: ricette d’autore”. Dal 1° al 3 agosto l’itinerario si è spostato a Scoglitti, frazione marinara di Vittoria (Rg), interessando anche Punta Secca (altra zona marittima in territorio di Santa Croce Camerina, Rg). Altra tappa dall’8 al 10 agosto a Marina di Modica (RG), il 16 ad Acate (Rg) per concludere il lungo itinerario con un abbraccio al barocco dell’entroterra ibleo. Tante tappe, dunque, volte a far conoscere la bontà del pescato locale la cui peculiarità (specie per il “pesce azzurro”) sono apprezzate dai buongustai e ricercate dai nutrizionisti.
Viva soddisfazione è stata espressa dal primo cittadino di Ragusa. “Abbiamo accolto con interesse ed entusiasmo l’intera iniziativa che è stata inserita nel nostro cartellone estivo nell’ambito del progetto Azzurro Mediterraneo” – ha spiegato Nello Dipasquale – “Sappiamo che ha già ottenuto grande successo nonché l’attenzione dei mass media a carattere nazionale. Crediamo anche che da questi importanti momenti passi la promozione turistica di tutto il territorio ibleo”.
Giuseppe Nativo
OTTOBRE 2008
“Giornate dell’Arte” e promozione culturale
Avviata campagna di raccolti fondi per l’urna reliquiario
di San Giovanni Battista di Ragusa
“Non prendersi cura dell’arte è come buttarla via”. E’ questo il motto scelto per la quinta edizione delle “Giornate dell’Arte” che quest’anno si sono articolate dal 27 settembre al 5 ottobre, in concomitanza con le “Giornate Europee del Patrimonio”. Da Nord a Sud, da Venezia a Ragusa, passando per musei, edifici laici ed ecclesiastici, i beni culturali meritevoli di attenzione in tutto il Paese sono stati oggetti di attenzione e, nel contempo, protagonisti di una campagna di raccolta fondi rivolta al restauro degli stessi. L’iniziativa, infatti, ha avuto lo scopo di sensibilizzare i cittadini sul tema della salvaguardia del patrimonio culturale e artistico, invitandoli a donare per assicurarne la tutela attraverso il restauro. Tra i tredici capolavori italiani inseriti nella lista dei beni da riportare in uno stato di buona conservazione, nell’ambito della raccolta di fondi delle “Giornate dell’Arte”, promosse dalla “Fondazione Città Italia” in sinergica cooperazione con il MIBAC (Ministero per i Beni e le Attività Culturali), è stata scelta l’Arca Santa, urna reliquiario custodita nella Cattedrale di San Giovanni Battista di Ragusa.
Viva soddisfazione è stata espressa dal Sindaco del capoluogo ibleo (Nello Dipasquale), anche nella qualità di Vicepresidente nazionale del CIDAC (Associazione delle Città d’Arte e Cultura, a cui aderiscono numerose città italiane allo scopo di offrire una sede di confronto e approfondimento delle problematiche comuni e con l’obiettivo di valorizzare il ruolo che questi centri svolgono nel gestire il patrimonio storico-artistico), per il giusto riconoscimento dato alla città di Ragusa che “custodisce uno tra i maggiori capolavori d’arte italiani quale l'Arca Santa, opera di preziosa argentiera messinese del 1731 di Pietro Paparcuri e Gaspare Garufi, definita da illustri storici tra le più preziose opere di argenteria della Sicilia”.
E’ in tale contesto che si inserisce l’iniziativa culturale posta in essere dalla Cattedrale San Giovanni Battista di Ragusa, in collaborazione con la Provincia, Comune e Soprintendenza Beni Culturali di Ragusa, volta a far conoscere le vicende artistiche dell’urna reliquiario del Santo attraverso una presentazione storica affidata alle cure del professore Paolo Nifosì, che è uno dei più apprezzati storici dell’arte in terra iblea. Autore di molteplici pubblicazioni, Nifosì ha dedicato gran parte della ricerca allo studio storico ed archivistico dell’arte nella Sicilia sud-orientale, con particolare riferimento al territorio della provincia di Ragusa. L’ “Urna di San Giuvanni”, messa in opera da quasi tre secoli (nel primo trentennio del XVIII secolo), e realizzata dai precisati maestri argentieri messinesi, è un reliquiario di inestimabile valore. Il disegno originario prevedeva la presenza di putti reggenti l’Urna con le mani. Di notevole impatto visivo sono i pannelli che, risalenti ad epoca precedente, arricchiscono i laterali dell’Arca: la “Natività” e, in particolare, la “Decollazione” che fa rivivere i momenti di forte tensione emotiva descritti nel Vangelo di San Marco (6, 17-29). Il grande piatto in bronzo dorato con la testa mozzata di San Giovanni Battista, risalente al 1641, è opera di tale Paolo Aversa, di origine palermitana ma trapiantato in terra etnea. La testa del Battista, adagiata sul piatto, con un volto ossuto e allungato, occhi chiusi, bocca aperta contenente una reliquia del Santo, barba non molto lunga, e caratterizzata dalla presenza di capelli, sciolti ed articolati in maniera quasi spontanea, offre un volto di grande intensità visiva. “Una testa ancora attraversata da un fremito di vita”, ha specificato il professore Nifosì nel corso della sua articolata e puntuale discettazione, tenuta nella Cattedrale, ponendo l’attenzione al pannello in cui è raffigurato il carnefice nell’atto di vibrare il colpo mortale su San Giovanni. Di anonimo argentiere siciliano è il reliquiario raffigurante il braccio del Battista, risalente al 1664, donato alla chiesa da Don Antonuzzo Sortino Trono. Tale reliquiario, presente nel disegno originario dell’opera come cuspide dell’urna, allo stato attuale risulta sostituito dal “Battesimo di Gesù”. L’Arca Santa è commissionata, negli anni ’30 del XVIII secolo, dai procuratori della Chiesa di San Giovanni Battista i quali, per la sola manodopera, compresa la fornitura di argento e bronzo ai citati maestri argentieri, si sobbarcano una spesa pecuniaria non indifferente.
“Un giorno”… da ricordare
L’aspirazione di fare spettacolo, quello con la “S” maiuscola. L’impegno che divide equamente tra teatro e cinema. La voglia di stare tra la gente a raccontare e a vivere storie di tutti i giorni che lasciano il segno nel cuore di ciascuno. Questo, ma non solo questo, è Danilo Schininà. Nato, quasi sei lustri or sono, in quel di Scicli (Rg), vive tra Ragusa ed il resto del mondo proprio in virtù della sua innata passione per la recitazione. Attore e regista dalla multiforme personalità, si diploma alla scuola di recitazione Bibiena di Bologna, a cui presta collaborazione fino al 2005. Laureatosi in Discipline dell’Arte della Musica e dello Spettacolo (DAMS) all’Università di Bologna, scrive, dirige e interpreta il monologo “Dolce confusione” (2006). Gira in terra iblea non pochi cortometraggi tra i quali “Perché” (2002), “I curttigghiari” (2005), “Forse” e “Ti amo tanto” (2007). Nell’ottobre del 2007, ha dato il meglio di se stesso con l’inchiesta drammaturgica su “Il caso Spampinato”, scritta in sinergica cooperazione con Roberto Rossi, presentata a Ragusa e messo in scena da “Teatro Utopia” in occasione del 35° anniversario della scomparsa del giornalista Giovanni Spampinato su iniziativa promossa dal Centro Studi “F. Rossitto” in collaborazione con l’Ordine Regionale dei Giornalisti, l’Assostampa di Ragusa e l’Assessorato Regionale Beni Culturali e Pubblica Istruzione. Tale opera riscuote così vasto consenso da andare in scena nell’agosto scorso al Castello di Donnafugata (lo spettacolo è presentato in anteprima al Premio giornalistico televisivo “Ilaria Alpi” a Riccione il 2 giugno di quest’anno e patrocinato dall’Ordine Nazionale dei Giornalisti, dalla Federazione Nazionale della Stampa e dal Segretario Sociale Rai). Oltre allo Schininà, che interpreta Giovanni Spampinato, sul palco si muove, tra gli altri, il popolare Marcello Perracchio, noto al grande pubblico come il medico legale nella fiction “Il commissario Montalbano”.
“Un giorno” è invece l’ultima fatica che porta la firma del regista Danilo Schininà nel settore cinematografico. Si tratta di un nuovo cortometraggio che si sta girando proprio in questi giorni in provincia di Ragusa. Arricchito da una splendida scenografia naturale offerta dai suggestivi luoghi iblei, il corto narra di un uomo che torna, dopo tanto tempo, alla sua amata terra natia per riscoprirne l’intima essenza. Purtroppo non potrà rimanere molto in quei luoghi ma il tempo gli basterà per ritrovare un pezzo della sua famiglia e scoprire alcune “sorprese”.
