Curativi i Doni dei “Magi”? (Dialogo: Gennaio 2004)
La Comunicazione visiva nel Medioevo (La Pagina 12/01/2004)
Ritagli carnevaleschi d’altri tempi (La Pagina 28/01/2004)
Mal caduco: l’esperienza magica della malattia (Dialogo: Febbraio 2004)
Pulpitum in Ecclesia (La Pagina 12/02/2004)
L’aquila: simbolo ecclesiale (La Pagina 28/02/2004)
Un incidente di percorso (Dialogo: Marzo 2004)
La sedia: piccolo trono (La Pagina 12/03/2004)
Antichi presagi nella Contea di Modica (Dialogo: Aprile 2004)
L’arte grafica di Nisveta: sculture di immagini (La Pagina 13/04/2004)
La Tovaglia nella Storia (La Pagina 13/04/2004)
Spigolature d’altri tempi (La Pagina 28/04/2004)
Tempus irreparabile fugit (Dialogo: Maggio 2004)
Lapsus calami (La Pagina 12/05/2004)
Cosa bolle in pentola (La Pagina 28/05/2004)
L’arte grafica degli inqusiti (Dialogo: Giugno 2004)
Il sole in un barattolo (La Pagina 15/06/2004)
Il letto tra storia e superstizione (Dialogo: Ottobre 2004)
Novembre 2004
Insieme-Congresso Nazionale di Nematologia
Insieme-A Ragusa L’Ordine cavalleresco del Santo Sepolcro
Dialogo - L’ultimo atto di amore
Insieme- Una Donna Libera
Insieme- Scuola di Polizia
Insieme - Natale in Sicilia
Insieme - Natale sotto i Ponti
GENNAIO 2004
Curativi i Doni dei “Magi”?
I doni che i Magi avrebbero portato a Gesù Bambino sono doni simbolici. Diverse le interpretazioni sulle letture dei valori da assegnare a tali regali. L’oro rappresenterebbe la sovranità assoluta di Cristo: il re dei re. L’incenso starebbe a significare la sua natura religiosa: Cristo-sacerdote. La mirra simboleggerebbe la sua morte per la salvezza dell’umanità: sepolcro di Cristo.
Al di là del valore simbolico che la dottrina cattolica assegna a ciascuna delle tre offerte portate in dono a Gesù dai “Magi”, celebrati per il loro valore di dono e di riconoscimento della divinità del Messia (Matteo II, 1-12), oro, incenso e mirra – ad un esame approfondito – sembrano essere dotati di singolari qualità terapeutiche, a dir poco, inaspettate!
In medicina l’oro ha un uso radicato nei tempi antichi. In epoca più recente, Koch, scopritore del bacillo della tubercolosi, lo studiò non solo per la cura della Tbc ma per la terapia del lupus perché si riteneva che avessero entrambe la stessa origine. Attraverso procedure “in vitro” riuscì a dimostrare che l’oro inibiva la replicazione del germe, non riuscendo però a poterlo utilizzare in terapia. Alla fine del XIX secolo, l’uso dei sali d’oro, nei casi di “artrite reumatoide”, ebbe risultati molto soddisfacenti. In tale affezione le articolazioni colpite dall’infiammazione diventano calde, gonfie, dolenti, alterandosi talora in maniera vistosa. E’ in tale circostanza che i sali d’oro diventano preziosi per la prassi terapeutica.
L’incenso, specie se assunto per via orale, possiede una efficacia antinfiammatoria ed antibatterica. Tale azione sembra essere più accentuata in combinazione con la propoli, sostanza resinosa, gommosa e balsamica tratta dalle gemme degli alberi, anch’essa caratterizzata da proprietà antibatteriche (gli egizi la spalmavano sulle mummie per impedirne la decomposizione). Risultati apprezzabili della miscela propoli-incenso si ottengono per la cura dell’asma attraverso delle applicazioni sulla pelle sotto forma di impiastro. Infatti i principi attivi moltiplicati dalla sinergia delle due sostanze svolgono un’azione benefica direttamente ai bronchi ed agli alveoli polmonari in quanto assunti attraverso al pelle.
La mirra possiede invece proprietà analgesiche che, al pari della morfina, agisce sul sistema nervoso centrale. Usata anch’essa dagli egizi nelle pratiche di imbalsamazione e dagli ebrei come olio per funzioni sacre, la mirra era già menzionata e presa in considerazione da Ippocrate come antidolorifico, mentre nell’antica Roma la usavano per la cura delle infezioni della bocca, degli occhi ed anche contro la tosse.
La comunicazione visiva nel Medioevo
Il termine comunicazione deriva dal latino “communicatio”, a sua volta deverbale di “communicare”, che significa mettere in comune qualcosa, passare qualcosa da uno all’altro. La comunicazione si distingue in verbale, caratterizzata dall’uso delle parole, e in “non verbale”, di cui fanno parte i gesti, le espressioni del volto, le intonazioni della voce, gli atteggiamenti, le immagini. Queste ultime costituiscono, sin dai tempi più remoti, uno dei più diffusi ed efficaci mezzi di trasmissione. Esse definiscono la cosiddetta comunicazione visiva, intesa come processo di comunicazione che raggiunge la sua massima espressione attraverso il canale visivo.
La pittura murale costituisce un esempio emblematico di come, sin dall’antichità, l’uomo abbia sentito la necessità di comunicare messaggi ai suoi simili.
Ancora oggi tale tecnica può essere apprezzata attraverso alcuni frammenti di affreschi romanici, presso una delle cappelle gentilizie, oggi adibita a sagrestia, presso la Chiesa del Carmine di Modica. In altra cappella, facente parte dell’impianto originario della medesima struttura chiesastica, con volta a crociera ogivale, di recente scoperta e restaurata, risalente al periodo tardo-gotico, sono ancora visibili alcuni calzari e porzioni di figure dal sapore medioevale.
In forma graduale si passa poi allo sviluppo di una comunicazione orale appannaggio degli uomini di cultura i quali non hanno ancora a loro disposizione i libri stampati, medianti i quali, sin dal XVI secolo, la cultura si trasforma in un bene “comune”.
Nel XIII e XIV secolo i libri sono scritti a mano ed è per questo che si trasformano ben presto in oggetti artigianali unici, rari e preziosi. Aumentare la “tiratura” di una pubblicazione significa copiarla in proprio o pagare un copista per provvedere a ciò. Il fatto che i libri siano pochi e molto costosi in quell’epoca non comporta alcun problema: la quasi totalità della popolazione risulta analfabeta e pertanto trova risposta al suo bisogno di immaginare, di conoscere e svagarsi, attraverso canali, per così dire, alternativi alla parola scritta. Infatti, i sentimenti collettivi, più o meno immaginari sono espressi e plasmati in gran parte dal linguaggio delle immagini che raggiungono la loro massima espressione negli affreschi e bassorilievi delle chiese dove trovano giusta collocazione le storie della Bibbia, le raffigurazioni di gioie e pene dell’aldilà. Anche la comunicazione orale svolge la sua azione. Durante le celebrazioni liturgiche le prediche accendono il sentimento religioso suscitando paure e speranze dei fedeli. Lo stesso linguaggio architettonico delle strutture chiesastiche, adottato nei secoli XI e XII, diventa espressione di quella fusione tra l’eredità colta dell’arte classica e i modi costruttivi d’impronta popolare. Le chiese si presentano massicce, potenti e con strutture molto robuste. Il fedele che vi si addentra è accompagnato ad ogni piè sospinto da immagini scolpite e dipinte facenti parte di un organico discorso visivo. La sequenza di episodi dell’Antico e Nuovo Testamento, le scene dell’Inferno e del Paradiso, i demoni e gli animali mostruosi in esse raffigurate si imprimono saldamente nella mente e nella fantasia del popolo.
Chiese e palazzi, al di là del loro fine primario, devono servire a comunicare le idee ed il ruolo del committente.
Sono i “media” dell’epoca: facciate ed affreschi quali concreti libri aperti.
Ritagli carnevaleschi d’altri tempi
Tra le feste natalizie e la Quaresima si estende il Carnevale, periodo di balli e mascherate, di allegria e spassi rumorosi: è tempo, o meglio, era tempo di indovinelli.
Quando l’aria frizzantina della tarda sera invitava a stare insieme seduti e raccolti attorno alla conca (braciere), in attesa che la modesta cena fosse servita, l’animo si prestava all’ascolto di alcuni indovinelli. Così, ai tempi dei nostri nonni, venivano impiegate quelle poche ore oltre il tramonto prima di assaporare il sonno ristoratore dopo una lunga giornata lavorativa trascorsa per i campi.
Il rumore secco della legna nel fuoco, il bollore dei legumi nelle pignati ri rigghiu (pentole di terracotta), la fievole e tremolante luce delle lumere (lucerne a olio) che offriva zone di penombra sulle pareti intonacate con calce bianca e sul tetto di canne ingessate, mentre il pavimento con basole di pece attenuava ogni lucore, fornivano l’ambiente domestico dove si riuniva il numeroso nucleo familiare.
Per i più piccini c’erano per esempio: Bianca bianca nn’a cavagna – o – Nun ha bucca e parra / nun ha pieri e cammina.
Per i più avanti negli anni la lascività (ma della lettera non del senso) era espressamente ricercata: si facevano grasse risate, consentendo così di aprire una breccia nella morigeratezza dei costumi. Non che i costumi fossero più morigerati dei nostri nella realtà perché sempre mondo è stato; più morigerati lo erano nelle apparenze, nel contegno esteriore per una certa ipocrisia di atteggiamenti, per il cosiddetto “occhio sociale” sempre puntato e pronto a commenti o sentenze troppo drastiche. Comunque l’inclinazione alla lascivia si fermava, come appena detto, alla superficie, era cioè solo letterale: l’enigma, presentato in forma più o meno breve, veniva descritto in maniera vaga e a volte frammentaria giostrando sulle allusioni, metafore e doppi sensi. La licenziosità solo apparente dell’indovinello era proporzionale alle soluzioni che si rivelavano poi le più candide ed ingenue di questo mondo.
Il FICO D’INDIA per esempio, parlando in prima persona, diceva di sé: Ahi, nun mi tuccari! / Lassimi spugghiari / ca ti fazzu arricriari; e la SCARPA, quasi donna che si lagni di un suo amaro destino: A tutti parti mi porti, / nno’ liettu nenti….
Qualche indovinello era veramente pittoresco, come il seguente, alludente a un igienico oggetto ormai scomparso, diffuso un po’ dovunque, il CANTERO: Aiu na cosa quantu nu munniu / c’assimigghia a ta ziu, / ccu li labbra sbutati / c’asimigghia a ta frati, cco’ fazzulitieddu n’testa / pari ca si nn’issi a festa. Bello anche il seguente sul firmamento (CIELO, STELLE, SOLE, LUNA): Piattu d’argentu / minestra minuta / uomini fistanti / e fimmina amurusa.
Di indovinelli ce ne sono brevi, talvolta secchi, asciutti, che dipingono l’oggetto nel giro di poche parole. Ecco la PIPA: A picciutedda schetta / porta u luci nn’a sacchetta; gli UNCINELLI o gancetti, con cui si allacciano gonne e simili: O iuornu maritati e a notti schietti; la SCOPA: Llara’ llara’ / ppi casa va / cciu’ nova è / cciu’ scrusciu fa.
Si potrebbe continuare a lungo con indovinelli magari un po’ più spinti, ma ci asteniamo. Ciò che in questa sede ci preme far rilevare è che, a confronto dell’indecenza di certi spettacoli e di certe riviste, nel clima di turpiloquio venuto di moda, la maliziosa ingenuità dei nostri indovinelli ci sembra profumo di candore. Senza dire poi che una volta l’anno folleggiare è lecito, semel in anno licet insanire: come ammetteva la stessa saggezza dei latini, i quali nelle feste in onore di Saturno avevano anch’essi il loro carnevale.
Giuseppe Nativo
FEBBRAIO 2004
MAL CADUCO:
l'ESPERIENZA MAGICA DELLA MALATTIA
Le malattie, soprattutto quelle che ruotano nell'ambito della sfera del sistema nervoso centrale, sono state oggetto, da sempre, di apprensioni e variegate interpretazioni. La tematica eziologica - a seconda del periodo storico in cui sono state registrate - è stata presa in considerazione in maniera alquanto differenziata ed in stretto connubio col contesto sociale.
In particolare l'epilessia che - volgarmente detta "mal caduco" o anche "mali di luna" (per la presunta correlazione, attribuita sin dai tempi più remoti, tra la ciclicità di taluni attacchi epilettici e quella del nostro satellite) - per le sue manifestazioni esteriori è stata facilmente associata, particolarmente in ambito medievale, all’influsso diabolico sull'uomo.
Malgrado le prime indicazioni fornite da Paracelso - che, nei primi anni del XVI secolo, considera l'epilessia come una tempesta dove il fulmine può venire paragonato all'attacco, intuendo per primo l'insorgere della tempesta elettrica che si verifica nel cervello durante la crisi epilettica - i sofferenti di tale sindrome sono andati incontro a forti discriminazioni sociali. Dietro tale patologia si nascondeva una schiera di complessi, numerosi ed eterogenei sintomi la cui causa primaria, se non l'unica, veniva considerata la possessione diabolica. Secondo la concezione dell'epoca la "vittima", essendo più predisposta per problemi di natura morale, era più soggetta ad un contatto o ad una vera e propria possessione da parte del demonio. La paura degli epilettici era tale che si consigliava a chi si fosse trovato davanti ad uno “ammorbato” di allontanarsi perché “il terribile respiro” avrebbe potuto contagiargli la malattia. Sorte non migliore toccava a chi avesse avuto la sventura di cadere nelle mani del Tribunale della Santa Inquisizione che, nel XVII secolo, anche nei territori afferenti alla Contea di Modica, poneva la massima attenzione alla problematica. Era convinzione degli inquisitori, nel “modo procedendi in causis fidei”, che “an obsessio daemonis semper proveniat ex maleficio” rilevando come l’esteriorizzazione dei comportamenti del soggetto era dovuta a “…variis causis, ob peccata propria, ob peccata parentum”.
Nelle diverse epoche la problematica è stata quasi sempre affrontata molto empiricamente con un variegato sistema di segni e simboli, di cui si sono persi i riferimenti originari.
Una "variante" delle crisi epilettiche, vista in chiave, per così dire, "pediatrica", è quella relativa alle convulsioni dei bambini ovvero "cummirsioni di picciriddi", da ascrivere ad una patologia anch'essa grave. L'affetto da tale sindrome, associata a encefalopatia con crisi simili a quelle epilettiche, a Modica è chiamato "Santa Margherita", perché, sempre secondo la tradizione popolare, un fratello di Santa Margherita essendo epilettico fu da questa guarito. Rimedio a siffatto male è il seguente: la madrina del bimbo o della bimba dovrà per una settimana questuare perché si faccia una "crocina" d'argento. Durante i sette giorni né la madrina né la figlioccia dovranno vedere fuoco o lume di candela neanche per un istante. Superato tale periodo l'ammalato deve indossare la “crocina” legata ad un laccetto senza mai toglierla. Sulla barra trasversale della croce deve essere inciso il nome dell'infermo mentre sull'altra le iniziali del fratello di Santa Margherita. Quindi madrina e figlioccia devono assistere ad una messa in onore della santa. Al termine delle funzioni liturgiche l’ammalato accuserà un potentissimo accesso di eclampsia che sarà l'ultima manifestazione prima della definitiva guarigione.
Pulpitum in Ecclesia
In alcune chiese del circondario di Modica, così come in altre del territorio ibleo, tra le più vetuste, si può ancora apprezzare una struttura molto conosciuta dai meno giovani: il pulpito, messo a riposo con la riforma liturgica sancita dal Concilio Vaticano II (1962/’65). Esso deriva come forma architettonica, e in parte come usi, dall’ambone (dal greco “ambon”, superficie convessa, panciuta) che ha però maggiori dimensioni essendo destinato a contenere più persone anziché una sola. Addossato ad una parete o isolato nell’interno della chiesa, in tal caso è sostenuto da motivi architettonici (colonne o un piedistallo centrale), il pulpito, consistente in una piccola tribuna cui si accede con una scala, diviene, soprattutto nel Medioevo, un elemento di altissima importanza per la ricchezza dell’architettura e lo splendore della decorazione del parapetto.
Indicato in altre epoche col termine “pergamo” (dal greco “pergamon”, cioè luogo elevato), viene spesso confuso con l’ambone, ma il pulpito propriamente detto è, in epoca più recente, in particolare nel periodo barocco, una struttura in legno da cui si predica la parola di Dio. Dall’ambone invece non si predica: esso serve solo a leggere e cantare la parola di Dio, nonché al preconio pasquale.
Sul pulpito si sono avvicendati numerosi predicatori che, dal tardo Medioevo fino a poco oltre la metà del secolo XX, hanno fatto echeggiare la loro voce dirigendo i loro discorsi sacri a moltitudini di fedeli confermandoli nella fede ed esortandoli a custodire la salute spirituale. Ciò di cui si premurò Sant’Antonio, che, per sua “rivoluzionaria” iniziativa, avviò nel 1231 una predicazione quaresimale quotidiana cioè una sorta di corso intensivo di catechesi. Proposta pastorale audace che ben presto fu adottata da tutta la Chiesa, giungendo fino ai nostri giorni.
L’aquila: simbolo ecclesiale
La simbologia della rappresentazione iconografica dell’aquila assume valore sacrale in diverse civiltà. Il suo significato viene assunto a livelli molto diversi, ma sempre in relazione a ierofanie uraniche: abitatrice delle alture irraggiungibili, può partecipare alle vicende delle quali sono protagonisti gli esseri supremi ed è ritenuta capace di raggiungere la dignità di tramite tra la terra e le “regioni superiori”.
Citata più volte da Dante, nella sua “Divina Commedia”, viene vista come simbolo dell’Impero universale (assegnato da Dio al popolo romano) e della Giustizia, il cui concetto è inscindibile da quello dell’Impero, fino alla sublime visione dell’aureo fulgore delle anime che “volitando” si dispongono formando la figura del collo e della testa dell’Aquila “…la testa e ‘l collo d’un’aguglia vidi/ rappresentare a quel distinto foco…” (Paradiso, XVIII, 107 e segg.).
Nella Bibbia è simbolo non solo di forza e potenza date da Dio, ma anche di superbia che Dio abbatte (Geremia, 49, 16), e assume più particolare valore simbolico nelle visioni di Ezechiele e Daniele, riprese nell’Apocalisse. E in relazione alla subliminità della sua contemplazione del divino, viene interpretato il fatto che l’aquila simbolizzi, tra gli evangelisti, San Giovanni. Quest’ultimo è designato come “l’aguglia di Cristo” – espressione dantesca (Par., XXVI, 53) derivata dall’apocalisse – cioè come colui che vola e vede al di sopra di tutti gli altri.
L’aquila colpisce l’occhio, tra gli arredi chiesastici, in quanto spesso adorna il leggio ed è essa stessa a reggere il Vangelo: “Evangelium super aquila legitur”, così si nota ancora in qualche chiesa appartenente all’antico territorio “motucano”. L’aquila, poiché vola più in alto di tutti, è stata scelta per reggere la parola di Dio e diffonderla il più possibile (Salmo 18,10: “volò sulle ali dei venti”). Le ali stesse o una pietra poggiata sulle ali reggono il libro. L’aquila, dunque, diventa così il sostegno del Libro sacro da cui viene proclamata la parola di Dio.
Giuseppe Nativo
MARZO 2004
Un incidente di percorso
La Contea di Modica godeva, ab antiquo, di una totale autonomia, sì da essere considerata “regnum in regno”. Oltre il Governatore, il quale aveva una giurisdizione amplissima, con pieni poteri amministrativi, giudiziari nonché militari, la Contea presentava un ricco ed articolato apparato burocratico che riproduceva, quasi in maniera speculare, la struttura della burocrazia del Regno.
Tra le varie cariche comitali, a livello esecutivo, vi era quella del “Sollecitatore Fiscale”, con una remunerazione annuale, verso la fine del XVIII secolo, di circa 18 onze, a cui era demandato il coordinamento dei mandati di cattura nei confronti dei delinquenti ed il “Capitano di Campagna”, con un lauto stipendio annuo, nel periodo 1784-1794, pari a 72 onze, il cui rischioso compito era quello di sorvegliare la campagna “infestata” da ladri. Avvalendosi di un gruppo di sei soldati, vigilava sul territorio assegnatogli dai superiori. Tra i suoi carichi di lavoro era compreso anche il trasporto a Palermo, con relativa consegna agli alti funzionari della capitale del regno, delle somme di denaro derivate dai proventi di natura fiscale. Il viaggio all’epoca si presentava, a dir poco, arduo. Alla fine del XVIII secolo, il sistema viario ricalcava ancora quello in uso in epoca feudale. Frequenti fermate erano necessarie per rifocillare e far riposare i cavalli, mezzi locomozione per eccellenza, nonché per il ristoro dei viaggiatori. I sentieri percorribili agevolmente erano pochissimi ed il loro tracciato risentiva non poco delle asperità del terreno. A tali inconvenienti si aggiungeva il fenomeno degli “assalti” perpetrati da gente di malaffare che derubava frequentemente gli ignari viaggiatori che inconsapevolmente attraversavano zone poste sotto il controllo malavitoso.