L’attore principale è Marcello Perracchio il quale, nonostante un’agenda ricchissima di impegni teatrali e cinematografici a carattere nazionale, ha manifestato notevole interesse per questo progetto. Gli altri protagonisti sono Bartolo Santiapichi di anni 3, Evelina Fidone e Francesco Tardera. I costumi e l’assistenza alla regia sono affidati ad Elena Berretta. L’architetto Francesco Tardera assieme ai fratelli Giovanni e Luca, titolari dell’azienda “ConTrade” di Vittoria, ha commissionato il cortometraggio allo scopo di rilanciare il territorio e l’economia della zona promuovendo un progetto fortemente innovativo nel suo genere.
Il Cortometraggio unitamente ad uno Spot – anch’esso con la regia di Danilo Schininà e l’attore Marcello Perracchio – andranno, come prima uscita, in una delle fiere più importanti del mondo che si terrà a Berlino a febbraio 2009 ed avente per oggetto la promozione del settore audiovisivo.
Il Museo Archeologico di Ragusa e le Giornate Europee del Patrimonio
Anche quest’anno l’Italia ha partecipato alle “Giornate Europee del Patrimonio” con lo slogan “Le grandi strade della cultura: viaggio tra i tesori d’Italia”. Istituite ufficialmente nell’ormai lontano 1991, le “Giornate” hanno lo scopo di valorizzare il patrimonio culturale (ma anche quello paesaggistico) di un territorio attraverso lo studio delle sue vicende storiche nella convinzione che ogni esperienza generi passione e rispetto per ciò che si conosce. Ancora una volta tale iniziativa ha visto, accanto al Ministero per i Beni e le Attività Culturali, due partner d’eccezione: ilFAI (Fondo per l’Ambiente Italiano) e“Autostrade per l’Italia” che, con la scelta di oltre 250 beni monumentali di rilevante interesse, hanno contribuito ad accrescere l’offerta culturale. E’ sulla base di tali istanze che ben si inseriscono le recenti iniziative messe in cantiere dal Museo Archeologico di Ragusa, in sinergia con la Soprintendenza ai BB.CC.AA. di Ragusa (Servizio per i Beni Archeologici) e Regione Siciliana (Assessorato ai BB.CC.AA. e P.I.), relativamente alla promozione e divulgazione delle tematiche archeologiche strettamente correlate al territorio ibleo. Tra le principali tematiche affrontate un ruolo di spicco è stato dato dalla presentazione di due pubblicazioni, “Quaderni scientifici”, riguardanti, rispettivamente, l’ormai noto “Guerriero di Castiglione” (Quaderno n. 1), a cura dell’archeologo ragusano Giovanni Di Stefano, e la “Sezione preistorica” (Quaderno n. 2), quest’ultima riguardante la trattazione della omonima Sezione del Museo Archeologico di Ragusa, affidata ai ricercatori G. Di Stefano, A. M. Sammito e S. Scerra, con introduzione della Soprintendente ai BB.CC. e AA. di Ragusa, arch. V. Greco. Luogo dell’interessante incontro con studiosi e quanti amano l’archeologia è stato il Museo Archeologico di Ragusa dove un attento pubblico ha affollato una delle salette adibite a sala conferenze. Dopo la relazione dell’archeologa Anna Maria Sammito, la quale ha tratteggiato le linee essenziali di alcuni dei reperti in mostra al Museo che rappresentano una delle più importanti attestazioni per la ricostruzione culturale e cronologica della preistoria in terra iblea, è intervenuto il dott. Di Stefano (ricercatore e Docente all’Università degli Studi della Calabria) sulla singolare ed interessante tematica riguardante il ritrovamento di un variegato strumentario chirurgico avvenuto in occasione di scavi operati a Scornavacche.
L’abitato di Scornavacche (Rg), in agro chiaramontano, posto nei pressi del Dirillo, risalente al periodo ellenistico (periodo che, convenzionalmente, si fa iniziare con il 323 a.C., anno della morte di Alessandro Magno e terminare con la conquista romana dell’Egitto, battaglia di Azio del 31 a.C.), rappresenta uno dei non pochi siti iblei di rilevante importanza per il frequente ritrovamento di piccoli forni per la cottura dell’argilla e tutti i derivati di tale attività (numerosi sono i reperti custoditi al Museo Archeologico di Ragusa), confermando, dunque, la presenza di un quartiere dedicato al comparto artigianale. Numerosi sono gli studi effettuati su problematiche archeometriche di prodotti fittili greci ritrovati in zona (cfr. L. Lazzaroni, “Un ponte fra l’Italia e la Grecia”, Atti del Simposio in onore di Antonino Di Vita, Padova, 2000, pp. 283 – 290). Il sito, fondato dai greco-siracusani, come stazione carovaniera, si trova lungo la via interna che un tempo univa Siracusa a Gela e quindi ad Agrigento e Selinunte. L’impianto urbano è caratterizzato da un’area sacra e da case con botteghe artigianali. Nella parte centrale del caseggiato, nei pressi di tre ambienti contigui i cui vani sono prospicienti la via principale e con aperture ed accessi diretti ed autonomi, sono stati rinvenuti non pochi strumenti che, per la loro caratteristica, sono da inquadrare in ambito “chirurgico”. La scoperta, avvenuta verso la fine degli anni ’50 del secolo scorso per merito dell’archeologo e ricercatore Antonino Di Vita, è stata poi ripresa dal dott. Di Stefano le cui riflessioni sono state pubblicate su “Anthropos & Iatria” (n. 1, anno 2004, pp. 27–33, trimestrale specializzato in “Medicine Antropologiche” e “Storia delle Medicine”). La struttura, o “casa del chirurgo”, risulta contigua al sacello di Asklepio (il dio della medicina educato, secondo la mitologia greca, nella scienza medica dal centauro Chirone). Alcuni strumenti, con sonda “a cucchiaio” e lama convessa, secondo un’analisi effettuata con metodo comparativo, si sono rivelati molo similari ad alcuni esemplari rinvenuti in una tomba di Luzzi (Cosenza) risalente al I° secolo d. C.. Tra i particolari interessanti emersi c’è da dire che alcune di tali strumentazioni sarebbero state utilizzate “per interventi di raschiamento all’interno del naso, della gola, dell’occhio o anche della vagina, per l’asportazione di polipi, fistole o emorroidi…”. In particolare, per la sonda “a cucchiaio” sarebbe ipotizzabile una sua utilizzazione per l’esplorazione di ferite prodotte da frecce. In buona sostanza, si tratta di uno strumentario che arricchisce la “Storia della Medicina” ed il cui studio andrebbe ulteriormente approfondito nell’ambito di quella che si potrebbe definire “archeologia medica”.
Profumi e sapori della cucina iblea sbarcano in America
L’appuntamento culinario annuale più famoso d’America, organizzato dal “Culinary American Institute”, istituzione indipendente americana fondata nel lontano 1946, è interamente dedicato ai profumi e sapori di questo lembo di Sicilia definito più volte la “perla” barocca del Mediterraneo. Quest’anno, attraverso la partecipazione dei migliori chef che operano nell’Isola, è dato ampio risalto alla cucina iblea. Protagonisti, tra gli altri, dell’importante iniziativa, “Odissea dei profumi del Mediterraneo”, che si svolgerà dal 6 all’8 novembre prossimo a San Francisco, i “big” dell’arte culinaria nostrana. Scenderanno in campo, agguerriti come non mai, Ciccio Sultano (dal ristorante “Il Duomo di Ragusa Ibla”) e Carmelo Chiaramonte (dal ristorante “Il cuciniere”, presso il “Katane Palace” di Catania), due cuochi che, negli ultimi anni, hanno dato lustro all’antica arte della preparazione dei cibi instillati di creatività ma, soprattutto, di quella calda anima iblea che va ad esaltare profumi e sapori ormai dimenticati. “Se è vero che la cucina, pur nelle sue innumerevoli sfaccettature, esprime in maniera immediata il rapporto fra uomo e natura, è vero anche che questo rapporto - che usiamo chiamare cultura - è in qualche modo legato alle condizioni di vita del territorio”. E’ questa la significativa riflessione di Ciccio Sultano, artefice, tra l’altro della “Variante Sultano” (un film sulla cucina siciliana, ma non solo...). La cucina rappresenta il luogo dove l’estro “artistico” dello chef “si accende al tatto, al gusto, ai profumi delle materie prime, vere e proprie Muse ispiratrici della sua cucina”. E’ come se il cibo avesse un’anima che si sente ma che, soprattutto, è necessario ascoltare. Un’anima che viene dal passato considerato che la cucina siciliana risente non poco della stratificazione storica e culturale dell’Isola. Dalle abitudini alimentari della Magna Grecia alle raffinatezze dei cuochi francesi di alto lignaggio, passando dai dolci arabi e dai cibi cotti alla maniera ebraica, tutto contribuisce a rendere variegato il ricettario siciliano. Una ricetta particolare sarà presentata da Carmelo Chiaramonte che ha fatto sapere di proporre un antico preparato risalente al 220 a. C., “Lo sgombro all’Archestrato” (da Archestrato il poeta gelese appassionato cultore di gastronomia).