Ritornando al nostro “Capitano di Campagna”, la cui carica, nel 1792, a Modica era occupata da tale Giovanni Lendinez, è curioso osservare come, quella volta, non ottemperasse al suo ufficio. Da documenti archivistici si rileva che qualcosa aveva impedito a Lendinez di portare a termine il suo “delicato” compito. Partito nel giugno del 1792, alla volta di Palermo, incappava, per così dire, in un “incidente di percorso” che pare non fosse tanto raro in quell’epoca. Trasportando una cospicua somma di denaro, costituita dai sopra citati proventi fiscali riscossi nel precedente mese di maggio dai territori della Contea, pensava bene di appropriarsene. Eludendo, con uno stratagemma, la vigilanza posta a carico della scorta armata, fuggiva nottetempo facendo in modo di disperdere le sue tracce con somma contrarietà dei funzionari “panormitani”, i quali, privi di quella ingente somma, erano così “impediti” ad avere, a loro volta, altri “incidenti di percorso”!
La sedia: piccolo trono
Passeggiando su e giù per il corso, a Modica, specie nelle belle giornate di sole, non è infrequente notare diverse persone sedute ai bar. Variegate si rivelano le posture assunte che non raramente dipendono dal modello delle sedie messe a disposizione dai locali pubblici. Un oggetto così usuale oggigiorno passa inosservato; eppure meriterebbe uno sguardo degno di attenzione considerata la sua millenaria esistenza.
La sedia è da sempre un simbolo di potere e un modo per sottolineare le diversità sociali. Serve a fare “riposare” il corpo e quindi a soddisfare una necessità esclusiva della nostra specie, visto che gli animali si rilassano più facilmente sdraiandosi o, addirittura, come nel caso di molti mammiferi ed uccelli, dormendo in piedi.
Nell’antichità (sgabelli e sedie compaiono già in Egitto intorno al secondo millennio a.C.) il sedile è riservato a chi detiene il potere.
Anche quando la sedia entra nell’uso comune, intorno al XVI secolo, il capo possiede sempre la più bella. Anche colui il quale lavora la terra possiede una sedia, ma solo se occupa una posizione preminente rispetto agli altri. Nel XV secolo la cassapanca funge da sedia, letto e armadio, mentre sedili a forma di cassetta sono destinati alle celle dei frati che vi ripongono i libri. Nel Medioevo le sedie hanno soltanto tre gambe perché in questo modo si mantengono più stabili sui pavimenti sconnessi delle case dell’epoca, mentre a partire dal XVII secolo diventano sempre più lussuose e massicce, con rivestimenti in velluti e broccati, intarsi e legni pregiati.
La sedia diventa quasi un simbolo. Segue infatti le mode e viene associata a personaggi illustri. Ecco allora la “Savonarola”, un piccolo trono e forse la prima sedia pieghevole; la “Andrea del Sarto”, a colonnine tornite, che il pittore raffigura nei suoi quadri; la “comoda” o “seggetta”, una sorta di gabinetto portatile, di cui sono costruite anche versioni lussuosissime, guarnite con cuscini e drappi. Quest’ultima, inventata ai primi del XVIII secolo, consiste di una sedia o, più tardi, di una poltrona, con un foro centrale sotto il quale viene sistemato un vaso di ceramica per la raccolta degli escrementi. Da un censimento voluto da Luigi XVI, sembra che, a quei tempi a Versailles, sia emersa la presenza di ben 268 “comode”, delle quali oltre ¾ ornate di seta e pizzi.
Dalla metà del XIX secolo la sedia viene prodotta industrialmente. Si deve a Michael Thonet, nel 1859, l’invenzione della celebre “sedia da caffè viennese” in legno di faggio curvato, prodotta ancora oggi.
Nei primi anni del Novecento nei salotti del ceto nobile fa la sua prima apparizione la “sedia da bacio” che consente intimità ma separa contemporaneamente i due amanti.
A far tempo dal secolo scorso la sedia diventa oggetto di design e i più grandi architetti disegnano opere d’arte non sempre destinate all’uso quotidiano.
Giuseppe Nativo
APRILE 2004
Antichi presagi nella Contea di Modica
La paura dell’ignoto e delle tenebre ha svolto un ruolo non indifferente nell’intimo di ogni uomo. La notte, in tutti i testi medievali e rinascimentali, viene descritta come nera, orrida, piena di pericoli, come un tempo che sarebbe malvagio per via della sua stessa natura. La sfida nei confronti delle tenebre, quella coppia metaforica che oppone la luce all’oscurità, la vita alla morte, la fede all’errore, il Bene al Male, la dice lunga su quanto fossero profonde le paure che si impossessavano degli uomini ogni sera, quando il regno delle tenebre tornava a prendere il sopravvento e l’oscurità favoriva gli spettri e i malefici. Paura durante la notte e paura della notte. Terrificanti rappresentazioni ed imprevedibili pericoli accompagnano l’arrivo del crepuscolo.
Nel saggio La Paura in Occidente, Jean Delumeau affronta la questione con molta umiltà dicendo che “nulla è più difficile da analizzare della paura, e la difficoltà si accresce ulteriormente quando si tratta di passare dall’individuale al collettivo”. L’autore separa le paure spontanee di larghi strati della popolazione, dalle paure riflesse, quelle cioè “che sgorgano da un atteggiamento d’indagine sulla sofferenza guidato dai direttori di coscienza della collettività, quindi anzitutto degli uomini di Chiesa…”. Le paure spontanee erano, per così dire, permanenti (correlate al bagaglio mentale: paura delle stelle, dei presagi, etc.), o cicliche (connesse ad eventi che funestavano la popolazione con sistematica periodicità come le pestilenze, le carestie, terremoti). Le paure cicliche erano quelle su cui la Chiesa aveva incentrata da secoli la sua attenzione attraverso riflessioni teologiche che dalla popolazione, fortemente analfabetizzata, venivano interpretate con forti ondate di misticismo collettivo. I flagelli, cioè le fruste (la stessa etimologia del termine è indicativa), che spargevano il terrore erano i mezzi con cui Dio puniva e ammoniva gli uomini per i loro peccati. Da qui l’esigenza, da parte del popolino, di osservare, intravedere e interpretare eventuali fenomeni (presagi) che potessero anticipare e giustificare gli accadimenti futuri.
La Contea di Modica è stata funestata da molti accadimenti disastrosi che, sembra, sarebbero stati anticipati da strani segni.
Il 1572 era ritenuto anno infausto dagli abitanti del territorio comitale perché era apparsa, per diverso tempo, una cometa a forma di rombo. Le comete erano considerate un presagio di sventura in quanto il loro aspetto e la loro imprevedibilità suscitavano paura ed angoscia negli uomini di quel tempo che li ritenevano fenomeni innaturali in disarmonia col resto dell’universo. Un eclisse totale di sole, avvenuta nel luglio del 1590, era considerata segno premonitore di scarso raccolto che “puntualmente” si verificava l’anno seguente a seguito di una grande carestia provocata verosimilmente dal cospicuo quantitativo di frumento esportato in Spagna. Fenomeni straordinari per la portata e durata venivano osservati ed interpretati come grandi segni premonitori nelle settimane che precedevano il catastrofico evento tellurico dell’11 gennaio del 1693. Abbondanti nevicate contrassegnavano il 1691, mentre sopra gli alberi del contado di Modica cadeva “copia di manna celeste…”. Nel dicembre del 1692, in certe ore della notte, si verificavano insoliti fenomeni quali un grande “arco” (semicerchio) luminoso che si estendeva “da greco a tramontana, verso Mongibello”. Nei primi giorni di gennaio del 1693, dalle prime luci dell’alba fino a tarda ora, si notava che la luna era seguita da una brillante “stella con la coda”. Funesti segni naturali e una insolita tranquillità dell’aria faceva pronosticare una imminente sventura.
Erano “veri” segni premonitori o piuttosto effetti dovuti all’enorme impatto psicologico degli eventi subito anche dai funzionari sopravvissuti, incaricati di redigere rapporti dettagliati alla corte spagnola?
L’arte grafica di Nisveta: sculture d’immagini
C’è la Contea nota e quella meno nota, quella perduta nelle pieghe della sua lunga storia e quella che incanta per l’anima segreta delle sue bellezze.
Ricami di luci che filtrano, sfiorano, rimbalzano sulla caratteristica via Grimaldi fanno da proscenio alla personale di pittura della giovane artista bosniaca Nisveta Kurtagic Granulo. Laureatasi in Architettura a Sarajevo, asseconda la sua passione per le arti grafiche specializzandosi, nel 1996, in Art e Design nella capitale del Regno Unito nonché in Arte dell’Incisione a Firenze. La Post Lauream, “Metafisico nelle forme primarie”, presso l’Università di Sarajevo, è conseguita in un momento in cui l’artista raggiunge la sua massima espressione nella sua concezione filosofica - su cui ruotano il nostro essere, le nostre esperienze, il mondo Universale - che traspare nelle sue opere grafiche contraddistinte da una nuova dimensione immersa in un equilibrio cosmico; quella in cui nascono composizioni armoniche che si concentrano o si espandono ricomponendosi poi, in infiniti mondi (“Incontri”, incisione). Quando un architetto è un artista, il suo “architettare” le creazioni grafiche viene sublimato nell’anima ispiratrice (“Tracce”, tecnica mista).
Come frammenti di memoria così i segni nella grafica di Nisveta sono minute architetture, quasi singoli fotogrammi di una pellicola che si ricompongono nel disegno arabesco che tradisce la ricca e multietnica cultura dell’artista (“Avi”, tecnica mista). L’uso di inchiostri colorati ed in particolare dell’oro e dell’argento creano vibrazioni e suggestioni che ci riportano alla mente mondi ancestrali in una rappresentazione di spazi sospesa nell’atemporalità del ricordo (“Le Memorie Appese”, incisione). Nisveta usa i segni come fossero lettere per comporre poesie che si imprimono nella memoria come ricordi scavati sulla tela. Il filo dorato, metafora dell’essere umano, immergendosi nello spazio infinito, confluisce in un luogo metafisico in cui la materia si fonde con l’essenza (“Aldilà”, incisione).
Le opere di Nisveta, per il suo ritmo, per la sua ricerca di armonia, si pongono, così, in una comunicazione che attrae per l’estetica delle forme che l’artista compone in unico aspetto, insieme evocativo e creativo, che spinge chi osserva ad un’adeguata, profonda riflessione (“Loro Due”, incisione).
La sua arte ci affascina rivelando la profondità dell’artista che ha riscosso e riscuote molto successo anche in ambito internazionale.
La tovaglia nella storia
La città di Modica possiede un’antica tradizione culinaria che abbraccia i più variegati settori della gastronomia. Non bisogna però dimenticare che anche l’occhio vuole la sua parte: la tovaglia da tavola, che è il corredo del cibo presentato attraverso variegati piatti di portata protagonisti instancabili del desco.
Ma non sempre è stato così.
All’epoca dell’impero romano la tavola viene preparata solo con lo stretto necessario ed il valore positivo associato al pasto è quello della frugalità. Poi qualcosa cambia ed il valore sacrale prima riservato ai sacrifici si allarga alla mensa domestica. Trae così origine l’attività dell’apparecchiatura, della preparazione, lo svolgimento cioè di un piccolo rito in cui si predispone lo spazio riservato ad un’attività importante, antica quanto l’uomo, l’assunzione del cibo non più praticata come attività di mero sostentamento ma come espressione di civiltà.
L’apparecchiatura – intesa come “preparazione” ad un evento – comincia con il gesto di ricoprire il tavolo con una tovaglia.
Le prime tovaglie, apparse in epoca romana, consistono in pesanti tappeti che ricoprono le mense. Successivamente vengono utilizzati teli sempre più sottili finché in periodo medievale si arriva ad usare tovaglie bianche semplici e sfrangiate. Con il passare del tempo anche le tovaglie cambiano, seguendo l’evoluzione del gusto.
Protagonista, unitamente al cibo ed ai commensali, di fastosi pranzi della casta nobiliare, la tovaglia – tra epoca medievale ed età moderna (XV-XVI secolo) – ricopre la tavola in doppio strato. La tovaglia più pesante ricade quasi fino a terra, mentre quella più leggera e più corta serve ai convitati per asciugarsi la bocca e le mani in quanto non è ancora in uso il tovagliolo personale. In tale periodo la tovaglia costituisce anche il sistema per contraddistinguere l’importanza di ciascun commensale in base al posto assegnato dal cerimoniere. Infatti essere ammesso alla “stessa tovaglia” del personaggio più importante significa essere tenuti in grande considerazione.
Nel XVI secolo, la tovaglia si presenta ricamata con ingegnosità e dovizia nei particolari delle decorazioni. Liscia e con gli orli ornati di merletti è quella del XVII secolo, fino a trasformarsi interamente in un tessuto di pizzo poggiato sopra un drappo colorato in epoca barocca.
Nel corso dei secoli, dunque, la tovaglia ha un ruolo determinante e, nel contempo, contraddistingue lo spazio scenico della tavola esprimendo il gusto di un’epoca, valorizzando l’incontro tra una pietanza perfetta e i commensali.
Spigolature d’altri tempi
Nella Modica dei primi decenni del secolo scorso, nelle tiepide e belle giornate di primavera – anche se adombrate, talvolta, da qualche timida nube grigia – giù e su per il corso si incontrava qualche nobile famiglia che passeggiava ostentando nobiltà di antica memoria.
Oltre al portamento anche il vestiario aveva la sua importanza e ancor di più gli accessori personali che contraddistinguevano il lignaggio: cappello, guanti ed ombrello. Questi, per la mentalità dell’epoca, non erano considerati delle semplici decorazioni, ma utili appendici o prolungamenti dello spazio del corpo umano che meritavano appropriate “regolamentazioni”.
Affrontiamoli, dunque, singolarmente.
Il cappello. Già usato in tempi remoti per ripararsi dalle intemperie, ha avuto nelle varie epoche e civiltà forme e fogge ben precise, a seconda della condizione sociale e professione di chi lo indossava. E’ necessario giungere ai primi dell’800, in Europa, ma anche nel circondario di Modica, per trovare il cappello uguale per tutti, pur con qualche inconveniente per i cappellai (Mr. Herrington, per aver inventato il cilindro, fu, all’epoca, accusato dalle autorità di Londra di turbare l’ordine pubblico!).
Consapevoli quindi di tanta storia, come comportarsi correttamente col cappello?
Gli uomini dovranno ricordare di toglierselo – sombrero, colbacco o coppola che sia – quando per strada vengono presentati o si fermano a parlare con una signora o con un uomo anziano. E’ necessario ottemperare al medesimo obbligo entrando in un negozio, in un ufficio o in casa d’altri. Mentre, salutando di sfuggita, per strada, una signora, il gesto di toglierselo sarà appena accennato.
I guanti. Una leggenda attribuisce l’invenzione dei guanti alle tre Grazie accorse in aiuto di Venere, ferita alle mani. Nel Rinascimento, secondo le regole di etichetta di quel periodo, non era assolutamente permesso presentarsi a corte con i guanti né usarli durante il lutto.
Agli uomini, per essere educati, sarà sufficiente levarli quando stringono la mano a qualcuno o quando fanno uno spuntino al bar. Mentre le donne, anche se dispensate dal toglierseli in molte occasioni, devono tener presente che eventuali carezze devono essere fatte senza guanti.
L’ombrello. Anticamente inteso come simbolo di divinità e di potere, attualmente oggetto dimenticato per eccellenza. Il galateo dell’ombrello vuole che sia l’uomo a reggerlo quando accompagna una donna sotto la pioggia; se invece si tratta di due uomini, sarà il più alto a tenerlo.
Dovunque si entri, con un ombrello bagnato, bisognerà sistemarlo nel portaombrelli oppure chiedere dove metterlo. Se al momento di andar via si chiede in prestito un ombrello o per sbaglio lo si è scambiato con quello di un altro, è necessario provvedere ad una veloce restituzione dello stesso.
Esiste inoltre il fenomeno del cosiddetto “ombrello incontrollato”. Si manifesta spesso su marciapiedi affollati e mezzi pubblici, dove questo antico simbolo di dignità può trasformarsi in un pericolo per gli occhi o in una trappola per le gambe. Al fine di evitare tali inconvenienti, l’unica soluzione è di rinunciare all’ombrello e andare “cantando sotto la pioggia”!
Giuseppe Nativo
MAGGIO 2004
Tempus irreparabile fugit
Lo studioso Placido Carrafa colloca la sua Modica all’interno di una vicenda storica riconducibile alla mitica “età dei giganti” e alla città greca “Motya”. Egli, come altri storici iblei, si rifà a testimonianze archeologiche e a “memorie” (curiali, corografiche e agiografiche) già sedimentate all’interno di un “tempo dinastico e municipale” eterogeneo e discontinuo.
Ma cos’è il tempo?
Le riflessioni sul tempo hanno stimolato l’uomo sin dalla sua comparsa sulla terra spingendolo in speculazioni di carattere filosofico, teologico, teosofico, etc. Pur trattandosi di una realtà evidente e quotidiana, definirlo concettualmente – senza presupporne la nozione e senza incappare in facili contraddizioni e paradossi – risulta essere un’impresa a dir poco ardua.
Al tema del tempo Sant’Agostino (354-430) ha dedicato delle pagine ricche di acute osservazioni e profonde analisi. Nelle sue “Confessioni”, preso da profondo scoramento, alla domanda “che cos’è il tempo?” egli rispondeva: “Se non me lo chiedi lo so; ma se invece mi chiedi che cosa sia il tempo, non so rispondere”. Infatti di molte cose sappiamo che cosa sono solo se non dobbiamo definirle. Guardando più da vicino questo strano oggetto che è il tempo ci accorgiamo della sua composizione in parti: diciamo infatti che c’è un tempo “passato”, un tempo “presente” e uno “futuro”. Poiché il tempo passato non è più ed il tempo futuro non è ancora, si può arguire che il tempo è costituito dal presente in quanto il passato e futuro non sono. Quindi si vive “sempre” nel presente: cioè dal presente non si esce. La nostra vita può così essere paragonata ad un “frammento” di eternità. Il tempo presente (e la vita) può essere paragonato ad una navicella sulla quale navighiamo e che lasciamo soltanto smettendo di esistere. Ma cos’è il presente o meglio l’”istante”? In tale elucubrazione ci viene incontro Platone (col suo dialogo “Parmenide”) con la considerazione che questa struttura misteriosa attraverso cui ci rappresentiamo il tempo, è tale perché lega insieme l’essere e il non essere: l’essere del presente e il non-essere del passato e del futuro. Il tempo dunque sembrerebbe consistere nel solo presente, perché solo il presente “è”. Ma anche il presente, che è l’”istante”, in realtà non può essere il tempo, perché l’istante non può essere fatto di passato e di futuro, che non sono. Il presente non passa, non diviene mai diverso da ciò che è. Allora, il presente che è l’elemento ultimo e costitutivo del tempo è, in realtà, eterno?
A tale proposito, Sant’Agostino si poneva il seguente problema: Dio ha creato il mondo; con esso ha creato il tempo; allora c’è un tempo in cui Dio ha creato il mondo: infatti il mondo “prima” della sua creazione non c’era, mentre “dopo” c’è. Dunque, il tempo precede la creazione del tempo?
Sull’evidenza del tempo comunque non sembrano esserci dubbi in quanto quotidianamente tutti risultiamo immersi nel tempo: nel tempo che passa; nel non avere tempo; nel tempo che “finisce” e che “ricomincia”! Supponiamo che il tempo “finisca” come finisce la sabbia in una clessidra. Se il tempo finisce vuol dire che c’è un tempo che misura il suo finire: non diciamo, infatti, “prima” e “poi” rispetto alla fine del tempo che avevamo a disposizione nella clessidra? Esiste, infatti, un “prima” in cui la sabbia era tutta nella parte alta della clessidra e un “poi” nel quale la sabbia è tutta scesa nella parte bassa. E “prima” e “poi” non sono nel tempo? Il tempo dunque finisce nel tempo?
Lapsus calami
In qualche vicolo del centro storico di Modica si conserva ancora il vecchio ricordo di un’antica tipografia attraverso la quale si perpetua il ricordo di Gutenberg. Dalla sua vetrina, appannata dall’ingiuria del tempo, traspare ancora quella perizia con cui tutte le operazioni di stampa venivano svolte. Era un’arte svolta in buona parte manualmente. La disposizione dei caratteri mobili e la loro composizione era demandata all’occhio esperto dello stampatore che agiva sul torchio tipografico. Pur non esistendo ancora la figura del correttore di bozze, molto rari erano gli errori di stampa.
I nostri padri chiamavano il refuso “lapsus calami” (cioè una caduta, uno scivolone della penna dovuto ad errore o distrazione) richiamandosi storicamente all’antica arte ormai travolta dalle nuove tecnologie e dall’industria della stampa.
Ma come si scriveva un tempo?