Nel corso della manifestazione saranno anche presentate ricette dell’antica tradizione contadina come “U maccu cche favi” ed il “Salmoniglio di olio, aglio e peperoncino”. Ai buongustai l’ardua sentenza…!
Giovanni Semerano: l’archeologo della parola
Al Centro Studi F. Rossitto dibattito su “L’Infinito: un equivoco millenario?”
“…Vi sono parole fatte fluitare dalle onde di secoli remoti; giungono intatte sino a noi, ma non si possono accogliere solo col suono delle loro sillabe, occorre auscultarle… per sentirvi dentro il loro segreto, come in una conchiglia si ascolta l’eco degli oceani abissali…”. Inizia così il viaggio di Giovanni Semerano (1911 – 2005), filologo italiano, studioso delle antiche lingue europee e mesopotamiche, dedicato alla scoperta delle radici più profonde della identità culturale europea, toccando gli aspetti più reconditi ed antichi della parola, con il suo affascinante ed intrigante volume, “L’infinito: un equivoco millenario – Le antiche civiltà del Vicino Oriente e le origini del pensiero greco” (Bruno Mondadori, Milano, 2001, pp. 296). I territori dell’esplorazione dell’Autore sono quelli dello studio etimologico rivolto a scoprire le “tracce dei suoni e delle radici delle parole delle lingue antiche e moderne”. Seguendo alcune linee filologiche, Semerano sostiene che l’origine delle lingue non sia da ricercare in una “mitica primogenitura indo-europea”, ma in Mesopotamia, tra i popoli che parlavano l’accadico e le altre lingue semitiche. Si tratta di una ricerca che, scavando nell’etimologia del greco, del latino e del sanscrito, risulta alquanto singolare e che va a sovvertire quanto si legge tuttora sui libri scolastici stimolando ulteriori interrogativi e approfondimenti su temi filologici. E’ su tale fronte che il Centro Studi “F. Rossitto” di Ragusa, nell’ambito delle iniziative volte a far conoscere ricerche di autori che hanno dedicato tutta una vita ad approfondire temi linguistici (richiamando sul campo anche ricerche sul versante storico, filosofico ed etimologico), ha recentemente promosso un incontro culturale avente per tema “L’Infinito: un equivoco millenario?”. A discutere la tematica affrontata dal libro di Semerano, ed in particolare su “Le antiche civiltà del vicino Oriente e le origini del pensiero greco”, sono stati chiamati a relazionare - dopo l’intervento introduttivo del presidente del Centro, on. Giorgio Chessari, e la lettura, da parte dell’attore Giorgio Sparacino, di alcuni brani del libro unitamente a frammenti di opere dei primi filosofi greci - i professori Gaetano Cosentini, Salvatore Dipasquale e Giuseppe Tumino, i quali hanno affrontato problematiche filosofiche ed etimologiche intrattenendo, con le loro puntuali ed articolate discettazioni, il folto ed attento pubblico che ha gremito la sala convegni del Centro Studi.
Semerano, allievo del semiologo Giuseppe Forlani, di Giacomo Devoto e Bruno Migliorini, inizia la sua carriera a Firenze come professore di Latino e Greco al liceo anche se la sua vera passione è l’etimologia delle parole la cui ricerca è delusa non poche volte quando, consultando i dizionari etimologici che sposano la tesi dell’origine indo-europea delle lingue, si trova di fronte a espressioni come “etimologia sconosciuta”, “ignorée”, “unknown”, “unbekannt”. Di qui la ricerca spasmodica sull’origine delle parole che lo porta ad abbandonare la cattedra di liceo. Assume la carica come direttore prima alla Biblioteca Laurenziana di Firenze e poi alla Biblioteca Nazionale dove rimane per tre decenni a sviluppare le sue ricerche che trovano esito a stampa nel suo capolavoro in quattro volumi (1984 - 1994), “Le origini della cultura europea” (Casa Editrice Olschki). Alla veneranda età di 90 anni scrive “L’infinito: un equivoco millenario”, in cui l’Autore dimostra che la parola di Anassimandro (filosofo greco presocratico vissuto tra il 610 e 546 a.C.): “Apeiron”, che è la prima parola della filosofia greca, nata in Asia Minore, non vuole dire “infinito” o “indeterminato” come vogliono Platone e Aristotele e, dopo di loro l’intera storia della filosofia, ma semplicemente “terra”, “polvere”, “fango”, dall’accadico “eperu”, vicino al semitico “apar”, da cui l’ebraico “aphar”. Ne deriva che il noto frammento di Anassimandro, in cui si afferma che tutte le cose provengono e ritornano all’apeiron, non si riferirebbe ad una concezione filosofica dell’Infinito, bensì ad una concezione di “appartenenza alla terra”, che si ritrova nel testo biblico: “polvere sei e polvere ritornerai”. Sulla base di tale interpretazione, Semerano rilegge, in chiave del tutto nuova e diversa, tutto lo sviluppo della filosofia precedente la sofistica, riconducendo la filosofia presocratica essenzialmente ad una fisica corpuscolare, che accomunerebbe, tra gli altri, Anassimandro, Talete e Democrito.
Incontro-dibattito promosso dal Centro Studi “F. Rossitto”
Italia: quale futuro oltre la crisi?
Gli eventi occorsi durante le ultime settimane hanno assunto proporzioni storiche e modificato gli scenari internazionali in maniera drastica. Una vera e propria tempesta si è abbattuta sui mercati finanziari globali. Mentre i governi nazionali sono impegnati a ricercare soluzioni coordinate e condivise per uscire dalla crisi, anche per il comparto euro aumentano le possibilità di entrare in uno scenario non roseo. Il sistema bancario europeo rimane sottoposto ad una pressione non indifferente, il che riflette – in ampia misura – il crollo della fiducia che ha procurato forti scossoni all’intero sistema finanziario, già fortemente minato da un panorama economico stagnante. In tale situazione il settore industriale inizia a percorrere un sentiero asperrimo, le condizioni del mercato immobiliare nei diversi Paesi dell’area stanno peggiorando, mentre il rallentamento della domanda estera sta inevitabilmente pesando sulle esportazioni. In particolare, le situazioni più critiche riguardano il mercato del lavoro e quello del credito. Le Borse presentano non poche difficoltà. La Confindustria invita a non farsi illusioni prevedendo che, nonostante gli effetti “salva-crisi” predisposti dagli Stati europei, per il prossimo anno le possibilità di ripresa sembrerebbero abbastanza lontane. La crisi economica sarà difficile da assorbire a seguito di accentuati “fenomeni di volatilità sui mercati”. Lo scenario, dal sapore apocalittico, apre tuttavia non pochi spazi di salubre riflessione su una serie di temi dati quasi per scontati, in particolare dopo la crisi del “socialismo reale”. Fino a qualche tempo fa, sarebbe stato, infatti, impensabile legare così fortemente morale e mercati come si sente frequentemente e con insistenza da più parti (vertici politici ed economici). Ricercare un percorso in cui, oltre ai “puri” termini economici, entrino in gioco variabili come l’etica e la solidarietà, “contaminazioni” queste che consentono di assumere, oltre agli “asettici” dati e bilanci, anche i problemi reali e quotidiani della gente, è certamente un risultato da non trascurare, nella speranza che questa tendenza si possa estendere toccando i comportamenti economici dei soggetti impegnati nel panorama economico. Su tale fronte un recente rapporto di Unioncamere, riguardante l’indice di crescita delle imprese nel 2007 in Sicilia, registra, per alcuni comuni, tra cui anche il capoluogo ibleo, un trend negativo relativamente al tasso di crescita delle imprese (indice dato dal rapporto tra iscrizioni e cessazioni delle imprese registrate nel periodo considerato). Altra problematica da evidenziare riguarda “i termini e la qualità della risposta politica alla crisi”.
Quali scelte per fare uscire l’Italia dalla crisi? A questo interrogativo hanno cercato di dare risposta i partecipanti all’incontro-dibattito promosso ed organizzato dal Centro Studi “F. Rossitto” di Ragusa per discutere, assieme agli esponenti del Centrosinistra, in ordine alle strategie da attuare per dare risposte tangibili ai tanti cittadini che in queste settimane protestano per la congiuntura non certo favorevole, mostrandosi contrari alle scelte del Governo nazionale. Per stimolare ancora di più il dibattito il Centro Studi ha ritenuto opportuno mettere a confronto variegati settori coinvolgendo non solo i rappresentanti del versante politico ma anche quelli del comparto economico, con l’intervento dei sindacati e dei rappresentanti degli enti economici e sociali. In particolare, per il comparto “istituzionale” ha relazionato l’avv. Angela Barone. Il “quadro economico-sociale” è stato affidato a Giovanni Avola (Segretario Provinciale CGIL), Gianfranco Motta (Presidente ASI) e Giuseppe Tumino (Presidente Camera di Commercio di Ragusa); mentre per il “quadro politico” sono intervenuti Giusepe Di Giacomo (Partito Democratico), Giovanni Iacono (Italia dei Valori), Gianni Battaglia (Sinistra Democratica), Natalino Amodeo (Partito Socialista), Marco Di Martino (Rifondazione Comunista), Carmelo Ruta (Comunisti Italiani) e Sergio Guastella (Movimento per la Città).
Si è trattato di un momento che non solo ha stimolato il confronto dialettico tra gli esponenti delle citate forze politiche e sociali, ma si è anche contraddistinto per la presenza di un numeroso ed attento pubblico che ha affollato la sala convegni del CNA di Ragusa, sede dell’ampio ed articolato dibattito.
L’ampiezza delle problematiche discettate ha così dilatato il numero di relazioni e di interventi da rendere necessario l’aggiornamento dell’assemblea per fine ottobre.
Giuseppe Nativo
NOVEMBRE 2008
Importante volume curato dall’Archivio di Stato di Ragusa
La storia della chiesa di S. Bartolomeo Apostolo di Giarratana
attraverso gli atti notarili
“Redemptoris nostri prius invocato suffragio cunctis evidenter pateat qualiter Angela filia legitima et naturalis quondam Pascalis et Margarite de Catinella et ad huc uxor Petri Antonii Carfi de hac terra Clarimontis ereditario nomine prefate quondam eius matris pretendit in ecclesia Sancti Bartolomei terre Iarratane…” (Arch. Stato di Ragusa - Sez. Modica, atti notarili, anno 1606, n. 23/6, cc.258r – 260v). Ciò è quanto si legge nell’atto rogato in notaio Florenzo Sgarlata di Chiaramonte con cui tale Angela Carfì fonda, il 9 febbraio 1606, un “beneficium sive ius patronatus” nella chiesa di S. Bartolomeo Apostolo di Giarratana (Rg) per la celebrazione di una messa il giovedì di ogni settimana in suffragio dell’anima della propria madre Margherita de Catinella. Si tratta di uno dei tanti vetusti carteggi che tracciano le vicende storiche dell’omonima chiesa. A proporre la trascrizione di alcuni documenti archivistici, con i relativi regesti, è Anna Maria Iozzia (Direttore dell’Archivio di Stato di Ragusa) coadiuvata, in tale delicato compito, da Liliana Scribano (instancabile archivista). Pretesto per tale interessante e preziosa opera documentaria è l’anniversario (136 anni) della dedicazione della chiesa di S. Bartolomeo, avvenuta il 29 settembre 1872, da parte dell’allora vescovo di Noto (fra Benedetto La Vecchia) poi vescovo di Siracusa, dove, in quel tempo, ricadeva la giurisdizione ecclesiastica della diocesi. L’iniziativa culturale, inserita nell’ambito delle “Giornate Europee del Patrimonio”, ha fornito un’occasione unica per poter ripercorrere la storia di questa chiesa nel periodo anteriore al devastante evento tellurico del 1693, che ha portato lutti e rovine in gran parte della Sicilia sud-orientale, attraverso la pubblicazione di materiale proveniente anche dall’archivio parrocchiale e raccolto nel volume dal titolo “Documenti per la storia della chiesa di S. Bartolomeo Apostolo di Giarratana nel ‘600” (prefazione di Carmelo Ferraro, testi di Fiorilla, Iozzia e Scribano). La pubblicazione è contraddistinta da una ricca bibliografia nonché da una nutrita “appendice documentaria” attraverso cui il lettore ha una visione d’insieme su determinate tematiche storiche che rappresentano un punto di partenza per ulteriori approfondimenti.
Le prime tracce della presenza della chiesa di S. Bartolomeo si fanno risalire agli inizi del XIV secolo. Dalla disamina delle “Rationes Decimarum” (documentazione contabile, presentata alla camera apostolica dai collettori diocesani, riguardante l’imposta straordinaria – detta comunemente “decima” dalla quota dell’esazione normalmente fissata – che ogni struttura chiesastica versava in quel tempo per i bisogni della Chiesa) risulta che nel “casale Cerratane”, oltre alla “ecclesia Sancti Nicolai” e quella di “Sancti Michaelis”, si trova anche la “ecclesia Sancti Bartholomei”. La presenza di chiese dedicate ai Santi Nicola, Michele e Bartolomeo fa pensare ad una cristianizzazione del territorio risalente al primo insediamento normanno (tra l’XI e XII secolo). Nella seconda metà del ‘400 Giarratana subisce un incremento demografico incentivato dall’insediarsi di nuovi gruppi di popolazione dopo le prime concessioni enfiteutiche. Lo sviluppo dell’abitato è confermato anche dalla presenza del terz’ordine francescano e relativo convento. Con il censimento del 1569 Giarratana risulta costituita da una popolazione di oltre duemila abitanti, mentre da un punto di vista militare risulta aggregata alla “sergenzia” di Scicli (struttura militare con il delicato compito di difendere il territorio afferente all’antica Contea di Modica), alla quale fornisce 2 cavalieri e ben 30 fanti, contribuendo al controllo dell’area iblea meridionale. In quel tempo la devozione a San Bartolomeo, pur collegata alla chiesa omonima, è trasferita nella chiesa di S. Antonio, ovvero in area urbana, dove è attestato un altare dedicato al Santo, mentre le reliquie sono accolte, agli inizi del ‘600, presso la chiesa madre in quanto la chiesa di S. Bartolomeo risulta ubicata in zona extraurbana e, dunque, esposta a molteplici pericoli. Negli anni successivi la chiesa di S. Bartolomeo non solo subisce una riedificazione, ma risulta collocata in zona urbana a seguito dell’ulteriore espansione dell’abitato. Dal 1670 la chiesa è parrocchiale e sacramentale. Le feste più importanti sono il Giovedì Santo, Pasqua di Resurrezione (con la processione del Cristo resuscitato, ripetuta il Lunedì dell’Angelo con l’intervento del clero e delle confraternite) e quella del Titolare, il 24 agosto. Quest’ultima ricorrenza è solennizzata con l’ottavario, con la fiera dei panni e del bestiame tenuta probabilmente nel così detto “u cianu a fera”. “Si tratta di un tassello della storia di Giarratana” – spiega la dott.ssa Iozzia – “su cui è necessario fare luce attraverso lo studio di variegati fonti archivistiche (atti notarili, archivio parrocchiale, etc.). Tali documenti vogliono essere, soprattutto, uno stimolo per una ricerca sistematica sulla storia della chiesa di S. Bartolomeo lungo tutto il ‘600; ricerca che potrebbe dare, tra l’altro, preziose ed ulteriori indicazioni sulla fabbrica della chiesa”.
“Processo e morte di Socrate” al Teatro Donnafugata di Ragusa Ibla
Lettura-spettacolo di Teatro Utopia per la regia di Giorgio Sparacino
Atene 399 a. C.
“… ora è tempo di andare, io a morire, voi a vivere. Chi di noi vada ad una sorte migliore, nessuno lo sa, tranne la divinità” (Platone, “Apologia di Socrate”).
Queste sono le ultime parole proferite da Socrate (470 – 399 a. C.), ateniese, legato profondamente a questa città tanto da rinunciare alla vita per rispettarne le leggi. Egli è uno dei più importanti esponenti della tradizione filosofica occidentale ed il primo filosofo che, dopo i giovanili interessi naturalistici, legati con molta probabilità al pensiero di Anassagora, abbandona questa sfera d’indagine distaccandosi dai filosofi precedenti e occupandosi di temi esclusivamente umani. Socrate si rivela un “osservatore degli uomini” ed un indagatore della loro “coscienza interiore”. Non si occupa mai a fondo di politica, se non in occasione di determinati incarichi pubblici di breve durata. Sebbene non abbia lasciato alcuno scritto, si è in grado di ricostruire il suo pensiero attraverso le opere dei suoi discepoli, tra cui spicca soprattutto Platone che condivide il pensiero del maestro a tal punto da risultare difficile distinguere il pensiero socratico da quello platonico. Sono soprattutto i primi “Dialoghi” di Platone che tratteggiano in maniera chiara alcuni tratti della figura di Socrate. Alcuni di questi “Dialoghi” sono strettamente legati agli ultimi mesi di vita del filosofo, quando nel 399 a. C. Socrate, ormai avanti negli anni, è trascinato in tribunale con l’accusa di corrompere i giovani, di non riconoscere gli dèi della città e di compiere ricerche sulla natura dagli esiti empi. L’accusa è mossa da alcuni cittadini di parte democratica contrapposta a quella aristocratica (da cui provengono molti allievi di Socrate), che è legata a vicende dolorose occorse negli ultimi tempi della Guerra del Peloponneso. E’ in questo contesto che si muove l’intero intreccio scenico proposto dalla compagnia “Teatro Utopia” di Ragusa, in sinergica cooperazione con il Centro Studi “F. Rossitto”, la Federazione Italiana Teatro Amatori e la Regione Siciliana (Ass.to BB.CC.AA. e P.I.). Nato nel 2002, il “Teatro Utopia” raccoglie l’esperienza di formazioni precedenti legate al nome dell’attore e regista teatrale Giorgio Sparacino, figlio degli iblei, con alle spalle la messa in scena di oltre 60 opere negli ultimi 40 anni. Anche quest’anno il “Teatro Utopia” offre al grande pubblico diverse occasioni per potere apprezzare spettacoli teatrali di grande impegno. Nell’ambito del ricco programma 2008/2009, la stagione teatrale è iniziata con il “Processo e morte di Socrate” (da Platone) messo in scena nella splendida cornice del Teatro Donnafugata di Ragusa Ibla. Il cast degli attori (Pippo Antoci, Mario Dipasquale, Carmelo Gugliotta e Lorenzo Maria Zarino), per la regia di Giorgio Sparacino, hanno saputo rendere la serata interessante non solo da un punto di vista teatrale ma anche da quello culturale.