La tradizionale rappresentazione del copista medievale al lavoro sul testo con la sua penna d’oca è abbastanza corretta. Pur essendo uno strumento quotidiano di ogni letterato, non esistono - allo stato attuale delle conoscenze – documenti che attestino la presenza di istruzioni per la produzione delle penne. La lavorazione delle penne d’oca, per ottenere dei pennini, doveva essere un’attività talmente ovvia e familiare per tutti gli intellettuali, dall’Antichità fino al XIX secolo, da non meritare alcuna menzione.
Adoperata per scrivere sul papiro in epoca remota, la canna spezzata – detta “calamo” in latino (qalam in arabo) - veniva rimpiazzata a partire dal VI secolo dalle piume di uccello e da pennelli di pelo animale che essendo maggiormente flessibili risultavano essere più adatti a lavori sulla pergamena e successivamente sulla carta a partire dal XVI secolo.
La penna (il termine deriva dal latino “penna” che indica la piuma) si otteneva dalle penne remiganti (una delle prime cinque piume) di oca o di cigno. Per un copista destrimane la caratteristica della penna era quella di possedere una curva naturale sulla destra. Doveva quindi provenire dall’ala sinistra dell’uccello. Le piume, essendo troppo flessibili, dovevano essere indurite con il calore o attraverso un’immersione in acqua e poi nella sabbia. Il pennino veniva tagliato con un coltello formando un angolo che era direttamente proporzionale alla forma della grafia che si sarebbe ottenuta.
Le rappresentazioni medievali sono assai comuni sia nella forma di ritratti dell’autore, sia come parte della classica iconografia relativa agli Evangelisti e ai padri della Chiesa immortalati mentre studiano.
Esempio di raffigurazione, giunto sino noi, è la miniatura di San Giovanni (cfr. “Libri delle Ore”, all’inizio della sezione delle Sequenze dei Vangeli) che viene rappresentato sull’isola di Patmos mentre guarda la sua penna, pronta per essere affilata. Quest’ultima azione doveva sicuramente essere ripetuta più volte, nel corso della stesura di un manoscritto, considerato che la fessura sulla punta tendeva ad allargarsi a causa dell’uso.
Cosa bolle in pentola
Nelle soleggiate giornate modicane – quelle in cui si sentivano canticchiare i ciabattini ed i bambini, con il loro stridulo vociare, disturbavano la riflessione artistica di qualche poeta affacciato sul davanzale della propria finestra prospiciente la monumentale opera della Chiesa di San Giorgio - un odore particolare inebriava i cortiletti, insinuandosi nelle “vanedde”, quasi a rispettare il loro tortuoso tracciato dal sapore medievale, raggiungendo ed impregnando l’ambiente circostante.
Una figura di donna si intravedeva impegnata nelle faccende domestiche. Con il “tuppo pizzuto”, coperto da un leggero velo di colore scuro, il grembiule pulito, ma rammendato in più punti, che copre un vestiario molto castigato e consunto, la figura si muove con fare preciso e con sapiente determinazione. Nelle sue mani l’arte e la tradizione gastronomica dell’antica contea prendeva vita quasi come uno scultore che plasma la materia su cui opera ed interagisce.
Il delicato odore, che frattanto raggiungeva ed attraversava le ancora delicate narici dei ragazzetti, appena di primo pelo, fermi in “congrega” sulla piazzetta poco distante, incuriosiva le “commari” che, in maniera molto discreta ma da cui trapelava una genuina curiosità, andavano immantinente ad indagare sull’operato della vicina.
Ma cosa bolliva in pentola?
Nell’antica cucina siciliana, quella povera che si sviluppava soprattutto nell’hinterland, nelle campagne dell’isola, la carne trovava posto solo nei giorni di festa.
Per i menù di tutti i giorni si preferiva ricorrere ai prodotti che offriva la “masseria”: ortaggi – in primo piano – e poi legumi, pasta fatte in casa e “scacce”.
Il ragù e il “falsomagro” (“u farsumauru”) erano tipici piatti domenicali anche perché la loro preparazione richiedeva molto tempo e pazienza.
Un buon ragù doveva essere ben soffritto, con il suo battuto di cipolla, sedano, carota e soprattutto ben stufato, a volte anche per diverse ore, relegato nell’angolo del fornello, tiepido, che gli permetteva di sobbollire lentamente. Il suo aroma, che si spandeva per la casa e si insinuava per le “vanedde”, preludeva golosamente alla seconda parte del rito, quella che si svolgeva intorno alla “maidda” che, proprio in quel giorno di festa, si trasformava in una culla generosa avvolgente i maccheroni fragranti spolverati con buon ed appetitoso caciocavallo.
Elemento indispensabile e prezioso in cucina, per la cottura dei cibi, era la pentola di coccio con cui si preparava lo spezzatino di manzo e di patatine, soffritte e insaporite nello stufato. Questo piatto, preparato un tempo con il carbone sul coperchio, “focu sutta e focu supra”, rappresentava un vero pezzo di bravura per la massaia che doveva saper dosare l’intensità del fuoco in modo da cuocere, senza bruciarlo, il suo capolavoro.
Scene e gesti d’altri tempi. Odori dimenticati. Molecole di profumi disperse nell’oblio della memoria. Eppure erano gesti che rientravano nella quotidianità di un’epoca dai gusti forti ma genuini.
Giuseppe Nativo
GIUGNO 2004
L’arte grafica degli inquisiti
Pacienza/ Pane, e tempo.
Queste le parole che - graffite sul muro di una cella del palazzo Chiaramonte, sede del Tribunale della Santa Inquisizione siciliana di rito spagnolo, nella Palermo del XVII secolo - Giuseppe Pitrè riesce a decifrare nel lontano 1906. Si trovano lì, ammutolite dal tempo ma ancora vive e pregne di significato. Segni, parole di disperazione, di paura, di avvertimento, di preghiera, di cose ricordate o sognate.
Dello stesso stile dovevano probabilmente essere i graffiti presenti sulle pareti delle antiche celle seicentesche del castello di Modica, capitale della Contea, probabilmente opera dei carcerati, delle quali ne rimane ancora oggi una modesta traccia. Figure sbiadite dall’ingiuria del tempo che tornano dal passato.
Le poche fonti documentarie che tracciano la storia del castello di Mohac (così era anche indicata Modica nel corso del XVI secolo) testimoniano la presenza di variegati locali adibiti a carcere, diversificati a seconda della tipologia dei condannati. Tra queste carceri particolarmente terribili erano le fosse baronali, locali sotterranei angusti, privi di luce e umidi coperti da un lastrone a cui si accedeva attraverso un’apertura cilindrica scavata nel terreno. In esse il condannato veniva calato, incatenato mani e piedi, per scontare la pena nelle tenebre, tra gli insetti, la sporcizia e mangiando il pane del dolore.
Una delle pene più severe era quella del “murus”, ossia della prigione che si distingueva in murus largus ossia prigione semplice e murus strictus ossia prigione con la catena ai piedi. In entrambi i casi il prigioniero veniva nutrito a pane ed acqua. Le prigioni erano costruite con il maggior risparmio possibile di spesa e di spazio; celle piccole, strette ed oscure per contenere pochi prigionieri. Si aveva cura che il rigore della detenzione non fosse tale da estinguere la vita del detenuto, ma, ciò nonostante, si verificava una mortalità eccessiva.
Le prigioni utilizzate dall’Inquisizione - come quelle scoperte a Palermo a palazzo Steri, sede del “santo” Tribunale - racchiudevano, ciascuna, sei od otto persone. Nelle celle sotterranee, lunghe dodici piedi e larghi otto circa, vi era da un lato un tavolato e dall’altro uno strato di paglia lungo quanto il carcere e largo metà. Una parte dei prigionieri quindi giaceva sul suolo, mentre l’altra su quei “soffici” letti. In un angolo vi era ricavata una fossa utilizzata come latrina, che veniva svuotata con cadenza settimanale. Ciò rendeva l’atmosfera - già umida per la profondità, per l’alito stesso dei carcerati e per la poca luce – pessima oltre che miasmatica, appena respirabile, a causa del gas ammoniacale di cui era gravida.
Eppure, malgrado tali condizioni per nulla igieniche, l’animo immortale di uno dei condannati ha lasciato dei versi che, con uno stile ed una intonazione malinconica, come lacrime di un cuore inconsolabile al pensiero di essere rinchiuso in una tetra prigione, così recitano:
Nun ci nd’è nu scuntenti comu mia/ Mortu, e nun pozzu la vita finiri./ Fortuna cridi ch’immortali io sia;/ Chi si murissi nun duvria patiri,/ Pirchì cu la mia morti cissiria/ La dogghia e l’infiniti mei martiri./ Per fari eterna la memoria mia/ Nta tanti stenti nun mi fa muriri.
Il sole in un barattolo
Giugno, la falce in pugno.
Si leggeva così nei libri di scuola di un tempo che fu!
E’ tempo di mietitura e se ghiugnu è siccu e caurusu, u massaru è fistusu. Quante fatiche e quante speranze ponevano le nostre nonne in questo periodo dell’anno. Tutto è pronto per la mietitura. Le mucche di razza modicana sono trasferite nei campi di fieno mietuti da poco o nelle favate, per pascere ciò che è rimasto. Nell’orto si guarda con impazienza e l’acquolina in bocca l’albero di fichi sangiuvannari.
La domenica i fimmini vanno ad ascoltare la S.Messa mentre i capi di casa, i massari, portano le falci dal fabbro, per fare affilare e risaltare i dentini della lama.
Il lunedì, a capu i luni, mentre le prime luci dell’alba fanno assaporare l’aria appena frizzantina che preannunzia una settimana piena di fatiche, i mietitori, equipaggiati ra robba, per coprirsi la notte nna pagghialora, di falce e quant’altro possa servire loro per la lunga giornata lavorativa, si recano sui campi per iniziare la loro attività.
Le “massare”, con il capo coperto da un fazzoletto annodato sotto il mento, vestite di scuro e la gonna lunga fin sotto il polpaccio, dopo le faccende domestiche si predisponevano per gli adempimenti della giornata appena iniziata. A manciata ri matina, intorno alle nove, costituiva uno dei rari momenti di relax per i mietitori. Arrivava a massara a portare loro la colazione: una zuppa di latte e pane nne scuteddi o, in alternativa, un’insalata di cipolle, cetrioli e pomodori. Prodotti della natura che, secondo l’antica tradizione iblea, potevano essere soggetti a trattamenti particolari per ottenerne delle conserve. Quest’ultime ci riportano in mente il ricordo della nonna che confezionava le proprie confetture con estrema perizia in modo da avere cibi genuini tutto l’anno.
Come a voler rinchiudere il sole in un barattolo, si affrettava a predisporre melanzane, frutta, tutti i tipi di ortaggi che la stagione regalava. Li custodiva gelosamente nei lindi contenitori, in dispensa, pronti per essere consumati quando il desiderio volava sull’etichetta.