L’allestimento propone un Socrate (Giorgio Sparacino) curioso verso la vita e verso la morte allo stesso modo. Un uomo di cui si sente la necessità di avere ancora oggi: distaccato dai beni materiali e da tutto ciò che è potere. Per lui il pensiero è un libero movimento che si articola sulle parole spezzando ogni convenzione, ogni luogo comune, per librarsi verso orizzonti più alti. Socrate, in realtà non cerca mai la lotta con le istituzioni. E’ il suo essere filosofo che lo conduce fatalmente ad urtarsi con queste. E’ un personaggio che si rivela scomodo perché trasforma le piume dei cuscini degli ateniesi in chiodi. Così si decide di eliminarlo. E lui non combatte ma argomenta. “Cos’abbiate provato voi Ateniesi alle asserzioni dei miei accusatori, io non so dire. E’ vero che anch’io sotto la spinta del loro argomentare giunsi a dubitare di me stesso”. Proprio Socrate, l’accusato, l’unico protagonista fra tante mezze figure, spezza la tensione, grazie all’ironia che lo contraddistingue. Ancora oggi si resta quasi ammaliati dalla straordinaria umanità di questo genio del pensiero.
La Redazione di “Insieme” ha intrattenuto una piacevole conversazione con l’attore e regista Giorgio Sparacino.
Perché Socrate?
Socrate è il filosofo che, messo a morte per le sue idee da un tribunale della “democratica” Atene, smaschera, con l’uso controcorrente della parola e con il suo dialogo instancabile, il conformismo del “consenso”.
Qual’è il messaggio del “Processo e morte di Socrate”?
Si tratta di una lettura-spettacolo che vuole presentare al pubblico del terzo millennio il pensiero di uno fra i più grandi filosofi dell’antichità e di tutti i tempi; un pensiero di sconvolgente attualità, che affronta e dà risposte alle eterne domande che l’uomo si pone e che è giunto fino a noi grazie ai “Dialoghi” di Platone, che di Socrate fu anche eccellente discepolo.
Qual è il contenuto dei “Dialoghi” di Platone?
Lo spettacolo vive del contenuto di tre fondamentali dialoghi: l’Apologia, il Critone e il Fedone. L’Apologia è il monologo-testamento di Socrate davanti alla giuria ateniese: la difesa ironica di un condannato a morte che argomenta con lucido rigore le sue scelte. Il Critone ci mostra Socrate in carcere, in attesa dell’esecuzione, alla quale non intende sottrarsi perché l’uomo – egli afferma – deve rispettare sempre le leggi dello stato e perché i principi etici ai quali da sempre egli ha obbedito non gli consentono di reagire ad una ingiustizia con un’altra ingiustizia. Il Fedone contiene, infine, l’affermazione di Socrate della sua unica certezza, l’eternità dell’anima, di cui egli discute con i discepoli, e che lo solleva dall’angoscia della morte imminente.
Tre opere che non finiscono di stupire, per l’attualità dei temi trattati e per la modernità di un linguaggio sapientemente teatrale che la sagace regia di Giorgio Sparacino ha saputo esprimere al meglio.
“Notte bianca” all’Archivio di Stato di Ragusa
Una “Notte Bianca”, è il caso di dirlo, all’Archivio di Stato di Ragusa. La serata, inserita nell’ambito di quella comunale, ha contribuito a rendere la nota iniziativa iblea - giunta alla seconda edizione, promossa ed organizzata dal Comune di Ragusa in collaborazione con l’Assessorato Provinciale allo Spettacolo e tanti partner privati – ancora più interessante da un punto di vista culturale e storico. Tra le tante attrattive itineranti che hanno coinvolto il centro cittadino, quella dell’Archivio di Stato rappresenta un contributo documentario di rilievo in quanto va a ripercorrere gli avvenimenti più importanti della città di Ragusa a partire dal 1927, anno della sua elevazione a capoluogo di provincia, rivisitando, cronologicamente, le vicende sociali, politiche, culturali ed urbanistiche di quel tempo attraverso l’esposizione documentaria dal titolo “Ragusa attraverso le immagini d’archivio”.
Una passeggiata d’altri tempi, nel corso del Novecento, attraverso i ricordi e le foto. Il percorso documentario, suddiviso in settori tematici, è costituito da stampe, documenti ma anche da una cospicua raccolta di foto d’epoca che ritraggono vari punti urbani e paesaggistici del capoluogo ibleo. La pellicola del tempo - con il suo susseguirsi di foto e didascalie, quasi a scandire i periodi storici come preziosi fotogrammi che conducono per mano il visitatore in un eterno presente - viene virtualmente rallentata, attraverso pannelli esplicativi ricchi di didascalie, per consentire di visionare immagini ormai dimenticate dai più ma ancora vive nel cuore di ognuno.
Ricordi, storia e poesia di immagini riaffiorano dirompenti per confermare quanto semplice e pittoresca sia Ragusa in ogni suo angolo e in ogni suo aspetto. Dai primi decenni del XX secolo ai tempi relativamente recenti, si ha la possibilità di gustare il sapore del passato rispolverato da quella patina grigia che è la memoria.
Il momento più significativo per la storia della città di Ragusa giunge con il regio decreto legge n. 1 che, datato 2 gennaio 1927 ed entrato in vigore il successivo 12 gennaio, istituisce “la provincia di Ragusa con capoluogo Ragusa, comprendente i comuni dei circondari di Ragusa e di Modica” disponendo altresì che “Il Comune di Ragusa Ibla” venga unito a quello di Ragusa. Una fervida politica di lavori pubblici crea in molti comuni dell’area iblea, in particolare a Ragusa, che necessita di nuove ed adeguate strutture, una “attività feconda […] confortata dalla volontà ricostruttrice del Governo” intesa come “… fonte di nuovo maggiore benessere …” (stralcio manifesto, a firma del Prefetto di Ragusa, G. De Blasio, diffuso in data 11/12/1926; Arch. Stato Rg, Fondo Prefettura). Installazioni pubbliche, strutture sanitarie ed edifici per le scuole (quale la costruzione dell’edificio scolastico di Via Ecce Homo ang. Via Matteotti, il cui impianto porta la data del 22 luglio 1930, su progetto dell’architetto Ugo Tarchi; Arch. Stato Rg, Fondo Prefettura, b. 1123) sono ben rappresentati attraverso progetti tecnici d’epoca. Momenti di aggregazione sociale evidenziano un periodo gravido di aspettative sia sul piano politico che sociale (come rivela la foto, datata 30 aprile 1930, relativa al “Convegno provinciale degli insegnanti delle scuole rurali dell’O.N.B.”; Arch. Stato Rg, Fondo Prefettura, b. 2517). Tutto ciò, negli anni successivi, porta un forte rilancio anche da un punto di vista industriale con l’impianto di due cementifici e lo sfruttamento del giacimento petrolifero scoperto a Ragusa nei primi anni Cinquanta. Emblematica, a tale proposito, si rivela la foto (tratta dalla rivista “Scalo Sud”, 1953, Catania), recante la data 1953, che ritrae Piazza San Giovanni gremita di persone all’indomani della scoperta del petrolio a Ragusa (Arch. Stato Rg, Fondo Prefettura, b. 2505).
Interessante, infine, il settore riguardante le cartoline d’epoca, che coprono un periodo di non pochi decenni, da cui si riscopre non solo il gusto dell’immagine ma anche dei messaggi augurali come quello diramato, a fine anno del 1954 (Natale 1954 – Capodanno 1955), dall’Amministrazione Comunale in occasione del ritrovamento ed utilizzo del petrolio dal sottosuolo ragusano: “Non fumo di rovine, di odio o di guerra: ma fumo di operoso e costruttivo lavoro, di fiamme d’amore che avviluppino il mondo. E la ricchezza sia mezzo di rinascita e di progresso, non di sordo rancore e di distruzione!”.
A Ragusa Ibla esercitazioni di Protezione Civile
Emergenza sismica: prove tecniche di simulazione
Il CSVE (Centro Servizi Volontariato Etneo) di Catania, nell’ambito dell’impegno profuso nel suo ruolo sociale, rafforza la sua presenza nel territorio della Sicilia sud-orientale attraverso iniziative che coinvolgono i distretti di volontariato “nei percorsi di sostegno allo sviluppo associativo” e non solo. L’articolata attività del CSVE è svolta anche attraverso le non poche ore dedicate “alla formazione, alle azioni di promozione alla solidarietà (soprattutto nelle scuole), alle azioni itineranti e alle occasioni di consulenza che giornalmente sono offerte, senza discriminazione alcuna, alle numerose realtà di volontariato”. Ciò è quanto sostenuto con forza dal presidente del CSVE in ordine alla programmazione autunnale dedicata alle prove di Protezione Civile nelle quattro province di competenza territoriale del Centro stesso. Si prospetta, dunque, una stagione densa di esercitazioni volte a simulare emergenze che potrebbero coinvolgere la popolazione di una determinata area. In sinergia con il Dipartimento Regionale, le associazioni di protezione civile unitamente alle Istituzioni locali dei Comuni interessati, il CSVE ha organizzato esercitazioni di protezione civile con la collaborazione dei volontari delle province di Catania, Enna, Ragusa e Siracusa. Scenario previsto per le simulazioni è il rischio idrogeologico e incendio e, non ultimo, quello sismico a cui, specie in territorio ibleo, è posta la massima attenzione da parte degli Organi istituzionali. L’esercitazione ha recentemente interessato Ragusa Ibla con l’impiego di numerosi volontari che hanno simulato un’emergenza sismica. Si è trattato di tre giorni (24, 25 e 26 ottobre scorso) di prove tecniche di evacuazione svoltesi con la dovuta competenza e seguendo un programma articolato, “Ibla 2008”, che ha tenuto impegnati centocinquanta volontari della Protezione Civile appartenenti a diciotto associazioni di volontariato, 12 medici, 16 infermieri, sei tra autisti di ambulanze ed ausiliari oltre ad un elicottero della Protezione Civile unitamente ad alcune decine di mezzi tra autovetture ed ambulanze. Le attività hanno riguardato un istituto scolastico di Ragua Ibla ed un Centro per anziani. Al piano evacuativo è subentrato il piano di intervento sanitario (simulazioni riguardanti le prime prestazioni mediche per i feriti) grazie al campo di pronto soccorso prontamente predisposto.
Nel corso degli interventi simulati sono state esaminate eventuali problematiche connesse con l’emergenza (salvataggio feriti; ricerca dispersi), avendo modo di testare lo stato di preparazione nonché la capacità di risposta delle strutture locali di volontariato in un intervento considerato di tipo “A”, su un territorio diversificato e sotto il comando diretto dell’Autorità locale di Protezione Civile.
La terza giornata si è conclusa con la celebrazione della Santa Messa presso il Centro Operativo Comunale di via Aldo Moro alla quale hanno partecipato i protagonisti di “Ibla 2008”.
Giuseppe Nativo
DICEMBRE 2008
La “Ragusa Festosa” di Vincenzo Giompaolo
Festa, tradizione popolare e folklore hanno un comune denominatore ovvero quello di dare, comunicare, consegnare agli altri un qualcosa di intimo. Sono cioè forieri di un “tradere”, di una tradizione, appunto, di un sapere che è trasmesso di generazione in generazione. La festa, momento di aggregazione collettiva, può essere considerata come un microcosmo complesso in cui viene a convergere, contemporaneamente, tutto e il contrario di tutto: manifestazioni gioiose e, a tratti, sfrenate; la seria compunzione delle processioni che si contrappone alla dimensione ludica delle gare di abilità (ancora in vita, soprattutto, nei piccoli centri abitati); il silenzioso lavoro di preparazione e l’accanito fragore del trattenimento pirotecnico. Sono questi i principi fondamentali su cui ruota l’ultimo volume di Vincenzo Giompaolo, “Ragusa Festosa” (Associazione Culturale “Sicily is one”, Utopia Edizioni, pp. 168), in cui sono racchiuse un centinaio di immagini dal sapore popolare e genuino. Studioso di etnografia e tradizioni popolari siciliane, ha raccolto, nella sua ultra trentennale attività, un cospicuo numero di stampe grazie alla sua inseparabile macchina fotografica. Giunto ormai alla sua ennesima pubblicazione, Giompaolo ha voluto raccogliere in questo libro le foto più significative riguardanti le feste popolari del capoluogo ibleo e suo territorio accompagnandole con un breve testo descrittivo.
Vuole spiegare che cos’è la festa per Lei? “La festa” – puntualizza l’Autore, che è anche uno psicologo, facendo sue delle riflessioni rivenienti dagli studi froidiani che mettono a nudo gli aspetti “trasgressivi” della festa – “è un eccesso permesso, anzi offerto, l’infrazione solenne di un divieto. L’eccesso è nella natura stessa della festa, l’umore festoso è provocato dal fatto di considerare libero ciò che altrimenti è proibito”. E’ in questo universo che Giompaolo vuole scrutare ed indagare, attraverso il suo click fotografico che cerca di ispezionare nell’intimo del momento festivo. E’ un viaggio fotografico gravido di umori, nella loro apparente contraddizione, che lascia un solco profondo nel lettore catapultato in una dimensione sacrale oggigiorno tralasciata per quella quotidiana e frenetica angoscia urbana che attanaglia gli animi delle nuove generazioni. “La festa” – spiega l’Autore, sfogliando un grosso album contenente centinaia di foto scattate sin dal 1970 – “raggiunge il suo senso più pieno non quando viene letta nei suoi significati mitici, bensì quando la sua dimensione sacrale è intesa come complementare al profano”. Nelle manifestazioni festive talora non si distingue o comunque non è marcata in maniera netta la separazione tra tempo sacro e tempo profano”. La dialettica fra le due forme del tempo assume senso e funzione solo in relazione a concrete esperienze della comunità intorno alla natura e al lavoro. Lo si può notare, ad esempio, nella ricorrenza di “Santu Spriuni” (San Spiridione di Trimithonte), vescovo e martire del III° secolo, la cui devozione è ancora molto forte e che vede numerosissimi fedeli recarsi al Santuario del Carmine di Ragusa, il 14 dicembre, per rendere omaggio al Santo, noto per le sue qualità taumaturgiche. E’ conosciuto per i miracoli operati grazie all’unzione dell’olio. Un tempo, presso l’altare del Santo, erano collocati dei recipienti dove i fedeli versavano dell’olio in dono, allo scopo di mantenere sempre accese le lampade votive. Si ricorre al Santo anche per ottenere serenità interiore mediante la lettura del prologo del Vangelo di San Giovanni. Inoltre, tale ricorrenza, per la cultura contadina, rappresenta un momento di rilevante importanza poiché hanno inizio i cosiddetti “cariennili”: cioè quei dodici giorni che precedono la notte di Natale, ciascuno rappresentante un mese del futuro anno, nel corso dei quali il succedersi delle relative condizioni climatiche costituiscono un valido supporto per le previsioni meteorologiche riguardanti la successiva annata agraria. Sempre il 14 dicembre (ovvero all’indomani di Santa Lucia) la “massara” mette a “nnùciri i luppini” (addolcire i lupini), di produzione propria o acquistati, da gustare, come fine cena, il giorno di Natale. Si tratta, dunque, di un continuo intreccio tra sacro e profano condito con l’immediato e genuino fervore popolare miscelato, talvolta, da musica, balli e preghiere come quelli che contraddistinguono la festa di Santa Rosalia le cui celebrazioni (la prima domenica di settembre), caratterizzate da un’accorata processione lungo caratteristici viottoli e stradine di campagna, hanno un sapore agreste in quanto ruotano attorno all’omonimo piccolo santuario rurale, ai confini comunali, accanto ad un’angusta e quasi inaccessibile grotta, segno atavico di un leggendario passaggio della “Santuzza”.
Quel viaggio verso l’isola sconosciuta chiamata Sicilia
“Dall’Atlante agli Appennini”, Maria Attanasio rivisita il racconto di De Amicis
“La testa di Youssef ciondola sulla spalla di Sidi Habibi seguendo l’oscillazione sempre più forte del peschereccio… un continuo dondolio di teste e gambe tra improvvisi sobbalzi… un sonno a brandelli…”.