L’arte della “conserva” si rivela una tradizione che ci sforziamo di recuperare, che ritorna, forse per quella voglia che abbiamo un po’ tutti di rivivere momenti d’altri tempi, di ritrovare la fragranza di tanti prodotti ormai quasi scomparsa con l’avvento delle coltivazioni di massa, delle produzioni in scatola.
Tra le variegate confetture ricordiamo le melanzane, tagliate a fette, messe sotto sale, sbollentate nell’aceto, asciugate per un po’ all’aria e collocate sott’olio (con aglio, menta, basilico,…).
Anche i pomodori contribuiscono ad arricchire le nostre tavole. Si prestano a molteplici preparazioni: pelati, spezzettati, sgocciolati e messi in bottiglia, ma anche tagliati a metà, essiccati al sole con un pizzico di sale e conservati sott’olio (i cosiddetti “chiappi salati”).
Quanto amore e sapienza erano raccolti in quei cibi!
Giuseppe Nativo
OTTOBRE 2004
Il letto: tra storia e superstizione
Tra i mobili e arredi del periodo medievale, il letto assume un aspetto monumentale perché inserito in una sorta di struttura architettonica completa di pedana, sponde e cassoni laterali dalle molteplici funzioni.
Ciò si può desumere dalle numerose rappresentazioni pittoriche di quell’epoca.
L’aspetto architettonico di tutta la struttura portante varia e tiene conto delle condizioni sociali di chi lo possiede nonché delle dimensioni della camera.
La “testiera” (detta anche spalliera o “capoletto”, dal nome del panno disposto dietro il letto in tempi antecedenti alla diffusione della “testiera”) si presenta abbastanza alta, collegata all’intelaiatura del letto ed attrezzata con un ripiano su cui è possibile sistemare vari oggetti. La sponda opposta, detta “pediera”, presenta un pannello rialzato di altezza inferiore rispetto a quella della “testiera”. Quest’ultima può essere provvista di una robusta cornice – talvolta con elementi pronunciati, sporgenti e ricurvi – che conferisce al letto un aspetto maestoso a “edicola” o a “tabernacolo”.
Una delle caratteristiche essenziali è costituita dall’uso di disporre, a livello perimetrale, una serie di cassoni forniti di serrature, detti anche cassapanche, la cui funzione principale è quella di contenere abiti e suppellettili. Su tali cassoni, disposti a gradini, attraverso cui si “raggiunge” il letto, possono essere poggiati degli oggetti.
L’aspetto “monumentale” del letto, così ricercato in epoca medievale e rinascimentale, nel corso del tempo si trasforma e si ridimensiona fino a riservare molto spazio all’aspetto “superstizioso” che accompagna ab antiquo questo lembo di Sicilia, cui tanto lustro ha dato la Contea di Modica.
Il Pitrè, attraverso i suoi studi, fornisce un ampio panorama di pregiudizi nostrani che vanno dalla posizione del letto alla maniera di come questo viene “fatto” o “rifatto”.
Regola principale, qualunque sia l’estrazione sociale di chi possiede il letto, è quella riguardante la sistemazione. Non si troverà mai, infatti, un letto collocato in modo tale che i piedi di chi vi si adagia “guardino il vano maggiore pel quale si entra ed esce”. I piedi devono essere rivolti in altra direzione. Chi non ottempera a tale “regola” incorre sicuramente in un “cattivo augurio di prossima morte di uno della famiglia”. Tale pregiudizio trae origine dal fatto che i cadaveri “si portan via di casa sempre co’ piedi verso l’uscio; perché se si portano fuori col capo rivolto (vutatu) all’uscio, tutte la faccende di quella casa andranno alla malora”.
Il letto, poi, deve essere “fatto” bene allo scopo di tenere lontani gli “spiriti maligni”. In tal caso vi si segna la croce e si dice: “Lu lettu è cunzatu,/ E l’Ancilu cc’è curcatu” (il letto è preparato, e l’Angelo vi è coricato).
Anche le posizioni assunte da parte di chi dorme sul letto sono soggette ad “interpretazioni” allo scopo di “pronosticare” eventi futuri.
E’ meglio, però, tener conto di quanto afferma un nostro vecchio proverbio: “Lu lettu è rosa:/ S’ ‘un si dormi, si riposa” (il letto è rosa: se non si dorme, si riposa).
Giuseppe Nativo
NOVEMBRE 2004
Congresso Nazionale di Nematologia a Ragusa
I nematodi sono dei parassiti delle piante che rappresentano, per diverse colture ortive, i principali fattori biotici limitanti la produzione. La conoscenza di tali fitofagi e dell’incidenza dei danni indotti in ogni singolo contesto colturale è di primaria importanza per mettere in atto una proficua strategia di lotta. Queste le delicate problematiche analizzate nel corso dell’VIII Congresso Nazionale della Società Italiana di Nematologia tenutosi a Ragusa, dal 27 al 29 ottobre scorso, presso l’Aula Magna della Facoltà di Agraria a Ragusa-Ibla.
Si è trattato di tre intense giornate di studio, conclusesi con una Tavola Rotonda presso il Teatro Comunale di Vittoria, con specifico riferimento alle principali colture agrarie della Sicilia sud-orientale, la cosiddetta “fascia trasformata” del territorio afferente anche alla provincia di Ragusa, caratterizzata da zone coltivate in ambiente protetto. Considerata la particolare rilevanza della problematica e l’attenzione rivolta all’acquisizione ed al trasferimento alla pratica agricola delle principali innovazioni nella lotta ai nematodi, la Regione Siciliana, attraverso l’Osservatorio per le Malattie delle piante di Acireale, di cui l’Unità Operativa della Sezione di Vittoria ne è brillante collaboratrice, ha accolto l’invito ad ospitare proprio a Ragusa il simposio a carattere nazionale. La fattiva collaborazione di tale Unità Operativa, all’interno della quale operano già valenti ricercatori come il Dott. Colombo, Dott. Castaldi, Dott. Segres e Dott. Barraco, ha posto le basi per promuovere ulteriori studi, ricerche ed organizzare iniziative per diffondere la conoscenza dei nematodi presenti nel terreno. A tale riguardo la S.I.N. (Società Italiana di Nematologia) ha colto l’occasione dell’assise per ricordare il Prof. Franco Lamberti, uno dei fondatori della stessa S.I.N. e della Nematologia agraria italiana. Studioso e ricercatore appassionato, negli anni recenti ha svolto parte della sua attività proprio nel territorio della Provincia di Ragusa conseguendo ottimi risultati nel campo della ricerca agraria.
Dall’insieme dei lavori posti in disamina si evince che il controllo chimico, almeno a livello di ricerca, sta subendo una flessione a vantaggio di altri e fra tutti il biologico. Non sono da sottovalutare poi i crescenti interessi verso l’ingegneria genetica seguita dal controllo integrato e dagli ammendanti organici.
Al Congresso, sotto l’egida della segreteria organizzativa composta dai ricercatori Colombo, Castaldi e Ciancio, hanno partecipato numerosi studiosi provenienti dal C.N.R. di Bari e da Istituti fitosanitari di varie città italiane (Milano, Lecce, Cesena, Bologna, Pescara, Firenze, Palermo, Catania, Vittoria).
A Ragusa l’Ordine Cavalleresco del Santo Sepolcro
“…Vi ringraziamo cordialmente di cotesto atto di nobile devozione e di filiale fedeltà: ne apprezziamo i sentimenti, che sgorgano dai vostri spiriti non meno che dalle finalità statutarie dell’Ordine cavalleresco e religioso insieme, a cui vi onorate di appartenere…”. Questo l’incipit del discorso pronunziato il 30 maggio 1964 da Papa Paolo VI all’O.E.S.S.G. (Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme). Parole gravide di sensazioni, di emozioni e di benevolenza che riassumono in pochissime righe l’attività ed i molteplici compiti dell’Ordine. Parole che riecheggiano ancora vivide all’orecchio e che sono state rese quasi tangibili in occasione della celebrazione liturgica, di sabato 6 novembre, presieduta da S.E. il Vescovo di Ragusa, Mons. Paolo Urso, presso la Cattedrale di San Giovanni Battista in Ragusa.
Numerose le Autorità civili ed ecclesiastiche presenti alla emozionante e suggestiva cerimonia che ha visto la partecipazione di un centinaio di appartenenti all’O.E.S.S.G..
Per il capoluogo ibleo si tratta di un evento inusuale, ma anche di grande rilievo, che offre l’opportunità per incoraggiare sentimenti e propositi che non possono non meritare plauso e fiducia. Un’istituzione, quella dell’Ordine, che attira a sé lo sguardo e la stima del pubblico per i due aspetti che essa palesemente gli presenta: quello esteriore, delle divise, delle insegne; e quello interiore, della adesione alla fede ed alla vita cattolica, anzi alla milizia ed al servizio della Chiesa con particolare riferimento a quei Luoghi Santi che furono l’umile ed incomparabile scena del Vangelo e che sono tuttora all’attenzione di tutta la comunità internazionale.
Assistere alla celebrazione liturgica insieme ai Cavalieri e Dame dell’Ordine è come tornare indietro nel tempo, rivivere atmosfere d’altre epoche nonché assaporare lo spirito cavalleresco ormai sbiadito dalle nebbie del passato. Per cercare di approfondire la storia dell’O.E.S.S.G., la cui nascita risale tra l’XI ed il XII secolo, è necessario rifarsi al clima religioso, sociale e politico di quel periodo le cui principali componenti sono state la devozione per il Santo Sepolcro, il dolore di averlo perso in seguito alla occupazione musulmana, lo spirito di cavalleria e la pratica dei pellegrinaggi verso i Luoghi Santi. Ai primi del XV secolo i Sommi Pontefici presero cura di questa complessa istituzione dando ad essa una vera e propria configurazione che ancora oggi si conserva intatta come ieri. Novecento anni di storia, di cui almeno quattro secoli da protagonista, hanno reso l’Ordine sempre più solido e socialmente impegnato. Attualmente, i ventiduemila Cavalieri e Dame presenti nel mondo, organizzati in 54 “Luogotenenze”, provvedono ad inviare, ogni anno, offerte personali al Patriarcato Latino di Gerusalemme per la realizzazione degli interventi programmati dall’Ordine. Così ospedali, Chiese, asili, case di assistenza per minori ed anziani nonché scuole di ogni ordine e grado, ivi compresa l’Università di Betlemme, trovano sostegno nell’Ordine che in questo drammatico periodo ha intensificato gli aiuti. E’ a questa missione di civiltà, di pace e di carità che sono impegnati a partecipare gli appartenenti all’Ordine, che è riconosciuto sia da S.R. Chiesa (come già affermato dall’”Osservatore Romano”, 04/07/2002), sia dallo Stato Italiano (R.D. 10/07/1930, n. 974, art. 3; Legge 03/03/1951, n. 178, art. 7, comma 3).