Non sarà stato tanto facile per il piccolo Youssef intraprendere un viaggio molto pericoloso e difficile per la sua età. Youssef non fa certo parte di quel mondo cellofanato delle merendine o delle scarpette griffate cui si sofferma spesso la comunicazione per l’infanzia. Fa parte di un altro universo, quello di chi si deve guadagnare la vita con fatica e dolore e, quotidianamente, prova sulla propria pelle la carezza del freddo pungente, il selciato sotto la schiena, l’umidità, l’incertezza che piova da un momento all’altro, la paura di svegliarsi derubato. Quello di Youssef è quasi un mondo a parte, quello degli immigrati, che ruota attorno a quelle persone molto spesso emarginate da una società ricca di valori vuoti nella loro intima essenza. Un mondo che per raggiungerlo e toccare con mano è necessario attraversare il “mare aperto” di un “blu senza scampo” “che a poco a poco si fa nero”. Un mare notturno dove l’orizzonte è dipinto nel cuore di Youssef, giovane marocchino alla ricerca della propria mamma di cui da troppo tempo non ha notizie. Di qui la ferma decisione di intraprendere il viaggio verso quell’isola sconosciuta chiamata Sicilia. E’ attorno a Youssef che ruota l’intero intreccio narrativo proposto dalla scrittrice calatina Maria Attanasio nella sua recente fatica letteraria dal titolo “Dall’Atlante agli Appennini” (Orecchio Acerbo Ediz., 2008, pp. 112). Si tratta di un racconto bello, coraggioso, gravido di tante domande che portano, inevitabilmente, a tante riflessioni, ma anche un’occasione di rilettura e rivisitazione, in chiave moderna, di alcune delle pagine più amare di De Amicis – a cento anni dalla sua scomparsa – “Dagli Appennini alle Ande”, uno dei più celebri “racconti mensili” incastonati nel volume che ha rappresentato il “diario scolastico” di una nazione, il libro “Cuore”. Nella scrittura dell’Autrice si rileva l’impegno civile, la cocente rabbia davanti all’ingiustizia, ma soprattutto emerge dirompente la capacità di descrivere, raccontare, di rendere tangibile, il problema epocale delle migrazioni, i drammi che ne scaturiscono, lo strappo violento dalla propria cultura, famiglie smembrate, spesso alla deriva, alla ricerca di una terra tanto lontana e diversa dal suolo natio. Ma se titolo, trama, personaggi, presentano un richiamo esplicito all’epopea ottocentesca del piccolo Marco di deamicisiana memoria, “Dall’Atlante agli Appennini” è un tuffo spregiudicato e disinibito nella contemporaneità. Il penultimo racconto mensile del “Cuore” racconta l’odissea di Marco, “un ragazzo genovese di tredici anni, figliuolo d’un operaio” che parte da solo per l’Argentina alla ricerca della madre, domestica presso una ricca famiglia del posto, di cui non si hanno notizie da molti mesi. Maria Attanasio, che, magistralmente, ha sempre coniugato l’invenzione narrativa alla ricerca storica (“Correva l’anno 1698 e nella città avvenne un fatto memorabile” 1994; “Di Concetta e le sue donne”, 1999; “Il falsario di Caltagirone”, 2007), va dritta al cuore del dramma dei clandestini - partiti mille volte per sfuggire alla miseria e alla malasorte della loro anima peregrina – attualizzando la problematica della ricerca disperata e dell’esodo forzato mettendo al posto del ragazzino ligure un suo coetaneo marocchino nell’era “apocalittica della globalizzazione”, della tragica erranza degli ultimi verso mete che molto spesso si rivelano pure illusioni. Così “Marco è diventato Youssef, il suo paese non è ai piedi dell’Appennino ma dell’Atlante marocchino, l’Eldorado non si chiama Argentina ma Italia”. Youssef, dopo un fallito tentativo di raggiungere l’Italia dalla Spagna, si imbarca in Libia su una sorta di traghetto della vita e della morte, che è insieme arca di Noè e vascello di Caronte. La partenza si rivela subito una tragedia per alcuni che restano travolti dalla massa incontrollabile dei clandestini in cerca di un posto. Giunto in Sicilia, quasi come un naufrago privo di identità, Youssef perde il suo nome diventando Giuseppe, “nome che risolutamente rifiuta, rivendicando per sé quello di Marco, come il protagonista di una fiction italiana per ragazzi che aveva visto alla televisione”. Conoscerà lo sfruttamento disumano nelle serre di Vittoria, lo spaccio della droga, la paura costante della polizia, la perdita di se stesso, la coscienza lacerata di ogni migrante. Nel suo lungo peregrinare per la Penisola, nel desiderio irrefrenabile di ricongiungere il suo cuore a quello della propria madre, Youssef incontra tanti suoi “paesani”. Pagine disperate il cui grido di accoglienza, di giustizia sociale, bussa al cuore del lettore che è condotto in full immersion nel contesto della narrazione per la quale l’Autrice sente l’esigenza dirompente di raccontare non “una” storia, ma “la” storia che viene proposta “per conforto di speranza; di giustizia realizzata. Che non c’è, ma ci può essere. Perché nel racconto anche la vita che non è, prende la parola e si fa vita”.
E di ciò si è fatta interprete Maria Attanasio con il suo “cunto” inframmezzato di immagini, sorta di flash gravidi di laceranti pensieri disegnati, che scandiscono il testo e che fanno breccia nell’animo del lettore attraverso la tecnica a carboncino del disegnatore Francesco Chiacchio.
“Ludens”: centro gravitazionale ibleo di danza e sport
Festeggiati i 25 anni di attività della professoressa Claudia Gafà
“Claudia ti vogliamo tutti bene. Ti preghiamo di stare sempre con noi!”. Questo l’accorato incipit con cui ha esordito una degli ospiti dell’Associazione “Alba Chiara” di Ragusa, struttura che promuove la socializzazione ed integrazione dei diversamente abili, in occasione del 25° anniversario di attività della professoressa Claudia Gafà. Un gesto gravido di affetto per ringraziare la loro prof con la quale hanno concluso a pieni voti un laboratorio di teatro-danza. Una serata di festeggiamenti per fare il punto della situazione su un’attività multidisciplinare (sport, recitazione, teatro-danza) che, per le sue peculiarità, si presenta come una delle poche realtà esistenti in Sicilia. Si tratta del “Centro Ludens” che da diversi lustri opera nel capoluogo ragusano grazie all’impegno profuso da Claudia Gafà, già docente di attività motoria presso scuole medie superiori, unitamente ai suoi collaboratori. L’impianto, immerso nel verde ibleo dove l’occhio si posa sulle chiome di vetusti alberi saraceni, è dotato di variegate attrezzature, per svolgere molteplici attività fisiche, nonché di un idoneo spazio che funge da laboratorio teatrale, fucina di tanti giovani talenti che, provenienti anche da fuori provincia, gravitano intorno al Centro. “Ci siamo rifugiati in questo verde” – spiega la professoressa Gafà, commossa per la presenza di tanto pubblico – “non solo per ottenere una buona ossigenazione in relazione all’attività fisica svolta, ma anche per cercare di costruire, attraverso la collaborazione di tutti, un mondo ricco di amicizia, simpatia e stima per gli altri. Il mio lavoro, che prendo un po’ come divertimento, è associato sempre al senso di responsabilità con il quale si accompagna ogni azione didattica. Quest’ultima è rivolta al movimento, all’espressività del corpo che diventa parola e, nel contempo, recitazione, interpretazione, creatività e spontaneità. E’ attraverso l’attività fisica che si veicolano valori importanti che, specie in età evolutiva, sono determinanti per la formazione della personalità… Venticinque anni di attività rappresentano un bel po’ di anni che però, se vissuti intensamente, con trasporto e sempre rinnovata linfa vitale, possono rappresentare un punto di partenza”.
La prima parte della serata è stata dedicata alle problematiche che ruotano attorno al benessere, sport e movimento attraverso la conversazione medico-scientifica affidata al dott. Gaetano Iachelli, esperto di Medicina dello Sport presso ASL 7 Ragusa. Tema principe dell’interessante conversazione - seguita da un folto ed attento pubblico, presenti, tra gli altri, il Presidente dell’Amministrazione Provinciale (ing. Franco Antoci) ed il Manager ASL di Ragusa (dott. Fulvio Manno) - è stato il “Movimento è farmaco”. Il farmaco è una sostanza dotata di attività terapeutica e la sua azione è affidata al suo ingresso nel torrente circolatorio da cui raggiunge i diversi distretti dell’organismo. La possibilità di legarsi ai diversi substrati e tessuti è dovuta alle sue caratteristiche fisico-chimiche la cui azione può talora presentare effetti secondari o collaterali indesiderati. Il farmaco per eccellenza che riesce a far raggiungere il giusto equilibrio al corpo e prevenire particolari patologie (quali, ad esempio, i disturbi cardiovascolari) è, innanzi tutto, il movimento e, dunque, l’attività fisica attraverso la pratica di attività sportive. La medicina riconosce, senza ombra di dubbio, che l’attività fisica svolge un ruolo importante nel garantire una buona salute. Ciò dipende sostanzialmente dal fatto che una vita fisicamente attiva stimola modificazioni e adattamenti organici che risultano positivi dal punto di vista della funzionalità di organi ed apparati. Altro aspetto di rilievo è che questi adattamenti sono abbastanza stabili nel tempo contribuendo anche ad una buona efficienza del sistema cardiovascolare e muscolare. Sport ed attività fisica, dunque, nella maggior parte dei casi, vanno a braccetto con il corpo che deve essere tenuto in perfetta forma con un idoneo apporto alimentare (giusto apporto energetico correlato all’attività fisica svolta).
La seconda parte della serata, prima del taglio finale della torta celebrativa, è stata dedicata alla proiezione di un filmato di pochi minuti attraverso cui è stata sintetizzata l’intera attività del “Centro Ludens” il cui cuore continuerà ancora a pulsare per l’intera collettività ragusana.
Quel presepe di una volta…
Superato il cosiddetto periodo dei “morti” ci si preparava a superare quel “periodo di mezzo”, antecedente a quello pre-natalizio, introdotto dal “novenario” dell’Immacolata. Era il periodo più bello in quanto si era catapultati, con la sana ed ingenua dolcezza di una volta, in un’atmosfera festiva il cui prologo era la consueta preparazione del presepe. Era come pianificare un’opera d’arte. Dal muschio ai ruscelli, dalle montagne agli sterrati e tortuosi sentieri, dalle capanne e botteghe alle statuette da disporre in modo spontaneo ma nella giusta postazione in base alle attività professionali rappresentate, non sempre fedeli ai luoghi e al tempo che vedevano la nascita di Gesù. Tutto doveva avere un ordine quasi pre-costituito. Gli ultimi ritocchi erano fatti sistemando le luci intermittenti in modo tale da far entrare ciascuna “lucetta” in ogni casupola o grotta. I pastori, rappresentanti del ceto più semplice nonché destinatari privilegiati della buona novella, erano i protagonisti assoluti dopo, naturalmente, la “sacra famiglia” collocata, per consuetudine, in compagnia del bue e l’asinello. A cornice di tale impianto scenico – studiato fin nei minimi particolari dalla nonna unitamente alla sorella, in genere zitella – erano talora posti, quasi a delimitare i confini della zona presepe, un cospicuo numero di cioccolatini dalle variegate forme, colori e sapori. L’apertura iniziale della scatola contenente i pezzi da disporre costituiva quasi un piacevole rito a cui nessuno della famiglia si sottraeva per la possibilità non solo di carpire i segreti della preparazione ma anche per dare eventuali suggerimenti e/o diventare promotore per l’acquisto di nuovi “personaggi”. Tutto si svolgeva con i tempi dovuti e necessari per la messa in opera di tutti i pezzi. Non potevano mancare “u ricuttaru”, “u furnaru”, “u cacciaturi” (il rivenditore di ricotta; il fornaio; il cacciatore). Ma anche pastorelli identificabili per l’atteggiamento: “u spavintatu” (chi prova spavento), l’arrotino, il barbiere e colui il quale ripara i piatti rotti. Un mondo a sé, ricreato in spazi angusti o che poteva occupare intere stanze della casa. Oggi di quel mondo è rimasto poco. Eppure resiste la tradizione dei presepi, in particolare laddove è forte il legame con le tradizioni. Quanto tempo è trascorso da quel Santo Natale del 1223 quando a Greccio il nostro Francesco mirabilmente riesce a rappresentare la nascita di Cristo a Betlemme dando origine all’iniziativa del presepio, tradizione natalizia che ha varcato i secoli. Il fascino però rimane, specie per quelle generazioni la cui adolescenza è vissuta tra gli anni ’40 e ’70 del secolo appena trascorso.
Entrare nel presepe. Chi non l’ha sognato, da bambino, guardando le statuine collocate in un presente senza tempo? Ma se davvero si potesse mettere il naso in quell’atmosfera di “fiaba”, ma anche “barocca” specie per i presepi iblei, quale personaggio si vorrebbe impersonare? Per cercare di rispondere a queste domande è stato interpellato un piccolo campione di popolazione ragusana con cui la Redazione ha intrattenuto una piacevole conversazione. Sette persone (un pittore, un attore e regista, una giovane giornalista, un medico-anestesista, una bancaria, un generale in pensione ed uno psichiatra) oggi tutte già affermate nel proprio ruolo professionale inserito in una società che si ritiene “globalizzata” ma che ancora è sensibile alla tradizione del Santo Natale, perno della Chiesa cattolica.
Per Danilo, attore e regista (vive tra Ragusa, Scicli ed il resto del mondo), non vi sono dubbi: “mi piacerebbe essere uno studioso del firmamento. Mi piacerebbe viaggiare per anni, partire magari dalla Persia e ritrovarmi al momento giusto nel posto giusto, come la leggenda ci fa credere. E poi ancora ripartire, senza meta, verso l’ignoto. Vorrei essere Gaspare, uno dei Re Magi, con gli occhi estasiati dalla visione della cometa e le mani colme del dono più prezioso”. Anche Rino, psichiatra, pensa di essere uno dei Magi perché “i Magi suggeriscono l’idea che ci sono modi per affrontare la vita più magici e meno canonici, qualcosa che nella nostra cultura, oramai troppo razionale, abbiamo perso”. Opterebbe invece per uno degli angeli, Valeria, giovane giornalista, perché dice: “l’angelo è colui che annuncia a tutti la nascita del re dei re, trasmettendo ai pastori l’evento più importante di tutti i tempi. Per un giornalista uno scoop del genere sarebbe veramente ‘angelico’! Da piccolina, inoltre, nelle recite a scuola ho sempre interpretato, corredata di ali, questo ‘essere’ che comunica, che racconta, che annuncia”. Per Salvo, medico-anestesista presso un nosocomio ibleo, la risposta si presenta articolata in quanto: “la stessa domanda posta all’età dei miei 5-6 anni avrebbe avuto una risposta certa: il fornaio o il pastorello. Allora gli incanti dinanzi al Presepe erano puri, senza le ansie di un mondo e di un vivere civile che tale più non è. Era lo sguardo di un bimbo che si incantava coi fiocchi di cotone che pareva neve e col muschio vero raccolto nel cortile sotto casa. Paperette di gesso galleggiavano su stagnole e di gesso erano tutti i figuranti. Allora credevo in quell’Umanità pulita e muta. Oggi continuo ad illudermi che ci sia ancora. Ed allora tra quest’Umanità ‘caina’ e gli ‘agnelli sacrificali’ scelgo questi ultimi. Vorrei essere una delle pecorelle sparse per i monti ed i pascoli della scenografia Francescana. Quelle pecorelle che Gesù Misericordioso cerca, trova e salva. Una pecorella innocente che somigli a quel bimbo coi calzoni corti e le gambe secche secche che tratteneva il fiato davanti alla neve del Presepe pensando fosse vera. Anche un sospiro poteva rompere l’incanto di quella notte Santa a Beth-el-hem”. Anche per Natale F., integerrimo generale in pensione ma dalla verve ancora giovanile, una riflessione è d’obbligo: “nelle sere del periodo natalizio, mentre guardavo il Santo Presepe realizzato con le mie mani per mio figlio, accartocciando e piegando cartoni a forma di grotta e di monti e disponendo muschio vero a prati immaginari e uno specchio a laghetto improvvisato, da militare quale sono mi sovveniva che se fosse stato possibile entrare a farvi parte avrei voluto essere io quel pastore con al collo la più giovane delle sue pecorelle, per guidare tutto il mio gregge ad adorare e glorificare il Signore”.
A ciascuno il suo. Per fortuna i personaggi sono tantissimi, anzi ogni Santo Natale che passa diventano sempre più numerosi, forse per l’intrinseca natura ricettiva del presepe capace di accogliere tradizioni diverse e metterle al riparo nel chiuso della grotta, dove la vergine Maria ha appena partorito il suo Bambinello. In questa scena si sente molto vicina Paola, bancaria, palazzolese di nascita ma ragusana di adozione, a cui sembra di sentire delle voci concitate provenire proprio dalla grotta: “…‘forza, spingi che sta per nascere, vedo già la testa…fai un ultimo sforzo…’, e mentre da lontano si ode, dal celeste coro angelico, ‘Pace in terra agli uomini di buona volontà’, la moglie esperta di un pastore, improvvisatasi ostetrica, taglia il cordone ombelicale. Il Cielo è separato dalla terra. Dopo solo 33 anni si sarebbe ricucito. Avrei voluto essere io quella ostetrica che, felice, alza al cielo quel bel bimbo Divino”. La risposta fornita da Franco, maestro delle arti figurative ed affermato pittore in campo nazionale ed internazionale, offre una riflessione che riecheggia alta nel cielo attraverso un accorato grido di speranza: “vorrei essere un uomo capace di dialogare con il vento, con il cielo e le stelle e il mare. Vorrei da loro una risposta del perché dopo duemila anni, nessuno fermi i nuovi Erode e la loro inaudita ferocia, come accadde nella tormentata terra di Palestina al nascere di Gesù. Vorrei che dal trono di Pietro si levasse ancora più forte il grido di condanna verso chi con le armi uccide la vita. Vorrei che il Dio che vive anche nel cuore arido dell’uomo impedisse a ogni essere umano di uccidere la speranza”.
Giuseppe Nativo