Giuseppe Nativo
DICEMBRE 2004
L’ultimo atto di amore
Un malessere. Una fitta. Un tonfo. Un salto nel tunnel della speranza. L’inutile corsa al più vicino nosocomio. Un 52enne, di Ragusa, qualche settimana fa, viene ricoverato per emorragia cerebrale presso la divisione di rianimazione dell’ospedale cittadino. Il concitato, febbrile ma preciso intervento dei medici nulla può contro l’evolversi infausto degli eventi. Preso atto del consenso anzitempo espresso dal paziente circa la volontà di donare gli organi, la macchina sanitaria viene messa subito in moto al fine di creare le condizioni idonee per l’espianto degli organi, il primo in assoluto nella città di Ragusa e triplice (fegato, reni e cornee) per il numero di organi espiantati.
Un affannoso scambio di contatti telefonici e telematici costituiscono il prologo dell’iter procedurale da seguire. Da un punto di vista medico, inizia il protocollo tecnico-scientifico per seguire e monitorare le condizioni del soggetto. Il procedimento per l’esecuzione di tali attività è disciplinato secondo modalità tali da assicurare il rispetto dei criteri di trasparenza e di pari opportunità tra i cittadini, o almeno così si spera, prevedendo criteri di accesso alle liste di attesa – per i potenziali riceventi – determinati da parametri clinici ed immunologici.
I trapianti sono una grande conquista della scienza a servizio dell’uomo e non sono pochi coloro che ai nostri giorni sopravvivono grazie al trapianto di un organo. Per questo, nella Lettera Enciclica Evangelium vitae,il Papa ha ricordato che, tra i gesti che concorrono ad alimentare un’autentica cultura della vita, “merita un particolare apprezzamento la donazione degli organi”. Si profilano, però, all’orizzonte una ridda di riflessioni e di interrogativi che in questi casi attanagliano le coscienze.
La donazione dei propri organi si configura come un autentico atto d’amore. Non si dona semplicemente qualcosa di proprio, si dona qualcosa di sé. A tale scopo è necessario un consenso informato. Un gesto tanto impegnativo richiede che la persona sia adeguatamente informata sui processi in esso implicati. L’eventuale consenso dei congiunti ha un suo valore etico quando manchi la scelta del donatore. Per quanto ovvio, un consenso con analoghe caratteristiche dovrà essere espresso da chi riceve gli organi donati. Ma chi è il donatore ed in quale stato si trova al momento dell’espianto? Il donatore di organi è un paziente che si trova in sala di rianimazione. Questo perché non è possibile prelevare un organo da un cadavere, poiché la morte, come comunemente si intende, danneggia irrimediabilmente gli organi per l’assenza di una circolazione continua di sangue e quindi di ossigeno. Condizione necessaria è, dunque, un individuo che è morto clinicamente, cioè in uno stato di morte cerebrale (il suo cervello è elettricamente silente, soltanto il suo cuore batte, vive cioè una vita artificiale). Questa esigenza è di immediata evidenza, giacché comportarsi altrimenti significherebbe causare intenzionalmente la morte del donatore prelevando i suoi organi. Nasce da qui una delle questioni che più ricorre nei dibattiti di bioetica attuali e, spesso, anche nei dubbi della gente comune. Si tratta del problema dell’accertamento della morte. Quando una persona è da considerare certamente morta? Le motivazioni scientifiche vanno oltre i tradizionali segni cardio-respiratori, ponendo, invece, l’attenzione sul cosiddetto criterio “neurologico”, vale a dire sulla rilevazione, secondo parametri ben individuati e condivisi dalla comunità scientifica internazionale, della cessazione totale ed irreversibile di ogni attività encefalica (cervello, cervelletto e tronco encefalico), in quanto segno della perduta capacità di integrazione dell’organismo individuale come tale. Di conseguenza, l’operatore sanitario, che abbia la responsabilità professionale di un tale accertamento, può basarsi su di essi per raggiungere quel grado di sicurezza e di “certezza morale” necessari e sufficienti per poter agire in maniera eticamente corretta.
Molta enfasi, e non a torto, è stata data dalla stampa al nobile gesto del soggetto-donatore ma, soprattutto, alla professionalità che ha contraddistinto le equipes di Palermo e di Catania, appositamente intervenute in sinergica cooperazione con quelle di Ragusa, nonché al triplice espianto, condizione questa che pone il territorio ibleo all’attenzione di tutta la comunità scientifica e medica. Purtroppo, però, non con la stessa enfasi sono stati affrontati argomenti che apparentemente si collocano, forse, come collaterali ma anch’essi di rilevante importanza. Innanzi tutto, corre l’obbligo evidenziare che l’espianto, secondo fonti vicine al comparto tecnico-medico dell’ospedale cittadino, avrebbe dovuto comprendere anche i polmoni ed il cuore. Quest’ultimi organi, che avrebbero potuto salvare altre due vite umane, sono andati persi! Ciò non si è verificato per l’imperizia degli operatori sanitari, i quali non solo hanno operato secondo quella “certezza morale” di cui sopra ma ottemperato a tutte le varie fasi procedurali secondo i dettami della normativa vigente.
Il tempo è tiranno, direbbe qualcuno. Senza dubbio esso è una componente non trascurabile, spesso di non facile gestione, ma che, nel caso in specie, risulta fuori causa! Una delle equipe mediche prontamente interpellate e che ha dato subito la massima disponibilità (per l’espianto dei polmoni e del cuore) è stata quella di una struttura del Nord Italia. Malgrado gli sforzi e l’impegno profusi, la corsa contro il tempo ha dato esito negativo. Problemi logistici legati alle difficoltà di trasporto (di andata, ma soprattutto di ritorno) e, non ultime, viarie hanno costretto quella equipe a soffocare ogni entusiasmo. Più sopra si è accennato alle “pari opportunità tra i cittadini”. Ancora una volta si riscontra il fatto che esistono cittadini di serie “A” e quelli di serie “Z”. Il sistema di trasporto aereo, che in questi casi segue canali differenziati dal giornaliero, si è rivelato poco consono a soddisfare le esigenze connesse alla tempistica: eliporti non fruibili nottetempo o troppo lontani dalla struttura in cui si deve effettuare l’espianto. Medesima situazione, a dir poco drammatica, si riscontra nel sistema viario che nella nostra regione offre non poche falle. Si è argomentato su problemi etici connessi all’espianto degli organi, ma si ritiene che anche quelli appena menzionati abbiano la stessa valenza dei primi. Un appello va, dunque, alle Funzioni Regionali e Provinciali affinché pongano in essere tutti gli accorgimenti e le strutture idonee per limitare o, se possibile, eliminare le discrasie appena lamentate.
Prima di allora l’ultimo atto di amore risulterà sempre dimezzato!
Maria Occhipinti: una Donna Libera
Le vicissitudini umane sono costellate di storie di donne, le quali, attraverso battaglie e lotte politiche hanno riconcettualizzato la loro stessa storia fino a creare dei veri e propri paradigmi storiografici. Attraverso le parole di Joan Kelly si potrebbe affermare che: “…non è solo questione di restituire le donne alla storia, ma soprattutto di restituire la storia alle donne”. Il Novecento potrebbe essere definito come il “secolo delle ribelli”. Non poche le protagoniste del secolo scorso che ha visto la rivoluzione dell’universo femminile in Italia. Il destino della donna, anche nell’immediato dopoguerra, era legato ad un ruolo familiare molto forte. Una di queste donne, che in qualche modo ha detto “no” ad un percorso segnato dalle tradizioni e dalla società, è stata Maria Occhipinti, figlia degli iblei. Questa la delicata ed interessante tematica affrontata in occasione della presentazione del libro di Maria Occhipinti dal titolo “Una donna libera” (Sellerio Ed. 2004, pp. 351, note a cura di G. Grassi), tenutasi venerdì 12 novembre, presso la sala conferenze del Centro Studi “Feliciano Rossitto” di Ragusa. L’apertura dei lavori è stata curata dal Prof. Salvatore Assenza, Vice Presidente del Centro Studi, a cui si è aggiunta la partecipazione della sig.ra Marilena Licitra Occhipinti, figlia di Maria Occhipinti. La presentazione del volume è stata affidata alla Prof.ssa Laura Barone, da oltre cinque lustri impegnata a dare preziosi e numerosi saggi di storia vista al femminile occupandosi di numerose donne iblee che hanno tracciato un solco indelebile nella memoria dei ragusani, caratterizzando quella “zona grigia” dal dopoguerra agli anni Settanta del Novecento. Numerosi gli interventi programmati: l’On. Giorgio Chessari, Presidente del Centro Studi, ha posto l’accento sulla forte personalità di Maria Occhipinti; il Dott. Tonino Solarino, Sindaco di Ragusa, ha richiamato l’attenzione sull’importanza di avere un “luogo della memoria” intitolato alla Occhipinti; infine, il toccante intervento di Pippo Gurrieri, vicinissimo a Maria nei suoi ultimi decenni di vita, che ha evidenziato il carattere e l’animo di questa “grande” donna ponendoli in relazione all’instancabile impegno profuso dalla stessa tanto in ambito sociale quanto in quello politico, paragonandola ad una “donna-Ulisse” per la sua caparbietà nonché per il suo continuo peregrinare.
Anni durissimi quelli attraversati dalla Occhipinti (nata a Ragusa nel 1921), nata in uno di quegli ambienti in cui alle donne, come diceva il siciliano Borghese, “mancava perfino la forza di gemere”. Un ambiente dominato dal “sequestro di parola” nel quale la servitù delle donne era anche una servitù volontaria, vissuta come cosa naturale. La Occhipinti, per la sua tenacia, per il suo spirito libero e indomito, diviene subito una “ribelle” la cui ribellione consiste nell’affermare in maniera prioritaria il diritto proprio alla parola, alla manifestazione ed alla testimonianza.
Il libro narra la vita di ogni giorno, con i mille problemi che il quotidiano vivere pone innanzi ad ogni donna come Maria Occhipinti. E’ l’autobiografia di una donna che porta in sé la condizione “tragica” di “donna libera”. In una sua lettera del 26 ottobre 1983 così scrive: “Non mi sono mai pentita di quello che ho fatto, né potrei abbassare la testa…”. Queste le sue parole sincere ed asciutte come i suoi grandi occhi.
Di fronte a un libro come “Una donna libera”, si è al cospetto di un documento eccezionale ancora capace di far riflettere le coscienze moderne.
Scuola di Polizia a Ragusa
Tutti conoscono il Vigile Urbano e tutti pensano che il suo compito sia quello di dare le “multe” agli automobilisti indisciplinati o di dirigere il traffico.
Senza dubbio una delle funzioni specifiche del Vigile o meglio dell’Agente di Polizia Municipale è quella di Polizia Stradale ossia di far rispettare le regole del Codice della Strada ma questa è solo una delle sue molteplici funzioni. Per questo motivo i corsi di formazione per i neo-assunti mirano a rendere più qualificato il personale che dovrà disimpegnare il servizio assegnato e, nel contempo, renderlo ad una dimensione più a misura d’uomo.
Ciò è quello che si prefigge l’Amministrazione Comunale di Ragusa, unitamente a quella di Scicli, avviando un percorso formativo per 21 unità, delle quali 7 provenienti dal Comune di Scicli. Altre 8 unità, che contribuiranno ad assicurare un significativo potenziamento dell’organico da tempo atteso da tutta la cittadinanza ragusana, saranno inserite in tempi successivi. Sono già trascorse oltre tre settimane dall’avvio del corso inaugurato, il 6 novembre scorso, dall’Assessore alla Polizia Urbana del Comune di Ragusa, presso la sala AVIS con il primo modulo sulla Comunicazione - intotolato “Comunicare il Cambiamento dell’Amministrazione Pubblica Locale: quale ruolo per la Polizia Municipale?” – che è stato curato dal Dr. Gian Piero Saladino, Dirigente della Comunicazione Istituzionale del Comune di Ragusa e formatore esperto della materia. Il Dirigente nel corso del suo intervento ha posto l’accento sulle funzioni della Polizia Municipale - stabilite dalla legge quadro sull’ordinamento della P. M. del 7 marzo 1986 n. 65, recepita in Sicilia con le integrazioni contenute nella legge regionale 1 agosto 1990 n. 17, e succ. modifiche – che è un organo di controllo preposto ad una funzione pubblica in ordine al rispetto delle leggi e dei regolamenti, presidiati da sanzioni di varia natura. Dalla sua costituzione, avvenuta ab antiquo, i compiti del Corpo si sono moltiplicati. Da semplice guardia civica con funzioni di vigilanza e di tutela dell´ordine pubblico si è trasformato in un soggetto ben più complesso e articolato per essere in grado di rispondere alle esigenze sempre crescenti della comunità. In una realtà in continua trasformazione, oggi la Polizia Municipale assume un ruolo fondamentale, impegnato ogni giorno in una costante opera di prevenzione, di controllo del territorio e di servizio al cittadino. Da qui l’esigenza per una maggiore “comunicazione” da parte della Funzione pubblica. Per servire i cittadini in maniera appropriata è necessaria ed indispensabile una forza lavoro adeguata non solo alle mutate esigenze ma, soprattutto, addestrata e capace di intervenire con competenza e professionalità per fronteggiare comportamenti illeciti o criminosi. E’ su questi temi che sarà articolato il percorso formativo che prevede lo svolgimento di tematiche specialistiche da parte di personale qualificato appartenente all’Amministrazione ma anche di personale esterno come il Dr. Domenico Carola, Comandante della Polizia Municipale di Isernia. L’impianto formativo, della durata di due mesi, voluto dai due Comandanti delle Polizie Municipali, Dr. Giovanni Scifo (per Ragusa) e Dr. Francesco Nifosì (per Scicli) ha dato l’imprimatur per una funzione pubblica di eccellenza che deve ascoltare, dialogare e collaborare con il cittadino, restituendo risposte corrispondenti alle sue attese.
Mostra fotografica “Natale in Sicilia”
“…L’uso di allestire il presepe in casa risale al 1517, l’anno in cui San Gaetano da Thiene fu ispirato a predicare l’opportunità di questa testimonianza natalizia…”. Queste le informazioni che ci fornisce Luigi Colaleo in un suo intervento relativo ai presepi della tradizione calatina (in “Presepi di Caltagirone…”, Lombardi Editore, Palermo 1994, pag. 47). Da qui l’esigenza di predisporre il presepe con addobbi e personaggi a volte creati o abbelliti dall’estro artistico di pittori, ceramisti nonché da umile gente dall’animo caldo e generoso. Da qui il sorgere di tradizioni locali che rendono il presepe un evento unico per l’impronta data alle singole creazioni calate in ciascuna realtà territoriale ricca di storia e di antiche tradizioni.
Su questi presupposti trae spunto il percorso fotografico proposto dal dott. Vincenzo Giompaolo, frutto di un interesse e di un impegno ultra trentennale alla ricerca delle radici della tradizione siciliana che volge lo sguardo al Santo Natale sotto diverse forme a volte sacre, a volte profane ma che convergono in un senso “sano” e “genuino” che si appella alla sensibilità dell’animo di ciascuno. Nel clima natalizio, in cui la Chiesa lancia il suo grido di gioia ed invita tutti a rendere omaggio a Gesù bambino, nato nella più grande povertà, ben si inserisce la mostra fotografica di Giompaolo allestita per l’occasione presso il “Tempio del Cioccolato Gisol” di Ragusa con la partecipazione e l’intervento di numerose strutture ragusane impegnate da tempo sul campo culturale e delle tematiche etniche, quali il Centro Servizi Culturali, l’Ass. Culturale Docenti “G. B. Hodierna”, l’A.S.P.E.I., l’Associazione Culturale “Sicily is one” nonché il Comune di Ragusa. La mostra fotografica, avente per tema il “Natale in Sicilia”, si articola in una ventina di fotografie, le più rappresentative dell’opera di Giompaolo, che toccano il cuore della Sicilia immortalato nei suoi momenti più belli e tradizionali che possono essere riassaporati attraverso un CD-rom appositamente predisposto. In esso sono raccolte quasi un centinaio di foto scattate dallo stesso Giompaolo, ricercatore di problematiche etnografiche e studi sulle tradizioni popolari siciliane. La presentazione dell’opera è avvenuta in presenza di un folto pubblico che, presso la sala esposizioni della “Gisol”, ha seguito con molto interesse l’intera iniziativa culturale. Ad aprire i lavori, dopo i saluti di Giorgio Solarino (responsabile marketing della “Gisol”) e del dott. La Mesa (responsabile dell’Ass. Culturale “Sicily is one”), è stato il presidente del Centro Servizi Culturali di Ragusa, il prof. Cirnigliaro, che ha posto l’accento sulla valenza dell’opera di Giompaolo vista sia da un punto di vista culturale che etnografico. Significativa la presenza dell’On. Bartolo Pellegrino che, con il suo intervento, ha evidenziato l’esigenza di rivalutare le nostre tradizioni quali uniche testimonianze di un passato che sembra lontano ma a cui siamo legati attraverso un cordone ombelicale dal quale traiamo ancora oggi sostentamento.
Una mostra ed un CD-rom, dunque, dedicati ai presepi, ai “pastureddi”, ai “bammineddi”, ai “ciaramiddari”, alle “nuvene” natalizie ed alle tradizioni della nostra isola, con particolare attenzione a quelle della zona sud-orientale. Fra nostalgia e volontà di conservare le immagini di un passato che sta scomparendo, Vincenzo Giompaolo propone il “suo” Natale visto dietro la macchina fotografica nei tanti paesi della Sicilia, con le loro usanze, con le loro peculiarità, ma accomunati dallo stesso sentimento di partecipazione gioiosa, corale all’evento più sentito dell’anno. Non è il Santo Natale ad essere immortalato, bensì il cuore di ciascuno pieno di gioia e di speranza.
Natale sotto i ponti
In un mondo tormentato da incubi catastrofici e oppresso da una fredda tecnologia computerizzata è quasi necessario tentare di ricostruire un incontro con la natura. Il periodo che precede e introduce la festività del Santo Natale è sicuramente propizio per cercare di assaporare la bellezza del nostro territorio. Non si possono trascurare i molti aspetti paesaggistici spesso affascinanti e a volte sconosciuti ospitanti una simbiosi botanico-naturalistica di interessante struttura e di immediata comprensione. Nel tormentato assetto orografico dell’area iblea, tra lo snodarsi di vallate ora incassate come canyons ora sboccianti in dolci declivi, si può cogliere l’essenza di un paesaggio irripetibile.
E nella ricerca dei fenomeni naturali immediatamente fruibili (ambiente paesaggistico e botanico) si pone l’iniziativa proposta ed intrapresa dal comitato di quartiere “Carmine-Putie”, Santa Maria delle Scale e Santa Lucia in sinergica cooperazione con il Comune di Ragusa. Si tratta di una “passeggiata ecologica” nella vallata Santa Domenica attraverso la “Panoramica dei Ponti” che si snoda lungo il percorso che da Largo San Paolo risale la scalinata che collega a Piazza Carmine. Una iniziativa sicuramente unica nel suo genere che si propone di far conoscere dei percorsi inediti nonché la possibilità di gustare un aspetto paesaggistico dal sapore antico e, ancora in parte, selvatico.
Il percorso pedonale - ricco di basole e dentelli di pietra locale, posti in opera con la stessa tecnica a secco degli antichi “mastri” e “brurata” di sigillatura dei giunti - accompagna l’incedere curioso del viandante facendo scorgere ora scorci arborei ora ruderi di umili vestigia – il mulino ad acqua, ubicato “a Cava”, sotto la chiesa del Carmine - divenuti quasi irriconoscibili dall’ingiuria del tempo. All’imbrunire, mentre gli ultimi raggi solari si nascondono dietro le declinanti colline che ad anfiteatro circondano il suggestivo scenario ambientale, sorge in penombra l’arroccato quartiere dell’antico centro storico, “Jusu”, Ragusa-Ibla, con le sue variegate luci. Dalla “panoramica” sembra scorgere un quadro barocco, un pezzo al naturale di Presepe pulsante e vivente con scorci e “monumentalità” solenni determinati dagli elementi più imprevisti e disparati: dalla fontanella al pezzo di finestra antica, dai ferri battuti, ritorti ed arrugginiti alla fitta teoria di viuzze che legano le case, le une addossate alle altre, attraverso una “tramatura” dal sapore medievale.
E’ una passeggiata che apre l’animo ed il cuore a vecchie speranze e timori che sono gli stessi della nostra infanzia nel corso della quale tutto appariva diverso ed il cielo, con la Luna d'argento e le stelle dorate, era pieno di gnomi, folletti e fatine incantate che regalavano una pioggia d'auguri ed un pensiero gentile per un Santo Natale.
La passeggiata costituisce, pertanto, un modo alternativo e certamente valido per cercare di fornire un utile supporto alle politiche, peraltro già avviate dall’Amministrazione comunale, volte ad un maggiore richiamo turistico della nostra zona nonché al rilancio del centro storico del capoluogo ibleo.
Giuseppe Nativo